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Osservatorio Balcani Racconti, diari di viaggio
 

Viaggio in Serbia tra passato e futuro

05.02.2010   

Temporale in Vojvodina (Zarko Drincic/Flickr)
Dal Nord-est italiano alla Serbia. Un diario di un viaggio di lavoro. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Fabio Romano

Parto per la prima volta per una trasferta di lavoro. Destinazione: Novi Sad, Provincia Autonoma della Vojvodina. A giudicare dalle facce aggrottate ed incuriosite dei miei amici, non sembra un posto molto famoso. Spiego loro che si tratta della parte settentrionale della Serbia, ma il nome del paese balcanico evoca i tragici avvenimenti delle guerre degli anni novanta e non fa altro che aumentare le rughe sulla fronte di chi mi ascolta. Gioco l’ultima carta: spiego che si tratta di un ex pezzetto dell’Impero Austrugarico ed allora gli sguardi si rasserenano un poco. Dubito però che abbiano capito dove vado. Chissà perché quando dici che ti mandano all’estero per lavoro tutti pensano a Parigi, Londra o Berlino…

Si parte dunque. Destinazione Vojvodina. Il viaggio in macchina è lungo. Non è la prima volta che vado in Serbia ma sono curioso di vedere come le cose stanno cambiando. Dopo alcune ore di viaggio incontriamo le prime avvisaglie della Pianura Pannonica. Il cielo terso si unisce fuori dell’orizzonte autostradale con il suolo scuro. È la fertile terra nera che lungo i secoli ha contribuito a riempire i granai delle popolazioni locali e dell’impero austroungarico. In realtà la terra non è proprio nera nera, ma è di un rosso scurissimo che mi richiama alla mente i lunghi secoli di lotte e battaglie che si sono consumate su questo suolo.

La pianura continua senza sosta ed al tramonto varchiamo la frontiera, come cantava De Andrè. Com’è cambiato il confine croato-serbo, da quella fine di dicembre di qualche anno fa, quando per la prima volta sono entrato in Serbia! Allora, una distesa di fango e nevischio dalla quale emergevano le garitte dei doganieri dava il benvenuto ai visitatori. Poi, lo sguardo severo della guardia di confine scrutava con acribia i tuoi documenti. Ricordo di aver abbandonato l’ordinata Croazia con un brivido di eccitazione.

Ora è diverso: le baracche sono nuove e ben illuminate, le code si sono ridotte e in pochi minuti una poliziotta serba dai profondi occhi neri ci timbra i passaporti: entriamo in Serbia.

Godiamo ancora per qualche chilometro di strada dritta, tra il confine di Batrovici e Ruma, dove abbandoniamo l’autostrada. Poi, prima di arrivare a destinazione incontriamo gli unici rilievi della provincia, le basse e fertili colline dalla Fruska Gora, con la sua stretta e tortuosa strada che li attraversa. Infine a Novi Sad, la fortezza di Petrovaradin ci accoglie specchiandosi sul Danubio in questa placida sera. Attraversiamo la città ed arriviamo ormai a notte in albergo, dove ceniamo sotto il benevolo sguardo di un ritratto del Maresciallo Tito ammantato di drappi rossi. L’albergo è di gran lusso e frequentato quasi esclusivamente da businessmen occidentali: mi viene il dubbio che ormai il quadro del padre della Repubblica Jugoslava sia appeso a mo di attrazione turistica, piuttosto che per un attacco di nostalgia del capocuoco.

Il giorno dopo iniziamo gli incontri di lavoro. I partner serbi ci portano come ouverture un ottimo caffè turco e fanno a gara per illustrarci i vantaggi del commercio con loro: posizione geostrategica della Vojvodina nel cuore dell’Europa, all’incrocio degli assi paneuropei dei trasporti, moderata tassazione sui profitti, sovvenzioni per la creazione di nuove imprese, accordo doganale preferenziale con la Russia, etc etc. , Insomma la Serbia sembra un vero e proprio ponte per fare big business con l’Est Europa. Il mondo economico serbo ha voglia di Europa e di libero scambio.

Le riunioni e gli impegni si susseguono per tutta la mattina. Poi, nel primo pomeriggio, un attimo di calma mi permette di salire sul tetto del palazzo dove lavoro. Lo sguardo si allarga: a sud la Fruska Gora ci cinge dolcemente, una lasca cintura di colline e di vigneti. Verso nord la vista si perde nella vasta zona agricola che caratterizza la Vojvodina: un mosaico di appezzamenti e campi che si susseguono fino a Sombor, al confine ungherese ed oltre. Infine, a nord est si allarga il Banato, a lungo pomo di discordia tra l’Impero Ottomano e l’impero Austrungarico e poi tra questo ed il giovane stato Serbo.

All’improvviso un pensiero: siamo a pochissimi kilometri da Carlowitz, o meglio Sremski Karlovci, come si chiama ora. D’un tratto mi pare di avvertire il respiro della grande storia: lì infatti il 26 gennaio 1699 venne firmata la Pace di Carlowitz tra la Lega Santa e l’Impero Ottomano. Da questa sconfitta iniziò quella grande fase di ripensamento della politica interna ed anche esterna ottomana che sarebbe poi culminata nella nel periodo delle Tanzimat o riforme. Da quella cittadina sulla riva del Danubio sarebbe partita la scintilla iniziale che portò gli Ottomani ad interrogarsi sul perché di quella sconfitta e poi ad aprirsi e conoscere quell’occidente che per lunghi secoli era rimasto ‘splendidamente’ isolato ed ignorato dagli Ottomani in quanto dar-al-harb, terra della guerra e degli infedeli. Che grande tornante delle storia ottomana e balcanica si rispecchia sull’ansa del Danubio davanti Sremski Karlovci.

Le telefonate ricominciano a fioccare e devo rientrare in ufficio. Il pomeriggio sarà ancora lungo e stasera mi aspetta anche la cena ufficiale. Poi, subito a nanna, domattina si va a Belgrado per i restanti impegni e poi si torna subito a Udine.

Mi alzo di buon mattino per preparare la valigia. Scosto le tende: piove e fa freddo. La temperatura è calata di oltre 5 gradi e mi accorgo che la mia giacca sarà ampiamente sottodimensionata rispetto alle condizioni esterne.

Partiamo dalla Vojvodina e attraversiamo la grigia autostrada E76 che congiunge la capitale della provincia autonoma (i Vojvodinesi sono oltremodo attaccati alla loro autonomia) alla capitale della Repubblica Serba. A Belgrado la Koshava, il vento locale fa la parte del comitato di accoglienza. Unito alla pioggia fitta, si infila nel collo e nelle maniche della giacca. Arriviamo intirizziti ed infreddoliti agli appuntamenti: neppure l’ennesima tazza di caffè riesce a riscaldarci. Il principio di ipotermia agli artì dà segni di regressione durante il pranzo all’Ambasciata Italiana e l’incontro con la comunità italiana che da anni vive ed opera in Serbia. Al tavolo si scoprono molte storie diverse: dall’imprenditore che si è trasferito, allo studente triestino innamoratosi di una ragazza locale, al ristoratore che fa conoscere la cucina italiana nei Balcani.

Poi, si riparte, verso il Friuli Venezia Giulia, verso casa. Ri-varchiamo il confine a metà pomeriggio: abbandoniamo progressivamente i nuvoloni neri che incombono sulla Serbia.Corriamo verso il sole che tramonta. Fa strano, per gente del Nord Est tornare a casa, verso ovest.