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La contesa del baklava

07.06.2006    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

La comunità greco cipriota presenta il celebre dolce, diffuso in tutta l’area balcanica, come prodotto nazionale greco. Insorge l’opinione pubblica turca. La questione dell’eredità ottomana nella storia di un millefoglie che attraversa il tempo e i confini
Per chi volesse raccontare dei problematici e controversi rapporti che intercorrono tra greci e turchi la cronaca anche recente non fa certo mancare gli spunti necessari. Drammatici come la recente collisione tra due caccia F16 nei cieli di Rodi oppure tragicomici come l’allarme lanciato da alcune televisioni greche per il fermo di una presunta spia turca, rivelatasi poi un innocuo turista con l’hobby della fotografia. Per una volta forse vale la pena affrontare la questione da una prospettiva per così dire più leggera, o meglio, più dolce.

L’occasione l’ha fornita una notizia che recentemente ha fatto non poco rumore in Turchia. Nel corso delle celebrazioni di una “Giornata Europea” i greco ciprioti hanno presentato il baklava, millefoglie farcito di noci o pistacchi ed imbevuta di sciroppo, come dolce nazionale greco. Di più, in una pubblicazione distribuita nell’occasione il dolce è stato affiancato alla bandiera greca.

La reazione turca non ha certo tardato a farsi sentire.

Mehmet Yildirim, presidente dell’Associazione dei produttori di dolci e baklava (BAKTAD), in una conferenza stampa organizzata appositamente ha voluto rispondere per le rime e, dopo aver ricordato come il baklava sia “il sultano dei dolci, il dolce dei sultani”, ha chiuso definitivamente la questione: “Il baklava è un dolce turco, il più grande dono fatto dai turchi all’umanità”. Per Yildirim, i tentativi greci di rivendicare la paternità della delizia dolciaria “non si fondano su alcuna prova concreta”. Tra greci e greco-ciprioti non esisterebbe una cultura del baklava, “sarebbe quindi inutile sfidarli su questo terreno, non hanno maestri nel baklava. In ogni caso, se ce ne sono, che si facciano avanti!”.

Reazioni indignate sono arrivate anche dalla Turchia sud-orientale e precisamente dalla città di Gaziantep. La città viene considerata una delle capitali gastronomiche della Turchia e soprattutto il suo nome, per ogni turco, è rigorosamente associato a quello del baklava ai pistacchi. Il dolce è assurto ormai a simbolo della città oltre che rappresentare uno dei motori dell’economia cittadina. Decine le pasticcerie che punteggiano il centro di Gaziantep, da dove ogni anno tonnellate del prezioso dolce vengono spedite ai quattro angoli del paese oppure destinate a consolare i milioni di turchi che vivono in Europa.

L’importanza del baklava per la città di Gaziantep è confermata dalle parole di Burhan Cagdas, gestore del ristorante di famiglia fondato nel 1887, che l’anno scorso mi raccontava come “nonostante le innovazioni intervenute nella produzione di baklava una cosa non è mai cambiata: il valore di un chilo di baklava corrisponde sempre a quello di un grammo d’oro”.

Il baklava prodotto a Gaziantep vanta almeno due peculiarità: la prima è l’uso abbondante di un prodotto tipico della regione, i pistacchi, la cui qualità già nota fin dall’epoca ottomana ne ha fatto un prodotto esportato in tutto il mondo. La seconda è che, a differenza di quanto accade nel resto del paese, dove il baklava di produzione casalinga è un elemento immancabile nelle festività religiose, a Gaziantep la preparazione del baklava è da sempre affare per professionisti. Come ricorda Ayfer Unsal, autrice del libro “Mangiare e bere a Gaziantep”, in città nessuna massaia prepara baklava in casa, lo si può trovare solamente nelle pasticcerie.

Il signor Gullu, attualmente proprietario di una celebre catena di baklavaci (pasticcerie specializzate in baklava) diffusa su tutto il territorio nazionale, racconta come il suo antenato Gullu Celebi avesse cominciato a produrre baklava nella sua pasticceria a fine ‘800, curiosamente dopo averne imparato i segreti in un’altra città, Aleppo, all’epoca compresa entro i confini dell’Impero Ottomano ed ora siriana. Proprio il signor Gullu, sostenuto dalla locale Associazione degli industriali, si è fatto portavoce dell’indignazione cittadina: “Credo si debba ridere ad una notizia del genere, il baklava è dei turchi”. Gullu ha tenuto poi a rassicurare i suoi concittadini: “I turchi non si preoccupino, non perderemo il baklava!”.

La disputa sulle origini del baklava, seguendo la sorte di molti altri contenziosi in Turchia, ha finito per lambire anche l’Unione Europea. Alcuni giornalisti hanno voluto conoscere l’opinione di Hansjorg Kretschmer, capo della rappresentanza della UE in Turchia, nel corso di una sua visita alla Camera di Commercio di Ankara. Kretschmer, ricordando come sono numerose le contese simili in nome della difesa delle specificità culturali nazionali, ha suggerito ai turchi di rivolgersi alla Corte Europea di Giustizia per risolvere la controversia.

La diatriba turco-greca intorno al croccante millefoglie non è però una novità di questi ultimi giorni. Ne è convinto anche Charles Perry, giornalista del Los Angeles Times ed esperto culinario, al quale in questi giorni ha fatto ampiamente riferimento la stampa turca, perchè alcuni anni fa nel corso di un convegno ha sostenuto la tesi dell’origine turca del baklava. In un suo articolo, contenuto nel volume Culinary cultures of Middle East, pubblicato a cura della prestigiosa School of Oriental and African Studies di Londra, Perry cerca di mettere fine all’annosa polemica. Lo fa in primo luogo attaccando alle fondamenta la tesi della paternità greca. Un libro dello storico Speros Vryonis, The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor, in cui si sostiene che il baklava altro non sarebbe che il dolce bizantino kopte o koptoplakous, costituisce il principale riferimento per i sostenitori dell’origine greca del dolce. Perry mette in discussione l’interpretazione data da Vryonis delle due fonti storiche utilizzate per sostenere la sua tesi. La prima di queste fonti, uno scritto del II secolo d.C., contiene effettivamente riferimenti ad un dolce fatto a strati e farcito di noci e miele. Secondo Perry però Vryonis sorvola sul fatto che questi strati non sarebbero formati da sottili fogli di pasta, ma da sesamo tritato. Anche nel citare la seconda fonte, un libro del prof. Koukoules, Vryonis secondo Perry commetterebbe la stessa svista, evitando di precisare che mancano riferimenti espliciti a strati fatti di pasta.

A detta di Perry, la presenza di sottili strati di pasta sarebbe invece la prova inconfutabile della paternità turca del dolce. La preparazione di sottilissimi strati di pasta è infatti una caratteristica delle popolazioni nomadi turche, derivata dall’impossibilità di cuocere la pasta in un forno tradizionale e costrette a farlo sopra una piastra, piatta o leggermente convessa.

L’uso dei sottili fogli, yufka o katmer in turco, oltre che continuare ad occupare un posto centrale, per preparazioni dolci o salate, nella cucina in Turchia, si ritrova anche in tutto il mondo turcofono, dall’Uzbekistan all’Azerbaijan, tra i tartari delle steppe russe e tra i turchi uiguri del Sinkiang cinese. Il baklava che abbiamo oggi la fortuna di gustare sarebbe, sempre secondo Perry, il frutto della convergenza di questa tradizione della yufka con le migliorie tecniche e l’introduzione di nuovi ingredienti apportate nelle cucine imperiali del palazzo ottomano.

In realtà l’interpretazione di Perry è convincente quando sottopone a critica le prove a favore di un origine greca del dolce. Lo è molto meno quando deduce l’origine turca del baklava dal fatto che la tradizione di preparare sottili fogli di pasta sarebbe ampiamente diffusa nel mondo culturale turco. In realtà rimangono molti punti poco chiari intorno alle origini del baklava. Nemmeno l’etimologia ci viene in aiuto. Il nome infatti contiene la parola araba baqla che significa pianta, vegetale, e che nel turco moderno ha assunto il significato di fava, forse un richiamo alla particolare forma in cui viene tagliato il dolce. Senza contare poi le numerosi tesi che sostengono che alla originale versione bizantina i greci avrebbero aggiunto l’uso della pasta sfoglia, phyllo; oppure il fatto che i maestri pasticceri di Gaziantep avrebbero imparato le tecniche del baklava dai colleghi di Aleppo, città politicamente ottomana ma culturalmente legata al mondo arabo. In attesa di prove definitive, se mai ce ne saranno, forse sarebbe più sensato pensare al baklava come ad un tangibile frutto della sovrapposizione di culture e civiltà che si sono succedute nell’area mediorientale-anatolica, se è vero che l’archeologia mostra prove dell’esistenza di un dolce simile al kopte bizantino fin dall’epoca assira.

All’impero ottomano andrebbe il merito, da una parte con le cucine di corte, di aver raffinato il baklava fino alla versione che conosciamo oggi, e dall’altra di averne favorito la diffusione in tutti i territori sottoposti alla sua autorità politica ed alla sua influenza culturale.

Sarebbe facile liquidare tutta quanta la disputa intorno all’origine del baklava con un sorriso, oppure giudicarla un’ennesima dimostrazione della vitalità dello sciovinismo greco o turco. In realtà, la posta in gioco in una contesa di questo genere va ben al di là dei rapporti turco-greci. “I nostri antenati non hanno lasciato al mondo opere fondamentali nella storia del pensiero o della filosofia ma avevano una forte predisposizione per i piaceri del palato, lasciateci almeno quelli!”, commentava ironicamente un giornalista del quotidiano Radikal. Come spesso accade però, dietro questioni apparentemente futili, si nascondono ragioni estremamente serie. In questo caso il problema del mancato riconoscimento dell’eredità culturale turco-ottomana in Europa.

Rimaniamo ancora in campo gastronomico e prendiamo ad esempio un prodotto ormai molto popolare in tutta Europa, lo yogurt. Se chiediamo ad un qualsiasi cittadino europeo dell’origine dello yogurt molto probabilmente ci sentiremmo rispondere la Grecia oppure la Bulgaria. Ed invece sembrerebbe non esserci niente di più turco dello yogurt. A cominciare proprio dal nome che contiene la radice yog, che in turco significa denso, solido, all’origine anche del verbo yogurmak, addensare. Oppure il caso di un altro dolce, il lokum, cubetto gommoso farcito di frutta secca o crema. Recentemente quello preparato nella Cipro greca, dal peso record di una tonnellata e mezzo, è entrato nel Guinnes dei primati come dolce greco. Le cronache storiche ci raccontano del lokum come di una invenzione, nel 1777, di un geniale pasticcere della regione del Mar Nero che con essa fece fortuna alla corte imperiale. Il nome originale poi, rahat lokum (bocconcino facile) è composto da due parole turco-ottomane entrambe di origine araba.

Centinaia di anni di presenza ottomana nei paesi balcanici nonchè di intensi scambi, non solo commerciali, con il resto d’Europa, hanno lasciato numerose tracce della cultura turco-ottomana. Con la dissoluzione dell’Impero, la nascita degli stati nazionali balcanici ed il ripiegare del presenza turca nello spazio anatolico, in un spazio completamente Altro, l’Oriente, la memoria di questi contributi è andata perduta. Oppure di questa memoria si sono impossessate le nuove realtà politiche nate sulle ceneri dell’Impero, in qualche modo “nazionalizzando” gli elementi culturali portati dai turchi. Dal canto suo poi la moderna repubblica turca nulla ha fatto per promuovere la conoscenza del suo patrimonio culturale e del suo posto nella cultura europea.

In questo senso, rappresenta un interessante segnale la notizia secondo cui il governo turco in questi giorni avrebbe completato un disegno di legge per la costituzione di centri culturali, dedicati alla figura del poeta mistico Yunus Emre, destinati a far conoscere la cultura turca nel mondo.

Un passo incoraggiante nella direzione di cercare di riannodare la densa trama di fili che per secoli si è intrecciata tra le due rive del Mediterraneo.
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