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Lo stato profondo della Turchia

01.06.2006    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Una realtà fantasmatica dai contorni indefiniti, lo “stato profondo”, sorta di stato dentro lo stato, fa capolino tra la cronaca del recente omicidio di un giudice della corte di cassazione e la crisi politica che imperversa nel paese
Manifestanti ad Ankara a favore del laicismo (AP)
Un attentatore isolato che irrompe negli uffici della seconda sezione della corte di cassazione di Ankara e spara all’impazzata al grido di Allah è grande uccidendo un giudice e ferendone altri quattro. Dichiarazioni farneticanti “Sono stato profondamente turbato dalla decisione della corte di cassazione” che rimandano a quella che da almeno un ventennio rappresenta una delle controversie più spinose dell’attualità turca, la questione del turbante, il divieto di portare il velo per i dipendenti pubblici e per le studentesse universitarie. Proprio la seconda corte di cassazione infatti aveva nei mesi scorsi confermato la decisione del ministero dell’Educazione di destituire dal suo incarico la direttrice di una scuola elementare perché appunto “velata”.

120.000 persone che sfilano al mausoleo di Ataturk per ribadire che “La Turchia è laica e laica resterà”. Un gruppo di ministri, assente il premier Erdogan, costretti da una folla inferocita ad una ritirata precipitosa dai funerali del giudice Ozbilgin. Esternazioni delle massime cariche istituzionali e della società civile sulla intangibilità del carattere laico della Turchia ed inviti a serrare le file contro la minaccia del fondamentalismo religioso, con espliciti riferimenti al governo Erdogan.
Il capo di stato maggiore che si augura “che la reazione mostrata dalla popolazione non rimanga un caso isolato ma acquisti continuità”.

Fotogrammi da una crisi che, affiancati ad una lunga serie di episodi verificatasi negli ultimi mesi, sembrano andare a formare un ritratto coerente e senza sbavature, quello di un paese di nuovo diviso intorno alla frattura per eccellenza della sua storia recente: il carattere laico della repubblica ed i tentativi di rimetterlo in discussione.

Le voci secondo cui il presidente Erdogan punterebbe alla presidenza della Repubblica - il mandato del presidente Sezer scade nel 2007 - scatenano le proteste di coloro che non possono accettare l’idea che il presidente della repubblica turca abbia una moglie con il capo velato. Il tentativo, non riuscito, da parte del governo di nominare come presidente della Banca Centrale un personaggio proveniente da una banca “islamica”, le dichiarazioni del presidente del Parlamento Arinc, del partito AKP, che chiedeva di ridiscutere la laicità della repubblica fino ad arrivare ai tre attentati che nel giro di pochi giorni hanno colpito il quotidiano “Cumhurriyet” (La Repubblica) storico bastione del laicismo kemalista. Sono queste le tappe che negli ultimi mesi hanno progressivamente fatto salire la tensione, fino ad arrivare al tragico epilogo dell’omicidio del giudice Ozbilgin.

Con il passare dei giorni ed il progredire delle indagini, la fotografia nitida delineatasi all’indomani dell’attentato ha cominciato a farsi sempre più sfuocata ed i suoi contorni più incerti.

A cominciare proprio dalla figura dell’omicida. Smentita la notizia che egli avrebbe pronunciato la fatidica frase Allah è grande, perfetta per contribuire a creare l’immagine del fanatico fondamentalista, le rivelazioni sulla sua biografia e le sue amicizie hanno spostato l’attenzione verso ambienti diversi da quelli del fondamentalismo religioso. Avvocato originario dell’Anatolia centro-crientale, con un passato da nazionalista dedito alla caccia agli studenti di sinistra negli anni universitari, Arslan sembra corrispondere ad un tipo sociologico di provocatore professionista che ricorda molto da vicino un illustre suo conterraneo, Ali Agca. Arslan era per esempio tra coloro che lo scorso autunno contestavano i partecipanti alla conferenza sulla questione armena organizzata dall’Università Bilgi.

Nel prosieguo delle indagini su Arslan, che nel frattempo ha confessato anche di essere tra gli autori degli attentati al quotidiano “Cumhurriyet”, è sbucato poi un nome, quello di Muzaffer Tekin, con il quale Arslan ha avuto frequenti contatti telefonici e che è stato indicato come possibile mandante dell’omicidio. Muzaffer Tekin è un ex ufficiale espulso dall’esercito, con accertati legami con gli ambienti nazionalisti turco-ciprioti. Numerose foto d’archivio pubblicate dai giornali lo ritraggono spesso in compagnia di oscuri personaggi protagonisti del recente passato: un generale in pensione ed un ex ufficiale delle forze speciali, entrambi coinvolti nel processo per lo scandalo di Susurluk. Intorno a queste informazioni, un groviglio di indiscrezioni che chiamano in causa anche organizzazioni nazionaliste in passato protagoniste di attentati, l’ultimo dei quali all’ex presidente dell’Associazione dei Diritti Umani, Akin Birdal, gambizzato nel 1997 e sullo sfondo, ancora una volta, il fantasma di Ergenekon, la Gladio turca.

Accantonata quindi la tesi dell’attentato nato negli ambienti del fondamentalismo religioso, l’attenzione è andata a concentrarsi su quello che in Turchia è noto come stato profondo e che in Italia si chiamerebbe lo stato nello stato. L’intreccio tra apparati di sicurezza, ambienti nazionalisti e organizzazioni criminali dedito alla destabilizzazione professionale. Per il governo non ci sono dubbi: per il ministro della difesa Gonul l’omicidio del giudice Ozbilgin è un complotto organizzato dallo stato profondo “per creare una spaccatura tra il governo ed i militari”.

Le sorprese però non sono finite qui. Con un ultimo colpo di scena la polizia ha deciso, dopo averlo interrogato, di rilasciare Tekin per macanza di indizi “Sì, conosco Arslan ma non c’entro nulla con l’omicidio”. Vale la pena sottolineare come l’avvocato di Tekin è quello stesso Kerincsiz, che due giorni prima dell’attentato alla corte di cassazione, aveva guidato la manifestazione a suon di sputi e monetine al processo contro il giornalista armeno Hrant Dink.

La decisione della polizia ha ridato coraggio al fronte laico che ha rincarato le sue accuse al governo “E’ un omicidio figlio del fondamentalismo religioso”.

A dieci giorni dall’attentato alla corte di cassazione l’unica certezza sembra essere la difficile situazione del governo Erdogan - per alcuni osservatori si sarebbbe arrivati “all’inizio della fine dell’era AKP”, difficoltà confermata anche dal fatto che il tema delle elezioni anticipate - rispetto alla naturale scadenza del 2007 - si è ormai guadagnato la piena legitimmazione nell’agenda politica. Per il resto a trionfare sono dubbi e sospetti.

Sospetti in primo luogo proprio sul governo Erdogan. Perso da tempo il suo slancio riformatore, il governo si è fatto prendere dalla tentazione di inseguire i partiti rivali sul terreno, sempre vincente, della virata nazionalista. L’ultimo esempio è rappresentato dalla legge anti-terrorismo, criticata da più parti per il suo carattere liberticida. Allo stesso tempo il governo mostra l’intenzione di provare a forzare la mano su alcune questioni estremamente sensibili, come quella del turbante appunto, senza però adoperarsi per cercare una soluzione concreta al problema ma piuttosto con l’intenzione di arrivare ad uno scontro frontale sul terreno ideologico. Una scelta difficile da comprendere soprattutto tenendo conto dell’ammissione del vice premier Sahin secondo cui “solamente l’1,5% dell‘elettorato dell’AKP ritiene prioritaria la soluzione della questione del turbante”.

Sospetti sul cosiddetto fronte della Turchia laica. La valanga di rabbia e livore a lungo repressa e scatenatasi dopo l’omicidio Ozbilgin rivela un’ostilità che sembra essere antropologica prima che politica, nutrita dalle elites tradizionali - burocrati, classe media urbana tradizionale, una parte degli intellettuali, le forze armate - nei confronti di quella che viene considerata una classe politica di parvenu e del mondo che in essa si riconosce. Dietro questa rabbia si possono intravvedere non solamente rispettabili preoccupazioni politiche per il carattere conservatore del partito di Erdogan, ma anche preoccupazioni più mondane per l’equilibrio di poteri messi in discussione dal processo riformatore.

Sospetti anche sul partito che si vuole alfiere di questa Turchia laica, il CHP (Partito Repubblicano del Popolo), che amplificando irresponsabilmente il pericolo islamico riduce il dibattito politico intorno ad un’unica dimensione, quella della laicità minacciata, della quale il partito si presenta come unico difensore. La speranza è quella di monetizzare le paure così create al prossimo appuntamento elettorale.

Sospetti infine su quella autentica variabile impazzita della vita politica turca degli ultimi trentanni, rappresentata dallo “stato profondo”. Tirato regolarmente in ballo ad ogni occasione, torna rapidamente a scomparire nell’oblio per poi ripresentarsi, più in salute che mai, alla successiva occasione favorevole, magari al servizio di chi vorrebbe fermare il processo di trasformazione in corso. Realtà fantasmatica dai contorni indefiniti, intaccata solo superficialmente dalle indagini che l’hanno coinvolta, rimane come una spada di Damocle costantemente sospesa sulla testa della politica turca. Erdogan questa volta ha fatto una promessa solenne “Andremo fino in fondo, se sarà necessario riapriremo il dossier Susurluk”. Le stesse parole pronunciate all’indomani dell’esplosione di Semdinli.

Sullo sfondo rimangono i moniti dell’Unione Europea, preoccupata per il rallentamento del processo riformatore, che invita i vertici delle forze armate a fare esternazioni solo su argomenti di carattere militare e a non cercare di condizionare la vita politica del paese.

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