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Strandzha, terra di lotta e di mistero - I

29.08.2006    scrive Francesco Martino

Un parco naturale, al confine tra Bulgaria e Turchia. E' la regione di Strandzha lacerata da lotte antiche che hanno lasciato cicatrici sotterranee: scompaiono nel silenzio delle sue valli boscose per poi riaffiorare all'improvviso come fiumi carsici. Un reportage, la prima di due puntate
Strandzha (internet)
“Questo è il momento decisivo per la difesa del parco, stiamo lottando in tutti i modi per salvarlo, anche se probabilmente è una battaglia senza speranza”. Stefan Zlatarov, direttore del parco naturale della Strandzha dal 1995, da quando cioè è stato creato, ha lo sguardo profondo e le mani forti di chi ha passato la vita in mezzo ai boschi. Mentre, seduti nel suo studio di Malko Tarnovo, mi parla delle pressioni che riceve di continuo per chiudere un occhio sulle costruzioni abusive che iniziano a costellare la costa tra Tzarevo e Rezovo, ultimo lembo di terra bulgara prima del confine con la Turchia, mi ricorda un moderno don Chiscotte, con la corta barbetta da hidalgo e la lancia in resta contro sornioni e invincibili mulini a vento. “Se continuano a costruire a questo ritmo, presto la costa sarà distrutta. Quasi tutto è abusivo, come ad esempio il complesso residenziale che stanno costruendo in località Varvara, ma le pressioni che riceviamo sono forti, anche dalle stesse istituzioni. Ci chiamano nemici del progresso, ostacolo allo sviluppo. E così rischia di scomparire un patrimonio naturale di valore inestimabile, uno degli ultimi resti dell'ecosistema del periodo terziario in Europa”.

Dalla finestra si intravede la cima del Golyamoto Gradishte, la cima più alta del parco, silenziosa, solitaria, coperta di fitti boschi di quercia e di faggio. La Strandzha è una regione misteriosa e antica, affascinante e crudele, lacerata da lotte antiche che hanno lasciato cicatrici sotterranee, che scompaiono nel silenzio delle sue valli boscose per poi riaffiorare all'improvviso come fiumi carsici. “Il nostro parco è il più grande territorio protetto in Bulgaria, più di mille chilometri quadrati, l'unico che contiene al suo interno ben ventuno villaggi e quasi ottomila abitanti, ma è anche quello che ha il minor numero di dipendenti rispetto alla superficie”, mi dice Zlatarov davanti ad una carta in rilievo della Bulgaria, con la Strandzha tagliata dai meandri incassati dei fiumi Veleka e Rezovska, e dalla linea rossa del confine con la Turchia, dove si trova la parte più ampia della montagna.“Il vero prolema, però, è che come istituzione parco non abbiamo uno status legale ben definito, e quindi le nostre disposizioni e i nostri provvedimenti contro l'abusivismo restano quasi sempre lettera morta. Forse il parco è stato creato apposta come una sedia traballante, per non dare troppo fastidio.”

La lotta per il destino del parco, che si combatte in questi mesi, e il cui esito, putroppo, sembra essere già scritto, è solo l'ultima declinazione delle innumerevoli battaglie per il cuore e l'anima della Strandzha. Qui, il 29 giugno 1903, nel cuore di quello che oggi è il parco naturale, in una località sul fiume Veleka chiamata Petrova Niva, i capi del VMORO, organizzazione rivoluzionaria bulgara, presero la decisione di dare vita alla rivolta che scoppiò il 5 agosto successivo, nel giorno della Trasfigurazione di Cristo (Preobrazhensko Vastanie) in appoggio alla rivolta di Ilinden iniziata due settimane prima in Macedonia. La rivolta fu soffocata nel sangue, e perché almeno parte della Strandzha venisse a far parte della Bulgaria si dovranno aspettare ancora dieci anni, con la prima e la seconda guerra balcanica che stabiliranno il confine tra Bulgaria e Turchia sulle sponde contorte del fiume Rezovska.Durante la guerra fredda questa fascia di territorio a ridosso della Turchia era quasi inaccessibile anche per gli stessi bulgari. Si entrava soltanto dopo controlli di polizia, e si timbrava il passaporto, quasi si entrasse in uno stato nello stato. Oggi i controlli esistono ancora, ma sono piuttosto blandi. In alcune zone, come a Rezovo, ufficialmente è proibito fare fotografie, ma i turisti, non tantissimi a dire il vero, non sembrano preoccuparsene più di tanto.

“Questa è una terra per cui si è combattuto a lungo, sia per liberarla dagli ottomani che per affrancarla dalla pressione culturale e religiosa greca”. Zhechka Kaloyanova, ex insegnante, molti anni sulle spalle, ma ancora molta energia negli occhi e nella voce, è stata per otto anni il sindaco del villaggio di Brashlyan, dove oggi continuano a vivere, a pochi passi dalla frontiera, una sessantina di persone. Nel 2001, grazie ad un finanziamento del programma Phare, Zhechka è riuscita a realizzare le fognature del paese, e a far sì che Brashlyan diventasse una delle poche realtà che hanno saputo approfittare dalle opportunità date dal parco, anche grazie alle numerose case tradizionali in legno, che ne fanno un posto di sicuro interesse. Oggi, dopo essere andata in pensione, fa da guida al piccolo museo che racconta la nascita delle prime scuole in lingua bulgara e le imprese di Pano Voyvoda, l'eroe del paese, ucciso in uno scontro a fuoco alle porte dell'abitato, poco prima dell'inizio della rivolta del 1903. Nella voce decisa di Zhechka mi sembra di avvertire quasi il riflesso di un conflitto ormai lontano nel tempo, ma non ancora del tutto sopito nell'anima di queste terre. “Questa è stata sempre una terra soprattutto bulgara”, mi dice sottolineando le sue parole con gli occhi vivi e azzurri come il cielo,“e in tutta la zona c'era un solo paese turco, Dengizovo, che però oggi è scomparso, e il cui ricordo rimane legato solo a vecchie canzoni. Sono stati trasferiti, tanto tempo fa, lo stato non voleva che ci fossero comunità turche vicino al confine”.

Anche a Rezovo, una ventina di chilometri più ad est, sul mare, il confine è una realtà palpabile, viva. Il paese non è una meta primaria del turismo, come ad esempio Sinemoretz, poco più a nord, famoso per la lunga striscia di sabbia che divide il mare dalla foce del Veleka. “Qui non abbiamo spiaggia, ma solo scogli”, mi dice Vyara, propretaria di uno dei pochi agriturismi aperti tutto l'anno. “Dall'altra parte, invece, ne hanno fin troppa, ma non la usano”, e mi indica l'altra parte del piccolo golfo regolare al di là del fiume Rezovska, i pochi tetti rossi del villaggio turco di Beendik, appena dopo il confine, con la sua lunga spiaggia deserta. Negli anni scorsi, ci dice ancora Vyara, ci sono stati incontri, promossi dall'ex ministro degli Esteri bulgaro Salomon Passi per costruire un ponte oltre il fiume, e dare la possibilità ai turisti bulgari di usare la spiaggia in Turchia, ma le trattative, almeno per il momento, non hanno portato a risulati concreti. Sulla sponda bulgara, oltre alla chiesetta da poco inaugurata di San Giovanni Battista, dove un pope dalla barba imperlata di sudore battezza una signora sui cinquant'anni, che entra ed esce per tre volte, visibilmente emozionata, da una grossa bacinella di plastica arancione piena d'acqua, fa bella mostra di sé un grosso cartello, con la scritta “comune di Tzarevo”, e con le bandiere bulgara e della comunità europea. L'ingresso della Bulgaria nell'Unione è ormai cosa fatta, e l'Europa, quella vera, sembrano voler dire silenziosamente le bandiere a chi guarda dall'altra parte del golfo, si trova su questa sponda del fiume.

(Fine della prima parte – continua)

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