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Wolfgang Petritsch: la Bosnia dalla dipendenza alla sovranità

25.10.2005    scrive Andrea Rossini

Ex Alto Rappresentante, attuale Ambasciatore dell’Austria alle Nazioni Unite, Wolfgang Petritsch presiede il Comitato Scientifico dell’Associazione BiH 2005. Una conversazione sul futuro della Bosnia in occasione della conferenza di Ginevra su “Dieci anni da Dayton e oltre”
Trascrizione e traduzione: Carlo Dall'Asta

Wolfgang Petritsch
Osservatorio sui Balcani - Diverse analisi sui dieci anni di Dayton sembrano concordare sul fatto che l’assenza di una piena sovranità della Bosnia Erzegovina è parte del problema, e che ridurre gradualmente o abolire i poteri di Bonn potrebbe essere parte della soluzione. Qualcuno qui a Ginevra ha anche proposto di intervenire sul testo degli Accordi di Pace, in particolare per scrivere una nuova Costituzione. Chi, secondo lei, dovrebbe gestire questi cambiamenti?

Wolfgang Petritsch - C’è un ampio consenso sul fatto che le cose dovrebbero essere prese in mano dai Bosniaci in prima persona. Questa è precisamente l’idea che sta alla base di questa conferenza. Come sappiamo, non è facile perché c’è una enorme sindrome da dipendenza a causa del massiccio intervento della comunità internazionale. Il che era necessario nell’immediato dopoguerra, per porre fine al conflitto e per aiutare a costruire le istituzioni statali di base, indispensabili ad ogni moderno Paese europeo; ma ora bisogna attuare il trasferimento dei poteri e delle responsabilità, altro tema centrale di questa conferenza. Come farlo? Dare una risposta è molto difficile. Qui a Ginevra ci sono moltissime organizzazioni della società civile, che può svolgere un grande ruolo, mobilitare l’opinione pubblica, creare una nuova coscienza della necessità di riforme e di cambiamento. Non credo sia possibile per un Paese spendere il 70% del proprio bilancio nell’apparato burocratico, nel mantenere il complesso assetto di Dayton. Allo stesso tempo non credo che la prima priorità sia quella di scrivere una nuova Costituzione. Bisogna prima individuare quelle aree dove i cambiamenti sono necessari. Per esempio, c’è bisogno di uno Stato efficiente, in grado di negoziare con l’Unione Europea. Tenendo sempre presente, tuttavia, che questa è ancora una società postbellica, che esce da un conflitto, e che bisogna tenere in considerazione le paure delle tre comunità etniche.

A dieci anni dalla fine della guerra, lei credo che oggi i cittadini bosniaci provino una maggiore identificazione con lo Stato, o ognuno si sente parte solo della propria comunità etnica?

C’è ancora un diffuso sentimento che definirei “tribale”, ma si tratta di un qualcosa che sta cambiando, in ragione anche di un’istanza generazionale. I Bosniaci più giovani accettano lo Stato di Bosnia-Erzegovina, perché sono nati dopo la guerra oppure sono riusciti a superarne il trauma. Il punto dolente però è questo: “Perché dovrei vivere in un Paese come la Bosnia, se non mi garantisce un lavoro, un’istruzione migliore, un futuro migliore?” Io credo che il punto chiave sia l’economia, la necessità di migliorare le prestazioni economiche del Paese, e questo è possibile solo se si possiede una struttura istituzionale positivamente orientata agli investimenti, al mercato. Bisogna affrontare questioni cruciali come la costruzione delle istituzioni e la riforma economica per poter allo stesso tempo costruire un sentimento di appartenenza.

L’opinione pubblica europea sembra lontana, negli anni ’90 come oggi, dal riconoscere l’importanza della Bosnia-Erzegovina, in generale della regione balcanica, sia sotto il profilo culturale e politico che per la stabilità e il futuro del continente. Perché secondo lei?

Penso che sia perché l’Europa, dopo la guerra, era soprattutto l’Europa Occidentale. Vede, queste nazioni, la Gran Bretagna, la Francia, in un certo modo anche la Germania, certamente l’Olanda, erano davvero lontane dai Balcani. Dovettero ricordarsi che i Balcani erano in Europa solo quando la guerra ebbe inizio. In effetti esse non hanno nessuna conoscenza o interesse per i Balcani, oppure ne hanno una immagine e una percezione negativa. Questo può cambiare solo migliorando la situazione complessiva, a partire da quella economica e della sicurezza, combattendo ad esempio la corruzione e il crimine organizzato, che dai Balcani arriva a toccare direttamente anche i nostri Paesi. Questo aiuterà a migliorare l’immagine positiva della Bosnia come anche di tutte le altre nazioni della regione. Spazi come quello creato da questa conferenza possono servire anche per presentare a gente che viene dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Gran Bretagna, da nazioni ancora più lontane, voci nuove, per dirgli: “Bene, qui c’è una nuova generazione, sono Europei come voi, diamogli una mano”.

Gli unici due anni nei quali la Bosnia del dopoguerra fu governata da partiti di orientamento non nazionalista coincisero con il suo mandato di Alto Rappresentante. Lei pensa che alle prossime elezioni dell’ottobre 2006 ci potrebbe essere nuovamente un cambiamento?

Dipenderà soprattutto da cosa avranno da offrire i partiti non-nazionalisti. Vede, io penso che in definitiva sia la debolezza dei partiti non-nazionalisti a fare il gioco di quelli nazionalisti. La società civile, i partiti europeisti, moderni nel senso di partiti europei, di sinistra o di destra, devono agire con coesione, dimostrare buone leadership, programmi, prendere seriamente le preoccupazioni della gente, solo allora avranno la possibilità di essere rieletti al governo. Questo è essenzialmente quello che è successo negli anni 1999-2000, e noi – io, in quanto Alto Rappresentante – non ho prodotto un miracolo. Ho solo dato il mio supporto a queste forze, non ero interessato a quali partiti fossero, ma ai programmi, alle persone, alle idee. Se ci sono delle buone idee, e se un partito le sostiene, allora indirettamente avrà il sostegno della comunità internazionale. All’epoca ha funzionato bene. Sfortunatamente allora c’era una delle regole di Dayton che prevedeva di tenere elezioni ogni due anni. Nessun governo in due anni può davvero dimostrare di essere migliore del precedente. Ci vogliono almeno quattro anni. Questo era il problema maggiore. Oltre naturalmente alla difficoltà di tenere unita una coalizione di 9 o 10 partiti. Ma fu importante simbolicamente che la Bosnia potesse dimostrare di essere in grado di formare un governo normale, un governo “europeo” si potrebbe dire. Quindi speriamo di vedere, alla fine del prossimo anno, un riemergere di quelle forze che sono orientate verso l’Europa e che sono dei partiti nel senso moderno. E’ indubbio poi che i partiti nazionalisti siano diversi da quelli di dieci anni fa. Si tratta anche di un cambiamento generazionale, oltre al fatto che i partiti nazionalisti si sono resi conto di non potere sopravvivere ancora a lungo. Più la Bosnia si avvia verso la normalità, meno rilevante diventerà basare il proprio programma politico solo sull’identità etnica. È un concetto superato, del diciannovesimo secolo, e alla fine si esaurirà anche in Bosnia. Naturalmente, in una situazione fortemente marcata etnicamente, il fattore etnico rimane importante. Ma non può dominare ogni cosa. Questo è il punto decisivo. Io non ho nulla contro piccoli partiti di orientamento etnico, ma essi non devono essere le forze dominanti, in nessun Paese europeo.
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