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La metamorfosi delle città in transizione
Osservatorio Balcani Guide per Area Italia Italia Notizie
Data pubblicazione: 24.07.2009 06:12

Belgrado (AudreyH/flickr)
La scorsa primavera un ciclo di incontri per esplorare le ''città degli altri''. Un'iniziativa promossa dall'Urban Center Bologna a cui ha partecipato anche Osservatorio. Pubblichiamo l'approfondimento realizzato per quell'occasione dedicato alle città balcaniche
Bologna - Urban Centre
Le città degli altri, 12 marzo 2009


Come scrisse negli anni Sessanta il filosofo francese Henry Lefebvre (1), la città è la proiezione spaziale della società e il suo studio consente di cogliere le principali trasformazioni sociali nel corso del tempo.

Il nostro breve esame della città balcanica odierna parte dall'esperienza del socialismo reale attraversando le varie fasi delle metamorfosi urbane dei Balcani occidentali: la fase totalitaria nell'immediato dopoguerra, a cui segue fino agli anni '70 un periodo di crescita economica e di rapido sviluppo, poi negli anni Ottanta la stagnazione economica e la cosiddetta ruralizzazione delle città, per arrivare infine negli anni successivi al collasso del sistema socialista.

La città totalitaria. Nova Gorica e Tirana

Dopo le pesanti distruzioni della Seconda guerra mondiale, la ricostruzione della città socialista avviene con il coinvolgimento più o meno coatto delle masse. Lo stato esercita pieno controllo sullo sviluppo urbanistico e demografico: pianifica la città, introduce permessi di movimento e di residenza, cerca il controllo sociale totale.

Nonostante siano state coinvolte in profondi cambiamenti – spesso drammatici – e segnate dallo scontro violento tra interessi pubblici e privati, le città dei Balcani mantengono un forte spirito europeo, e sono spesso in grado di elaborare proprie soluzioni urbanistiche originali.

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La città è uno dei simboli dello sforzo rivoluzionario per la costruzione del nuovo mondo, del progresso e della modernizzazione. Il dopoguerra è l'epoca dell'eroismo epico, dell'uomo nuovo socialista, del lavoro “volontario” di uomini, donne, bambini che contribuiscono all'edificazione della città, ma anche del nuovo sistema politico e della società nuova.

Esemplare è la vicenda di Nova Gorica, edificata dal nulla sui prati attorno a Gorizia, dopo la definizione del nuovo confine italo-jugoslavo (2). La disegnò Edvard Ravnikar, il grande architetto e urbanista sloveno, allievo di Plečnik e di Le Courbusier, che anni dopo ricordava:

“Era stato deciso che si voleva costruire qualcosa di grande, di bello, di altero, qualcosa che brillasse oltre il confine; tutti, dal contadino ai più alti rappresentanti politici, ci entusiasmammo per questa iniziativa. L’urbanistica moderna divenne così per noi anche un’arma per la lotta nazionale e politica.” (3)

Nova Gorica era la città del nuovo mondo per eccellenza, che lanciava la sfida al sistema capitalista per mostrare la superiorità del proprio modello, della sua rivoluzione.

In senso lato, in quegli anni, lo spazio urbano veniva pianificato e definito dal sistema produttivo: la residenza del cittadino socialista era costruita intorno ai luoghi di lavoro; gli agglomerati urbani integravano il settore produttivo, abitativo, commerciale, culturale, del tempo libero.

In Jugoslavia, la fase totalitaria viene superata già con gli anni '50, a seguito della rottura tra Tito e Stalin, con l'elaborazione di un modello autoctono di socialismo autogestito. In Albania, invece, il controllo totale dello stato sulla città dura fino alla caduta del regime comunista nel 1991 (4).

Fino all'ultimo, il regime albanese controlla rigidamente i spostamenti della popolazione e limita la crescita di Tirana che al massimo del suo sviluppo raggiunge i 350 000 abitanti. Sono note le immagini della capitale senza auto private né traffico, con una pianificazione urbana che lasciava grande spazio a parchi, alberi e giardini, tanto celebrata dai filo-Enveristi europei che le assegnarono il titolo di capitale verde d'Europa. Se la città era il simbolo della modernizzazione e del progresso, in Albania la campagna era il luogo dell'arretratezza ma anche la destinazione punitiva per chi era inviso al sistema.

Tra città e campagna. Dalla crescita economica alla stagnazione degli anni Ottanta

Con gli anni Sessanta e la crescita economica in Jugoslavia il sistema autoritario allenta gradualmente la presa sulla società. Il rapido inurbamento viene gestito dalle istituzioni facendo sorgere nuovi quartieri urbani standardizzati, con risultati estetici a volte dubbi, spesso contrassegnati da un'omogeneità monotona e alienante, e tuttavia attenti all'equilibrio tra edifici, spazi verdi e infrastrutture.

I piani edilizi faticano a risolvere il problema della coabitazione di più nuclei famigliari all'interno di uno stesso appartamento pur migliorando il livello di vita della popolazione. Ad esempio, il sogno di una casa propria è uno dei temi centrali del celebre film Ti ricordi di Dolly Bell? di Emir Kusturica (5).

Gli anni Ottanta segnati dalla stagnazione economica portano al definitivo tramonto gli entusiasmi sul progresso, la crescita e la città. Torna l'incubo della coabitazione, rievocato anche da Slavenka Drakulić nel libro Come siamo sopravvissute al Comunismo riuscendo persino a ridere:

“La carenza di alloggi è un problema tanto comune che dopo un po' si smette di farci caso. A dire il vero, faccio fatica a ricordarmi di persone della mia generazione o più giovani di me che non vivano così, assieme ai genitori, anche se hanno passato i quarant'anni. [...] Per noi gli appartamenti erano mitici oggetti di venerazione; erano lo scopo dell'intera esistenza. Una volta che tu te ne sei accaparrato uno, puoi metterti il cuore in pace per il resto della tua vita.” (6)

Ancora una volta, la città riflette la dinamica politico-sociale: in questo caso soprattutto la difficoltà dei regimi nel rispondere alle crescenti necessità delle società. A questo punto sono i cittadini jugoslavi che, per far fronte alla crisi economica, ricorrono al pendolarismo tra città e campagna e al doppio lavoro, e affiancano all'impiego cittadino la coltivazione del campo.

Gli anni Novanta e l'aggressione alle città

Il crollo dei regimi socialisti nei primi anni Novanta si riflette in modi differenti a seconda dei paesi e delle città post-socialiste. Nella Jugoslavia tormentata dalle guerre, Sarajevo assurge a simbolo della guerra contro la città multietnica e la distruzione della sua biblioteca riflette il tentativo di annientare il suo pluralismo culturale.

Alla ricerca di una spiegazione alle guerre, alcuni studiosi hanno identificato nel permanere di un forte legame tra città e campagna la ragione dell'imbarbarimento della città che apre la strada al nazionalismo distruttore della civiltà. Per quanto accreditata, questa lettura dicotomica tra città – campagna è difficilmente condivisibile laddove addossa la responsabilità dell'implosione nazionalistica del paese ai contadini: il nazionalismo è infatti prodotto delle élite intellettuali cittadine diffuso con i media anche nelle campagne (7).

Le guerre di dissoluzione jugoslava segnano ancora oggi il volto delle città balcaniche, non solo con le cicatrici delle granate sui palazzi, ma anche con gli imponenti fenomeni migratori interni che hanno messo in moto: sono centinaia di migliaia i rifugiati e gli sfollati che si sono spostati da una città all'altra, mutando le dimensioni e la composizione demografica delle città, accentuando le dinamiche di segregazione spaziale su base etnica, aggravando il fabbisogno abitativo e provocando il boom edilizio spesso informale.

Nel caso dell'Albania, invece, ci troviamo di fronte ad un esempio macroscopico dell'esplosione della città nel post-comunismo del tutto svincolato dall'esperienza della guerra. Con il venir meno del controllo dello stato, a partire dal 1992 Tirana triplica le sue dimensioni nel giro di dieci anni. Si tratta di una crescita tanto vitale quanto caotica e incontrollata: la capitale albanese è assediata dai chioschi che abusivamente occupano i parchi, le strade, le piazze. Nel centro, la costruzione di decine di grattacieli l'uno addosso all'altro stravolge il tessuto urbano ed esaspera molti dei vecchi abitanti. Nella periferia sorgono enormi quartieri abusivi, senza alcuna infrastruttura di base (fognature, strade, scuole), dove trovano nuova residenza gli immigrati in fuga dalle regioni senza prospettiva economica. Lo spazio pubblico viene preso d'assalto e chi dovrebbe difenderlo - poliziotti, funzionari pubblici - al contrario, approfitta a volte della sua posizione per arricchirsi.

Già verso la fine degli anni Novanta ci sono stati tentativi di riportare sotto controllo queste dinamiche. Uno dei più noti e innovativi è quello del sindaco di Tirana, Edi Rama, che è riuscito a far abbattere i chioschi abusivi dal parco principale della città e si è fatto promotore di un rilancio dell'immagine di Tirana ridipingendo le facciate grigie di alcuni edifici del centro cittadino con esiti più o meno felici (8). Nonostante questi sforzi di restyling, di fronte al settore edilizio, vero motore dell'economia albanese odierna, le istituzioni rimangono deboli e i cittadini impotenti.

La città diviene simbolo della democrazia che fagocita se stessa. È l'era di quello che lo studioso Kai Vöckler nel caso del Kosovo ha definito come “turbo urbanesimo” ovvero la crescita esponenziale, informale e abusiva delle costruzioni, con frequenti legami con la mafia edilizia (9).

Città in cerca d'autore


Se in alcune città l'erosione dello spazio pubblico prodotta dal turbo urbanesimo è il problema più evidente, altrove domina la crisi della città intesa come il luogo della fabbrica socialista. Kragujevac in Serbia, la città della Zastava, il simbolo dell'industria automobilistica dei Balcani, ne è un esempio manifesto e parla della difficile transizione verso una città post-industriale (10).

A vent'anni dal crollo dei sistemi socialisti, oggi il territorio urbano è concepito in base ai parametri propri della città capitalista che differenzia le zone urbane in base alla loro rendita e al loro utilizzo e introduce nuovi percorsi di polarizzazione socio-spaziale come una più marcata segregazione residenziale sulla base del reddito (11).

Ora che il mercato edilizio/abitativo è guidato dalla domanda, anziché da una offerta definita politicamente, il centro città da luogo del potere si è trasformato in city commerciale. Nelle periferie, spesso raggiungibili solo in auto, vengono costruiti i centri commerciali, simbolo dell'agognato benessere occidentale più che luoghi del risparmio.

Il venir meno del controllo e della pianificazione urbana dei regimi implica anche il tramonto della città ordinata. La Belgrado linda e rassettata degli anni Settanta non esiste più da tempo. Tra le righe del degrado urbano Slavenka Drakulić legge l'eredità della guerra silenziosa tra il regime socialista ed i suoi sudditi:

“Noi ci comportiamo come se lo spazio pubblico non appartenesse a nessuno; o, peggio, come se appartenesse al nemico, e il nostro sacro dovere fosse di combattere tale nemico sul suo territorio, fino a sfinirlo. [...] Ma il problema è che nella nostra mente ‘pubblico’ è uguale a ‘Stato’, e ‘Stato’ è uguale a ‘nemico’. Se non puoi distruggere il sistema, puoi certamente distruggere una cabina telefonica, una macchinetta per i biglietti, un parchimetro, oppure i fiori nel parco. In questa guerra silenziosa, la parte sconfitta è rappresentata dalle nostre città.” (12)

Il passato socialista continua ad esercitare la propria influenza sulla città anche in un altro ambito: quello della costruzione della memoria pubblica. Se nella Jugoslavia di Tito le piazze e le strade erano il teatro della celebrazione dell'epopea partigiana, oggi i monumenti celebrano i nuovi eroi delle varie nazioni (13).

In conclusione, parlare di città post-socialiste significa ragionare su città che, parallelamente alle loro società, sono intrappolate in una difficile transizione dalle molteplici componenti: il passaggio dal governo autoritario della città pianificata, alla città della governance orizzontale; da una città della fabbrica a una città capitalista e del consumo; da città integrate nelle rispettive economie nazionali a città del sistema economico globalizzato.

La transizione al mercato e alla democrazia liberale si è rivelata per molti versi più complessa e più lunga del previsto nei Balcani occidentali. La complessità delle sfide che attendono le città balcaniche non troverà adeguata risposta se non creando spazio per la partecipazione e il confronto tra la strategia del pianificatore e i bisogni dei cittadini, tra gli interessi degli investitori stranieri e la forza delle autorità locali, tra le diaspore che investono le rimesse nella costruzione di case e l'intraprendenza della società civile locale. Le città nei Balcani sono in cerca d'autore.


note:
(1) Lefebvre Herny, Le droit a la ville [Il diritto alla città]. Paris: Anthropos, 1968

(2) Sulla costruzione si segnala il documentario La città sul prato / Mesto na tranviku di Anja Medved e Nadja Velušček, Kinoatelje, Gorizia 2004. Un estratto è pubblicato su www.osservatoriobalcani.org/aestovest

(3) Queste parole di Ravnikar sono citate in un articolo sviluppo urbano di Nova Gorica, pubblicato sulla rivista goriziana Isonzo – Soča (n.70/71, dicembre 2006-gennaio 2007) e ripreso su Osservatorio Balcani e Caucaso: http://www.osservatoriobalcani.org/aestovest. La tradizione architettonica e urbanistica jugoslava è da qualche tempo oggetto di una certa riscoperta, come mostrano alcune iniziative recenti quali il Festival dell'Architettura 07/08 ha prodotto la mostra "Il paesaggio della memoria. Edvard Ravnikar – Bogdan Bogdanović”; il Museo d'architettura di Basilea in collaborazione con il Museo d'architettura di Vienna (AZW) ha organizzato la mostra Balkanology che sarà esposta presso l'AZW da ottobre 2009 (si veda anche l'intervista a Kai Vöckler uscita in due parti su Osservatorio Balcani e Caucaso il 16 e il 18 marzo 2009).

(4) Sjoberg, Orian (1994) 'Rural Retention in Albania: Administrative restrictions on urban-bound migration', East European Quarterly. vol XXVIII(n.2) pp.205-233.

(5) Ti ricordi di Dolly Bell? (titolo originale Sjecas li se, Dolly Bell) opera prima di Emir Kusturica con sceneggiatura di Abdulah Sidran, vinse il Leone d'oro a Venezia nel 1981.

(6) Drakulić Slavenka, Come siamo sopravvissute al comunismo riuscendo persino a ridere. Milano: Il Saggiatore 1997; Edizione EST. p. 96 e p. 101.

(7) Buden Boris, 'L'Urbanità come alibi', trad.it. (www.ecn.org/balkan), Transeuropéennes, n. 10, 1997.

(8) Per questa operazione Rama vinse nel 204 il premio di miglior sindaco del mondo offerto dall'organizzazione World City Mayor http://www.worldmayor.com/.

(9) Vöckler Kai (ed.), Prishtina is everywhere. Turbo Urbanism: the Aftermath of a Crisis [Pristina è dappertutto. Turbo urbanesimo: le conseguenze di una crisi] Amsterdam: Archis 2008.

(10) In merito si veda ad esempio il dossier “Pianeta Zastava” di Osservatorio Balcani e Caucaso, 21.09.2005, http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/6683.

(11) Petrović , Mina (2005) 'Cities after Socialism as a Research Issue', DP34 South East Europe Series, Centre for the Study of Global Governance, London School of economics and political science, London, UK.

(12) Drakulić Slavenka, ibidem, p. 161

(13) Il documentario Il cerchio del ricordo (di Andrea Rossini, OB, 2007) indaga proprio le politiche della memoria nella Jugoslavia di Tito e successivamente quelle dei regimi nazionalisti degli anni Novanta. Più in generale, il tema della memoria della guerra e della rielaborazione del passato nei Balcani e anche in Europa è al centro degli ultimi due convegni di Osservatorio Balcani e Caucaso. Tutti gli atti sono disponibili sul portale www.osservatoriobalcani.org nella sezione “Memoria in Europa” e in “Cattive memorie”.