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Il martello di Ergenekon
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Data pubblicazione: 26.02.2010 10:58

Markus Wichmann/flickr
Alti ufficiali delle Forze armate turche avrebbero preso parte al piano “martello”, un complotto per rovesciare il governo in carica e introdurre lo stato di crisi. Numerosi gli arresti a seguito dell'operazione. Nuovi segnali di perdita di fiducia della società nei confronti dell'esercito
A due anni da quando la magistratura ha scoperto l’esistenza dell’organizzazione sovversiva Ergenekon, accusata di aver tramato un complotto per rovesciare il governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), lunedì scorso la Turchia si è trovata di fronte a un nuovo piano per un presunto golpe in cui sarebbero coinvolti diversi alti ufficiali dell’esercito.

Il 22 febbraio, in seguito all’operazione della polizia effettuata contemporaneamente in nove città, sono stati fermati 49 militari. Fino a ieri (25 febbraio) sono stati convalidati venti arresti, quindici indagati sono stati rilasciati mentre altri interrogatori sono ancora in corso. Tra gli arresti figurano anche due ammiragli in servizio, tre ammiragli e tre generali in pensione.

Sempre nella giornata di ieri sono stati interrogati İbrahim Fırtına, ex comandante dell’Aeronautica e generale in pensione, Özden Örnek , ex comandante della Marina ed ammiraglio in pensione ed Ergin Saygun, ex capo del primo Comando delle Forze armate e generale in pensione.

Vai ai nostri articoli sul caso Ergenekon, l'inchiesta da cui sono scaturiti gli ultimi arresti.

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I comandanti, dopo oltre cinque ore di interrogatorio, sono stati rimessi in libertà. Il vice procuratore capo Turan Çolakkadı ha motivato la decisione del rilascio adducendo il fatto che i militari, già interrogati a dicembre per l’inchiesta Ergenekon, non avevano dimostrato di voler fuggire o di occultare le prove. Çolakkadı ha tuttavia confermato che l’inchiesta è ancora in corso. Oggi (26 febbraio) sarà la volta dell’interrogatorio del generale in pensione Çetin Doğan, accusato di essere il firmatario principale del piano del presunto complotto.

Per tutti gli indagati l’accusa è di aver preso parte nel cosiddetto piano “Balyoz” (martello) risalente al 2003, quando il generale Doğan era a capo del primo Comando delle Forze armate. Il piano avrebbe avuto lo scopo di rovesciare il governo dell’AKP attraverso una serie di attentati tra cui quelli diretti contro due moschee, l’abbattimento di un jet turco da attribuire alla Grecia per provocare una crisi, o l’attacco al museo dell' aeronautica a Istanbul da parte di “integralisti islamici” vestiti di giubbe, turbanti e chador. Ma nei documenti verrebbero indicati anche altri metodi di sovversione come quello di trascinare il paese in una crescente difficoltà economica per suscitare grandi proteste popolari o l’appropriamento dei capitali stranieri e dei conti correnti delle minoranze. Tutto questo processo, che nel frattempo avrebbe anche causato la morte di numerose persone, avrebbe dimostrato l’assoluta necessità di un intervento militare.

Il piano “Balyoz” si distinguerebbe dai precedenti piani rinvenuti attraverso l’inchiesta Ergenekon, perché fornirebbe un percorso d’intervento calcolato fin nei minimi dettagli, incluse le persone da arrestare e i beni di cui entrare in possesso, nonché il piano governativo da attuare dopo il golpe. Secondo l’accusa il piano, in cui ricoprirebbero un ruolo anche alcune organizzazioni della società civile, sarebbe composto da singoli piani d’azione denominati “Çarşaf”, “Sakal”, “Suga” e “Oraj”. I militari coinvolti complessivamente sarebbero 162, di cui 29 generali e 133 ufficiali.

L’esistenza del piano “Balyoz” era stato inizialmente rivelato a fine gennaio dal quotidiano “Taraf” che era venuto in possesso di alcuni CD e registrazioni attestanti i piani sovversivi orditi all’interno dell’esercito. Le indagini condotte dai procuratori e la conferma da parte della scientifica che le oltre 5mila pagine contenute nei CD provenivano effettivamente dai terminali del primo Comando delle Forze armate, hanno poi fatto scattare gli ordini d’arresto.

Nel periodo tra la pubblicazione dei documenti sul quotidiano e il loro accertamento le Forze armate si erano difese affermando che quei piani facevano parte di un seminario di addestramento. Il generale Doğan aveva anche sostenuto che ciò che veniva affermato nel piano “Balyoz” rientrava in piena regola all’interno del protocollo EMASYA, sigla per indicare un accordo di reciproco aiuto sottoscritto nel luglio 1997 tra lo Stato maggiore e il ministero dell’Interno. Un documento che riconosceva ai militari il diritto di intervento in situazioni sociali ritenute fuori norma e che è stato abolito con reciproco assenso dello Stato maggiore e del governo solo lo scorso 5 febbraio.

Dopo gli arresti il silenzio dello Stato maggiore è stato rotto da un’unica comunicazione riguardante il motivo del vertice straordinario che martedì scorso aveva visto riunirsi tutti i comandanti dell’esercito “per valutare la serietà della situazione emersa dall’inchiesta”.

Ieri (25 febbraio), invece, il presidente della Repubblica Gül, il premier Erdoğan e il capo di Stato maggiore Başbuğ si sono riuniti in un incontro durato tre ore, al termine del quale è stato diffuso un comunicato contenente rassicurazioni rivolte ai cittadini “che le questioni all’ordine del giorno saranno risolte all’interno del quadro delineato dalla nostra Costituzione e dalle leggi” e un richiamo alla “responsabilità collettiva affinché le nostre istituzioni non vengano danneggiate”.

L’analista politico di “Milliyet” Fikret Bila, nel suo articolo del 26 febbraio, commenta l’esito dell’incontro avvenuto tra Gül, Erdoğan e Başbuğ affermando che: “sebbene non ci siano garanzie che l’accordo raggiunto durerà a lungo, gli sforzi compiuti in questo senso prepareranno il terreno adatto affinché le istituzioni ritornino a lavorare regolarmente nei loro limiti costituzionali”. In genere gli analisti politici dei quotidiani ritengono che la riunione abbia avuto l’effetto di allentare una tensione crescente tra la popolazione e all’interno delle Forze armate.

Intanto, dall’opposizione il leader del CHP (Partito repubblicano popolare) Baykal, riferendosi agli arresti, ha dichiarato che “nelle società democratiche non possono accadere simili fatti” ed ha incitato i militari in detenzione “a tenere duro, perché questa situazione finirà e arriverà il momento in cui anche questi [il governo ndr] dovranno rispondere delle loro azioni”.

Secondo un recente sondaggio della eurobarometer il 77% dei turchi considera le Forze armate l’istituzione più affidabile della Turchia, un dato che però risulta esser in costante calo negli ultimi anni. İsmet Berkan, direttore di “Radikal” scrive nel suo editoriale del 24 febbraio che tra la popolazione aleggia “uno stato di indignazione”.

“Le Forze armate turche sono un’istituzione abituata a derivare la propria legittimazione più che dalla Costituzione e dalle leggi, dalla fiducia riposta in essa dall’uomo della strada”, scrive Berkan, “ma siccome non riesce a trasformarsi interiormente in un ‘esercito della democrazia’ si trova a fronteggiare le situazioni più indesiderate, e vede la fiducia della popolazione erodersi sempre di più. I recenti fermi rappresentano gli ultimi elementi di questa perdita di fiducia (…).

Questa istituzione doveva prendere le sue precauzioni e purgarsi da sola; oppure noi continueremo ad amare il nostro esercito come parte di uno stato democratico e di diritto, ma anziché vederlo come garanzia del nostro modo di vivere, ci dovremo fidare di noi stessi. Spetta a noi la scelta”.