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mercoledì 07 settembre 2022 14:40

 

Il corpo invisibile

26.06.2006    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

I movimenti delle donne in Turchia dalla crisi del modello repubblicano alla crisi della modernità. Nostra intervista con Serpil Sancar, del Centro Studi sulle Donne KASAUM e docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Ankara
Creare un nuovo modello di donna, lontano da quello tradizionale, è uno degli elementi portanti del progetto della Turchia laica repubblicana. Quali sono le caratteristiche di questa “donna nuova”?

Serpil Sancar
Credo che per capire dobbiamo fare un passo indietro. All’inizio del ’900 c’era un formidabile movimento libertario, il Movimento delle donne ottomane, femministe nel senso moderno del termine, un movimento che pubblicava delle riviste, molto attivo. Uno dei primi partiti della Repubblica è stato il Partito delle Donne Repubblicano che poi sarà vietato e chiuso.

Il movimento delle donne più propriamente repubblicano nasce all’interno del movimento nazionalista, un movimento fatto di uomini spinti, nell’ultima fase del periodo ottomano, dalla preoccupazione di salvare lo stato. La modernità turca non è legata ad un processo di industrializzazione con le sue conseguenze socio-politiche così come accaduto in Europa, per questa ragione in tutti i movimenti sociali dell’epoca c’è una forte presenza del nazionalismo, dello statalismo. Da qui nasce il kemalismo repubblicano. Da queste premesse nasce anche la donna repubblicana.

Il ritratto quindi della donna repubblicana è quello di una casalinga istruita, di una buona madre di famiglia istruita, fedele al marito progressista. Moderne ma non necessariamente uguali

In che modo moderne?

Istruite, che conoscano le lingue straniere, che usino la macchina, che sappiamo ballare, che siano in grado di crescere i figli nel modo più moderno possibile, ma anche una buona madre, che sappia stare un passo indietro rispetto al marito, che non abbia velleità egualitarie. Le fondatrici di una nazione moderna ma non eguali agli uomini, uomini e donne occupano spazi e ruoli distinti.

Questa è la donna della modernità turca e laica, senza velo, che si interessa della religione senza essere fanatica. La fedeltà deve essere riservata al marito e allo stato, una fedeltà nazionale. Capace però di qualsiasi cosa per il proprio paese: se necessario fare l’insegnante in condizioni difficili, seguire il marito in qualsiasi posto. Questo è il modello della donna moderna turca.

In qualche modo una figura femminile all’interno della logica maschile tradizionale...

In qualche modo però anche una donna che mette in crisi i modelli tradizionali dell’egemonia maschile. Per esempio, le ragazze di villaggio a cui viene data la possibilità di studiare nelle migliori università. E di questo possiamo vedere le conseguenze ancora oggi: tra i rappresentanti del mondo delle professioni, ad esempio, un terzo, in alcuni casi la metà, è costituito da donne, avvocati, medici. Ed è una presenza che aumenta rapidamente.

Per contro, nei lavori non qualificati, alle ragazze non è permesso lavorare, è considerato un peccato, una vergogna. Non ci sono ragazze che guidano un taxi o un camion. Le donne laiche della Repubblica sono così donne istruite, madri di famiglia istruite.

Nella prima fase repubblicana sono state create delle scuole dove le ragazze potevano imparare a cucire vestiti all’ultima moda oppure i più moderni metodi pedagogici, l’arredamento moderno della casa. Nella storia della modernizzazione turca ci sono anche questi elementi ed il contributo delle donne è da tenere in considerazione per poter comprendere la Turchia moderna: quando in Turchia le persone hanno smesso di mangiare per terra e sono passati alla tavola, quando si è diffusa l’abitudine di sedere insieme, uomini e donne, nel salotto oppure quando le coppie hanno cominciato ad uscire a pranzo il fine settimana. E’ guardando a queste cose che si può comprendere meglio la modernizzazione turca ed il ruolo giocato dalle donne.

Questo modello di donna turca repubblicana in quali classi sociali si è affermato...

Nella classe media urbana. In questo modello non c’era discriminazione sessuale? Certo che sì ma si trattava di una discriminazione sottile, sofisticata. Le ragazze si facevano studiare, si facevano lavorare, potevano viaggiare. Ma convivere senza matrimonio era un grande problema oppure avere relazioni con diversi uomini.

Questo modello quando è entrato in crisi, o perlomeno quando ha subito delle contestazioni?

A metterlo in crisi è stata la donna di sinistra uscita dai movimenti della fine degli anni ’60. Donne che rifiutavano l’autorità del padre, che portavano i pantaloni, un modello di donna per così dire maschile, che rifiutava il modello di donna tradizionale. Questa è una possibile ragione di crisi, sono queste donne che hanno portato avanti il tema della libertà sessuale, per esempio.

La seconda ragione è costituita dalle donne islamiche, alla fine degli anni ’80, che fanno la loro comparsa con la crisi di un certo modello di modernità. “L’invasione” della città da parte della provincia, donne con il capo coperto, che vanno all’università e compaiono nello spazio pubblico.

La terza ragione nasce con la questione curda. Ragazze che non sono di madre lingua turca, che rifiutano di studiare nelle scuola in turco oppure che si vestono in modo diverso, magari con i colori del PKK oppure ragazze che aderiscono all’organizzazione. A quanto si dice un terzo dei militanti del PKK era composto da ragazze. Credo sia un dato sorprendente sul quale non si riflette abbastanza. Se la società da cui provengono è così conservatrice, come è stato possibile che tante ragazze abbiamo potuto fare una scelta del genere, prendere le armi? Giovani donne che la cultura tradizionale avrebbe voluto costantemente sottoposte a controllo per salvaguardarne l’onore. Sono queste tre le grandi ragioni della messa in crisi del modello repubblicano.

Quando si parla della questione del velo emergono due posizioni prevalenti. Quella di chi lo considera come il segnale di un pericoloso arretramento, di un ritorno della tradizione islamica, e quella invece di chi considera il velo una sorta di compromesso che permette alle donne della classi popolari di entrare nella modernità in qualche modo protette dalla tradizione...

In Turchia stato e religione sono strettamente intrecciati, sono due campi di forza. Una simbiosi. La religione influenza lo stato, lo stato influenza la religione, entrambi influenzano l’uomo della strada. Non credo quindi che si possa interpretare la questione del velo nel quadro di una reazione popolare nei confronti della tradizione kemalista dello stato. In entrambi i campi che si affrontano c’è una forte componente maschilista. Una lotta che passa sul corpo delle donne. La disputa sul velo in realtà ci mostra dov’è e come cambia la sottile linea di separazione che divide queste due forze. Fin dall’epoca ottomana ci sono degli editti che stabiliscono come le donne si debbano vestire, come debbano uscire per la strada, divieti diretti alle donne. Io credo che la disputa sul turbante sia all’interno di questa tradizione, sia una questione di regime. Lo scenario, gli attori cambiano, quello che non cambia è che sono sempre le donne a rimanerne schiacciate. Molte donne si trovano in una posizione paradossale: da un lato coprendosi la testa e prendendo forza dalla loro comunità di origine possono fare cose che in passato non si sarebbero potute permettere.

Possiamo parlare in qualche modo di un atto di liberazione?

Perlomeno un atto che permette di ampliare gli spazi di libertà. Possono viaggiare da sole, possono parlare con gli uomini e quindi da questo punto di vista è un elemento di apertura. Dall’altro lato però, se pensiamo ai valori che simboleggia l’atto di coprirsi la testa, la donna come minaccia, il suo corpo come pericolo nello spazio pubblico, beh questa prospettiva è preoccupante. E’ la voce dell’uomo che parla, il corpo della donna è considerato pericoloso. Le donne però riescono ad utilizzare questa voce maschile per dar fiato alla propria: io considero che il mio corpo invisibile mi fa sentire più libera. Le donne riescono quindi a produrre un nuovo senso, a proprio vantaggio. E un’operazione di questo genere è tutt’altro che agevole perchè, come dicevamo, alle spalle di tutto ciò vi è un problema di regime, le leggi dello stato che proibiscono alle donne velate di entrare in alcuni luoghi, di fare alcuni lavori, di studiare ed accedere all’università.

Apparentemente il dibattito sul velo si trova in un vicolo cieco, come è possibile uscirne, forse dalla prospettiva dei diritti individuali?

Si, questa questione deve cessare di essere una questione di regime, politica, e deve essere vista come un problema di libertà individuale. Per fare questo è fondamentale che le donne islamiche siano in grado di arrivare ad una resa dei conti con gli uomini perchè fino ad ora sono gli uomini a dire che la questione del velo è un problema di diritti individuali. Uomini che parlano al posto delle donne. Il problema è questo, se fossero le donne a parlare, emergerebbero voci diverse, si denuncerebbero altre violazioni di diritti fondamentali. Si darebbe vita ad un movimento per i diritti civili. Della questione del velo però ne parlano uomini, ed anche i più conservatori. Questo fa in modo che invece di essere un problema della violazione di un diritto rimane solamente una questione di regime, politica. Una guerra tra gruppi di potere che stanno al vertice dello stato. Se le donne con il velo riuscissero a zittire gli uomini, a prendere le distanze, a uscire dalla trappola del confronto politico, ideologico, allora si potrà risolvere la questione come violazione dei diritti delle donne.

Le donne islamiche sono sempre più consapevoli di questa necessità. Recentemente ho partecipato ad una riunione di donne, tra le quali moltissime velate, e dicendo queste cose la reazione è stata entusiasta. Le donne lo vogliono e ne sono sempre più consapevoli. Io credo anche che negli ambienti islamici sia iniziato un dibattito serrato tra uomini e donne. Le donne sono sempre più infastidite dal fatto che siano gli uomini a parlare al loro posto, credono che si tratti di una falsa questione, sono stanche di essere in qualche modo usate come strumento per la lotta politica. Sono le donne che riusciranno a risolvere questo problema.

Dall’altro canto però assistiamo ad una progressiva radicalizzazione nel campo delle donne laiche, kemaliste. Io credo che molte di loro siano in preda ad un fanatismo e sarebbero pronte a fare a pezzi le donne velate.

Lei crede che abolire il divieto di portare il velo, nelle università, negli spazi pubblici, possa mettere in crisi la laicità della repubblica?

No. Significherebbe un cambiamento nel regime, nel senso di un maggior rispetto dei diritti umani. In qualche modo una ridefinizione dei rapporti tra stato e religione, quella che per me costituisce la questione fondamentale. Stato, religione e forze armate dovrebbero rientrare nei loro ranghi. Questa è una conseguenza possibile. Certo bisogna tenere conto di una importante contraddizione: il movimento delle donne in Turchia è fortemente debitore della tradizione kemalista. Molte delle conquiste democratiche, libertarie in Turchia vengono dal solco della tradizione kemalista.

Chi potrebbe sostenere la rivendicazione delle donne islamiche?

Le femministe, che sono attualmente tra le voci più importanti a richiedere un passo di questo genere. Del resto da tempo è in atto uno scontro politico tra le femministe e le donne kemaliste, si sta allargando la distanza tra loro. Personalmente ho vissuto esperienze difficili con le donne kemaliste, mi hanno accusata di essere una traditrice della patria, quando si discuteva di libertà, del velo.

Questo scontro, l’emergere di una diversità di vedute, lo possiamo osservare però anche tra le donne islamiche, tra ortodosse fanatiche e libertarie. Una tendenza che si sta affermando velocemente.

La società turca è veramente spaccata in due sulla questione del velo?

Da almeno duecento anni ci sono due Turchie. Una moderna ed un’altra comunitaria, fondata sui vincoli di sangue. Una separazione che però si va attenuando velocemente, certo in modo molto traumatico, non è una cosa semplice.

Non credo che il problema sia la spaccatura della società turca, non credo ci siano società che si possano pensare omogenee. In Turchia ci sono settori sociali che in nessun modo entrano in contatto tra loro, non ci sono relazioni, vivono fianco a fianco senza confondersi.

Rispetto alla questione curda ad esempio, credo che la questione islamica sia più semplice, più ‘light’ per così dire e questo per una ragione semplice: i moderni in Turchia, i laici, sono nello stesso tempo dei credenti. Non c’è mai stata in Turchia una tradizione atea di una qualche consistenza. Per un osservatore esterno spesso è difficile da comprendere. Entrambe le parti vanno in moschea, fanno il digiuno e poi si accapigliano su chi sia il vero laico. E’ incredibile, spesso anch’io non capisco. Dietro queste cose c’è dell’altro, questa disputa simboleggia altro. Nasconde conflitti sociali che di volta in volta cambiano. Come dicevo stato e religione sono in rapporto simbiotico. E’ necessario spezzare questo circolo, che lo stato e la religione facciano un passo indietro a vantaggio di un allargamento dello spazio dei diritti civili.

Negli ultimi tempi si ha però l’impressione che in settori diversi della società la religione venga percepita come una componente importante dell’identità turca

Se cominciamo ad usare un concetto per indicare cose tra loro molto diverse, il significato di questo concetto va in pezzi. Non è possibile parlare di un solo Islam: c’è un Islam conservatore, uno libertario, uno curdo, uno fascista. Con Islam indichiamo tutto e nel contempo nulla, ha una dimensione polisemica nella quale alla fine si perde il significato autentico, in fondo questa è la modernità, la dispersione del significato o la sua pluralizzazione. In realtà le persone fanno cose diverse ma per definirle usano il riferimento religioso e questo perchè altre ideologie sono state vietate, hanno sempre costituito un problema. L’unico elemento che non ha mai subito limitazioni e repressioni è stato proprio l’Islam, forse gli islamisti non saranno d’accordo, ma è così.

Quali sono gli elementi che hanno favorito l’esperienza della laicità in Turchia?

La tradizione dell’Impero ottomano, credo. L’impero ottomano secondo me ha vissuto un’esperienza in qualche modo laica, l’esistenza cioè di regole e leggi nello spazio pubblico che non avevano un’origine religiosa. Nello spazio privato, nella famiglia, [c’erano] regole religiose ma anche in questo caso nell’800 si è avviata una trasformazione con l’introduzione di un primo esempio di codice civile, Mecelle. Oltre a ciò credo che siano importanti le differenze etniche, in particolare la differenza tra arabi e turchi, una differenza della quale mi sono accorta molto tardi. L’Islam è una questione araba, i turchi sono arrivati all’Islam più tardi e in qualche modo senza molto entusiasmo. E poi la rilevanza della tradizione sciamanica. Tra i turchi è difficile vedere dei fanatici religiosi, è qualcosa che si vede raramente. Poi c’è l’appartenenza allo spazio geografico europeo, la Turchia condivide esperienze comuni rispetto a quelle europee, il nazionalismo, la nascita dello stato nazione. Io credo che lo stesso kemalismo sia un’esperienza fortemente europea. Infine il fatto che a partire dall’epoca ottomana e poi soprattutto in epoca repubblicana è stata completamente azzerata la classe clericale, è un aspetto molto importante. In Turchia gli uomini di religione, gli imam sono dei semplici funzionari pubblici alle dipendenze e sotto il controllo dello stato, senza una reale autonomia. L’aspetto per così dire istituzionale della religione è stato così fortemente indebolito. Si pensi a quanto è diversa l’esperienza turca rispetto a quella sciita iraniana e al ruolo che la classe religiosa iraniana gioca nella politica e nella società.

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