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La saga balcanica di Starova
Osservatorio Balcani Guide per Area Macedonia (FYROM) Macedonia Notizie
Data pubblicazione: 10.09.2008 09:21

Luan Starova
La nostalgia dell’Albania, la “saga balcanica”, dieci libri scritti in macedone e albanese, la riflessione sulla lingua, l’emigrazione. Sono i temi centrali dell’opera del grande scrittore Luan Starova, incontrato a Skopje dalla nostra corrispondente
Luan Starova, nato a Pogradec nel '41, sulla sponda albanese del lago di Ohrid, è tra gli scrittori albanesi più tradotti. Vive a Skopje dove è emigrato nel '43 insieme alla sua famiglia, una delle più importanti del sud albanese. Francesista, giornalista, ha coperto varie missioni diplomatiche per conto della Jugoslavia degli anni '80 e in seguito della Macedonia. Ha scritto la “Saga balcanica”, una serie di libri scritti in macedone e in albanese, in cui tratta il destino complesso della sua famiglia di migranti, con una scrittura raffinata ricca di riflessioni sulla storia balcanica dell'ultimo secolo. E' l'unico membro albanese dell'Accademia macedone delle scienze. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali. Della sua saga in Italia sono stati pubblicati “Il Tempo delle capre” dalla casa editrice Pironti e "Sacrificio balcanico" dalla ACUSTICA Edizioni (Lecce).


Lei ha scritto una saga in dieci volumi che iniziano con i “Libri del Padre” e trattano una gamma ricchissima di aspetti della storia balcanica dell'ultimo secolo. Come nasce quest' opera?

Cerco di raccontare il destino di una famiglia albanese in cento anni di storia balcanica. Io provengo dall'altra sponda del lago di Ohrid, da una famiglia di Pogradec. Siamo stati una famiglia che si è realizzata in esilio, come spesso succede agli albanesi. L'altra parte del confine è sempre stata la mia ossessione. In famiglia abbiamo sempre sognato di ritornarci, è per questo che quando siamo emigrati ci siamo fermati paradossalmente in Macedonia. Infatti portavamo con noi le chiavi delle case in cui avevamo abitato con la speranza che ci sarebbero servite di nuovo. Forse è proprio questo rapporto doloroso con l'Albania lontana che mi fa scrivere. Ma ovviamente evito l'epica e le epopee, perché sono cose d'altri tempi. Le leggende e i miti sono cose di cui hanno bisogno i bambini quando li si vuole addormentare.

L'unica cosa che sopravviveva ai nostri traslochi erano i libri di mio padre, aveva una biblioteca balcano-babelica, ricchissima di libri in tutte le lingue balcaniche antiche e moderne. E' stato questo il mio mondo mitico da cui è partito tutto. Ho cercato di usare delle metafore globali attraverso cui cerco di spiegare a me stesso la storia di questa famiglia balcanica, che poi è una micro-storia, ma che risente di tutto ciò che è avvenuto in queste terre in un secolo.

Ma ho voluto scrivere anche di diversi momenti della storia albanese di cui si parla poco, che mi hanno sempre colpito, come ad esempio il protettorato francese di Korça durante la Prima guerra mondiale, in cui mio padre era un alto funzionario. E' importante scavare questi aspetti, che sono fondamentali, perché hanno avuto una notevole impronta nel fare di Korça quel centro della cultura albanese che è diventata in seguito.

Il primo contatto con l'Albania, anni dopo l'emigrazione è stato sconvolgente. Lei le ha dedicato il libro “Il museo dell'Ateismo”...

Sì, era il ''79, iniziava un po' di collaborazione tra l'Albania e la Jugoslavia di allora, ma l'Albania rimaneva pur sempre stalinista. Io fui mandato con una troupe teatrale in Albania e lì mi imbattei in tutte quelle formule staliniste che per noi non avevano più senso in Jugoslavia. Vidi a Scutari il Museo dell'ateismo, forse l'unico al mondo. In quei tre giorni di viaggio, oltre a essere sorvegliato per essere stato un nemico del popolo in quanto figlio di emigranti, rischiai la vita per aver parlato troppo contro lo stalinismo. E' un miracolo che ne sia uscito vivo. Quell'esperienza sconvolgente, l'Albania di allora, la terra che mi tormentava, ho sentito il bisogno di esteriorizzarla in quel libro.

Come è stata la sua esperienza, che spesso definisce nei suoi romanzi “da pecora nera”, un albanese che però si trova a vivere tra i macedoni, nel quartiere macedone di Skopje e che riceve un'istruzione in macedone?

Bisognava vivere e sopravvivere con quello che la vita offriva. Gli albanesi della Macedonia sono stati la parte più debole e quella più facile da manipolare in Jugoslavia. Era una comunità rimasta isolata per un periodo molto lungo, nonostante l'apertura della Jugoslavia di allora. Il processo dell'inurbamento è stato molto lento e non si è ancora compiuto. Fino a poco tempo fa il 70% della popolazione albanese viveva in campagna. E un po' come dico nel mio libro “Il tempo delle capre”, il regime ha cercato di invertire questo rapporto, ma nel caso degli albanesi non ci è riuscito. Chiudendosi e ritirandosi nella propria comunità, sono rimasti legati alle strutture religiose e questa mancanza della laicizzazione ha causato un'enorme arretratezza. L'ambiente dei macedoni invece era molto più aperto. La mia famiglia si è trovata quindi in questa situazione antinomica.

Il suo bilinguismo è nato da questo modo di vivere?

Sì è stato un processo naturale. Il fatto che io scriva sia in albanese sia in macedone, è in qualche modo un vantaggio perché non faccio parte dei ghetti. Naturalmente mi sento più libero in macedone, perché è la lingua in cui mi sono istruito, invece l'albanese è una lingua più difficile. Comunque come molti bilingui si può dire che sia a metà tra entrambe le lingue, ma in nessuna delle due propriamente. E' la mia vita che mi impone una situazione antinomica. Naturalmente è uno svantaggio essere nella mia posizione, specie nei momenti in cui le crisi e i nazionalismi si acuiscono. C'è chi dice: “ma perché scrive nella lingua del nostro nemico...” e così via. In realtà, ho ereditato questa tradizione dalla mia famiglia, in cui non sono il primo che scrive anche nelle lingue dei nostri vicini. La lingua è una sorta di prigione ma può anche diventare un ponte. Mio padre diceva sempre “impara più lingue che puoi, impara soprattutto le lingue dei nostri vicini”. Questa è un'ottimo spirito di tolleranza, anzi abbiamo una funzione, perché siamo capaci di trasmettere la cultura albanese ai macedoni che non la conoscono da vicino, facendo in modo che si avvicinino. Per dirla con Montesquieu “Sono francese per caso, innanzitutto sono uomo”.

E i macedoni, leggono i suoi libri?

I macedoni sì, sono molto soddisfatto del loro interesse. Anche la critica ha seguito con attenzione e in modo molto positivo buona parte dei miei romanzi. Il mio problema invece è l'Albania, dove gli editori mi sembra non abbiano granché interesse per la letteratura che si fa in Macedonia. Sembra che per loro noi siamo una periferia poco interessante. E' un paradosso che i miei libri vengano tradotti e pubblicati in Francia dalla casa editrice Fayard, o vengano tradotti in 14 lingue, e non riescano che in piccola parte a venir pubblicati in Albania. Succede anche a molti altri scrittori della Macedonia. E' sicuramente vero che il nostro albanese è lacunoso, non è quello della Tirana letteraria, perché noi viviamo sempre tra due o tre lingue. Ma è una cosa naturale perché con queste lingue viviamo, mentre per preservare l'albanese bisogna fare uno sforzo particolare. C'è bisogno di un sostegno, anche perché l'albanese è una lingua molto difficile. Ci dicono infatti che abbiamo troppi slavismi, non sappiamo l'albanese. Il fatto però che una casa editrice di prestigio come la Toena abbia pubblicato tre miei libri, significa che anche questa barriera si può abbattere.

Si dice infatti che Skopje soffre l'arroganza di Tirana e l'indifferenza di Pristina...

E' una questione storica. Nei tempi in cui c'erano confini tra di noi, ciò che era proibito pubblicare a Tirana veniva pubblicato in Kosovo. Mentre i macedoni sono stati i più isolati e i meno emancipati. In Albania vige un egocentrismo inspiegabile che è paradossale, soprattutto oggi, quando nulla ci vieta di comunicare. Si ha bisogno invece di solidarietà. Ma ci sono anche scambi culturali. Ad esempio in agosto abbiamo avuto a Ohrid la grande soprano albanese Inva Mula, che si è esibita con la filarmonica di Skopje.

Quale è la sua posizione riguardo il dibattito sulla revisione della lingua standard che sostengono alcuni intellettuali del dialetto gheg?

Sono discussioni inutili. L'asse dell'albanese letterario è il risultato di un processo ultimato. Uno standard ce l'abbiamo ed è un atto gigantesco nonostante ora porti il timbro del dittatore. In realtà è stato fatto da letterati che conoscevano e amavano la lingua albanese, come Aleks Buda. La rivolta da parte di chi rimette in discussione lo standard dimostra frustrazione e impazienza di guadagnare prestigio linguistico, ma nulla può essere forzato. Gli albanesi non si conoscono tra di loro, e da questo nascono i particolarismi. Però oggi hanno un vantaggio, ciò che prima veniva fatto per cento anni oggi si fa in dieci grazie ai mezzi di comunicazione. Se tutti gli albanesi nei Balcani guardano la stessa TV che parla l'albanese di Tirana il discorso sulla messa in discussione dello standard perde senso. Questo standard ha una tradizione di 40 anni, come si può ritornare indietro a questo punto se non c'è nulla che possa competere con esso? Il macedone ad esempio è stato codificato nel '46 e nonostante i dialetti, non si discute di una ricodificazione. Il gheg del Kosovo può essere standardizzato come è stato standardizzato l'arberesh da Jeronim De Rada nel XIX secolo. Ma l'albanese letterario è un'altra cosa.