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Giustizia in Kosovo: una battaglia non combattuta

03.05.2007    scrive Alma Lama

Fotografie di persone scomparse durante il conflitto esposte in centro a Pristina
Un forte senso di frustrazione accumulatosi in questi 8 anni di amministrazione internazionale. E' quello che provano molti albanesi kosovari per l'impunità di chi, durante il conflitto, si è reso colpevole di gravi crimini. La prima puntata di un reportage-inchiesta della nostra corrispondente
Sono ben pochi quelli che credono che la battaglia per assicurare alla giustizia chi ha commesso crimini di guerra in Kosovo sia mai stata realmente combattuta. E, ad otto anni dalla fine del conflitto, non accenna a diminuire tra gli albanesi kosovari il senso di frustrazione per la totale impunità di chi, soprattutto durante i bombardamenti della Nato, si è reso colpevole di tali crimini. Le battaglie legali intraprese su base individuale sono fallite quasi tutte, mentre, a quanto pare, quelle iniziate dalle istituzioni non sono state portate fino in fondo. Anche l’Unmik, l’amministrazione dell’Onu in Kosovo, che in questi anni, tra l’altro, ha avuto il controllo sulla giustizia, sembra essere stata più che altro interessata a chiudere questo tema scomodo. Carla del Ponte, capo procuratore del Tribunale dell’Aja per i crimini nell’ex-Jugoslavia, ha recentemente affermato che il dibattito sui crimini di guerra è arrivato al culmine in quasi tutti gli stati che formavano la federazione jugoslava. E’ un dibattito vivo, presente nella vita di ogni giorno e sui media. Un dibattito che rimane ancora drammaticamente aperto.

Bernica, il paese del massacro

Una piccola insegna, vicino ad una siepe, con su scritto in inglese “shop”. E’ uno dei segni di vita nel villaggio Bernice e Eperme, ad appena sette chilometri a nord-est di Pristina, capoluogo del Kosovo. Su un’altra insegna, inchiodata ad un albero, accanto alla prima, c’è scritto “in vendita". E’ la casa di S.M, e noi ci fermiamo proprio qui. S.M. è sulla quarantina; quando iniziamo a parlare con lui, è gentile, pensa che vogliamo comprare qualcosa nel suo negozio. Nel momento in cui capisce che non siamo clienti e vogliamo invece parlare, ci invita in casa. Mentre la moglie, in cucina, prepara un caffè, S.M ci racconta delle difficoltà di ogni giorno, del lavoro nella serra che ha costruito per coltivare verdure e della macchina che, proprio in questi giorni, gli hanno rubato nel cortile di casa.

"Ho le mie ragioni per vendere casa e terra. Non sono ragioni di carattere economico, ma non hanno nemmeno a che fare con le relazioni con gli albanesi”. La famiglia di S.M. è molto nota nella zona. Suo padre, morto un anno fa, era una persona conosciuta. Gli chiedo come sono stati i rapporti con i vicini albanesi durante la guerra. "Buoni, abbiamo sempre avuto buoni rapporti." Il suo sguardo vaga nella stanza. E’ evidente che non si sente troppo a suo agio se si parla degli omicidi commessi durante la guerra in questo villaggio. Di questo tema non vuole parlare.

L’unico che può rispondere a queste domande, ci dice, è L.G., il capo villaggio. Andiamo a casa sua. L.G. parla l’albanese in modo fluente, ma neanche lui vuole parlare. "Se volete sapere come viviamo, chiedetelo al capo villaggio di Bardhosh, lui lo sa bene”, dice, dandoci il suo numero di telefono.

A pochi metri dalla sua casa c’è quella, disabitata, della famiglia Reka, i muri ancora crivellati di colpi. Nel suo giardino sono stati recentemente piantati sette pini, uno per ogni membro della famiglia ucciso il 18 aprile 1999. Se la convivenza è mai esistita, a Bernica e Eperme, di certo è finita quel giorno. Oggi, i serbi rimasti in questo piccolo villaggio, non possono uscire liberamente nemmeno nei propri giardini, e i soldati della KFOR sorvegliano costantemente l’area per garantire la loro incolumità.

I vicini coinvolti nei crimini ?

D'altra parte, i vicini albanesi non sonno più tornati a vivere nelle proprie case, e il villaggio resta quasi del tutto disabitato. “Abbiamo ricordi terribili, non potevamo ritornare", dice Ejup, uno dei sopravvissuti della famiglia Reka. Oggi Ejup ha costruito una nuova casa, ad alcuni chilometri di distanza dal posto dove è nato. Quel giorno Ejup ha perso sua moglie
Fatmire, 45 anni, madre di sei bambini, i due fratelli Sabri, 35 anni e Nuhi, 28, due cugini appena sposati, Ajvaz, 22, e Aferdita, 17, e la moglie di suo zio, Shehide, 65 anni, tutti morti insieme a Qerkin Berisha, 30, un vicino di casa.

Sua moglie Fatmire, è stata trucidata mentre teneva in braccio due dei suoi bambini, Nora 9 anni, e Premtimin, 6. Suo fratello Sabri portava in braccio suo figlio, Petrit, 5 anni, che è rimasto ferito al viso in modo molto grave. Un altro dei suoi figli, Granit, che all’epoca aveva appena due anni, adesso soffre di diabete, causato dal trauma subito allora. Per alcuni mesi Granit, che soffre di sindrome post-traumatica, ha abbandonato la scuola, pur essendo un allievo eccellente. La storia più tragica è quella della diciassettenne Aferdita, uccisa dopo essere stata rapita e violentata per due settimane dai paramilitari e poliziotti serbi. Il suo corpo, infilato in un sacco di plastica, è stato ritrovato sotto un ponte, all’interno del villaggio.

Tragica è anche la storia della famiglia Berisha. Il 16 maggio 1999 sei persone, quasi tutti anziani, sono state massacrate a Siceva, a pochi chilometri da Bernica e Eperme. Si tratta di Sulejman, 87 anni, Shaide, 77, Ramadan, 75anni, Vaide,66, Jahir 92 anni, tutti della famiglia Berisha, e Seidi Kuleta, di 22 anni. Jakup Berisha, figlio di Sulejman e Sheide, ha assistito al massacro. Dopo aver visto le forze serbe circondare la sua casa, Jakup si è nascosto nelle vicinanze, ed è rimasto immobile per quasi 12 ore. Dal suo nascondiglio ha visto le forze serbe in azione, poi, quando è tornato in casa, ha trovato i cadaveri di sua madre, suo padre e degli altri parenti. Jakup ha fotografato la scena del crimine. Nelle sue testimonianze, ha fatto nome e cognome di chi, quel giorno, guidava il gruppo che ha massacrato la sua famiglia.

Battaglia per la giustizia

Ejup Reka e Jakup Berisha si stanno battendo per avere giustizia. A partire dal 1999 tutto il materiale sui crimini commessi a Bernica e Siceva è stato consegnato a diverse istituzioni. Per i fatti di Bernica e Eperme, Ejup e Hashim Reka hanno testimoniato innanzitutto davanti alla procura del Tribunale dell’Aja, e più precisamente nel suo ufficio di Skopje, già negli ultimi giorni dell’aprile 1999. Un inchiesta è stata poi aperta, nell’aprile 2001, dal tribunale regionale di Pristina, nella persona del procuratore Pjeter Rrapi. Il caso è stato poi seguito da Kim Refsnammer, investigatore danese dell’Unmik, per passare poi ai colleghi Rondy Gowler e Deryll Stveet.

Il numero del file aperto per i massacri di Bernica e Eperme e Siceva è stato contrassegnato col codice 2001-0008. Sono dieci i testimoni pronti a comparire di fronte al tribunale. Il giudice investigativo Kim Refsnammer aveva chiesto alle famiglie Reka e Berisha di ritirare la cartella originariamente consegnata all’ufficio di Skopje, per poter confrontare i dati a disposizione. In seguito le due famiglie, insoddisfatte per i pochi progressi dell’indagine, hanno chiesto di riaprire il caso, che è passato ai giudici investigativi Rondy Gowler e Deryll Stveet. “E’ strano che venga chiuso un caso del genere con tante testimonianze, mi hanno detto Gowler e Stveev”, ci racconta Ejup Reka.

Quando i due hanno terminato la loro missione in Kosovo, la cartella è passata nelle mani di un altro giudice investigativo, questa volta statunitense. Anche se le famiglie non hanno mai smesso di chiedere quale fosse lo stato delle indagini, non sono mai riuscite ad ottenere una risposta scritta da parte del dipartimento di giustizia dell’Unmik.

"Nei nostri regolari contatti con il giudice investigativo americano, ci è stato detto che le indagini erano state completate, e che tutto ora è nelle mani del capo procuratore internazionale in Kosovo, Michael Hartman. L’ordine di andare più a fondo può venire solo da lui". Ejup Reka e Jakup Berisha hanno saputo, in un modo non ufficiale, che per il massacro di Bernica e Eperme e Siceva sono state indagate soltanto due persone, ma, al momento, nessuno di loro si trova in Kosovo.

Unmik: senza risposte

Alla nostre domande sullo stato delle indagini per gli omicidi perpetrati in questi due villaggi, il direttore dell’unità dell’Unmik che indaga sui crimini di guerra, il britannico Steven Thomson, ci ha detto che, pur avendo acconsentito a rilasciare un’intervista , non è autorizzato a parlare di singoli casi concreti. "Solo il direttore del dipartimento di giustizia dell’Unmik ha questa facoltà”, ci ha detto Thomson.

In realtà, abbiamo tentato di parlare con il direttore per circa un mese, abbastanza per renderci conto che avere un’intervista con lui è di fatto impossibile. La portavoce dell’Unmik, Myriam Desaables, ci ha inviato alcune brevi risposte, senza spiegare che cosa è successo alle denunce presentate da Ejup Reka e Jakup Berisha.

La denuncia

Il 25 novembre 1999 è stata depositata al tribunale di Pristina una denuncia, dove compaiono i nomi di 23 serbi dei villaggi di Bernica e Eperme e Bernica e Poshtme. Il caso venne allora affidato procuratore Imrane Kajtazi. Ejup Reka e Jakup Berisha sostengono che i 23 serbi sono stati identificati da molti testimoni nei villaggi dove avrebbero commesso crimini.

In questa lista compaiono anche i nomi di due persone che abbiamo incontrato a Bernica e Eperme. D.G, ad esempio, ha indossato la divisa come riservista nella polizia, e – secondo i vicini albanesi – avrebbe partecipato a tutte le azioni criminali commesse dalla polizia. Secondo i testimoni, tutte le persone coinvolte erano in uniforme. Dopo il 19 aprile 1999, sonno state uccise più di 120 persone nelle zona di Gollak.

Crimini e rappresentanza politica

Nel 2001 T.S.,una delle persone accusate dai residenti dei crimini commessi negli villaggi di Bernicae Eperme e Makovc è stata eletta come consigliere dell’assemblea comunale di Pristina. L’amministratore internazionale della municipalità era allora Seigfried Brenke.

Il neoconsigliere è stato però accusato di crimini da un altro consigliere, Nystret Pllana, la prima volta che ha tentato di prendere la parola in assemblea. In seguito alle accuse di Pllana alcuni poliziotti dell’Unmik, presenti alla seduta, sono intervenuti e hanno portato via il consigliere serbo per proteggerlo da eventuali aggressioni.

Jakup Reka racconta di essersi immediatamente recato sul posto. "L’ho incontrato sulla porta del municipio, accompagnato dai poliziotti dell’Unmik e dai militari della KFOR. Due giorni dopo ha lasciato la sua casa di Bernica e Eperme su alcuni camion, protetto dalla forza militare della KFOR”.

Per tre mesi l’assemblea comunale ha interrotto ogni attività, mentre i cittadini protestavano davanti alle porte del municipio alla ricerca di giustizia. “Volevamo che T.S. andasse dove merita, al Tribunale dell’Aja, per i crimini che ha commesso nelle villaggi di Gollak", ci ha detto Pllana.

Ma T.S. non è l'unico sospetto che sia riuscito ad allontanarsi dal Kosovo, anche molto tempo dopo la fine delle ostilità. Tra il 2000 e il 2001, e nonostante sia la prigione in Kosovo con il più alto grado di sicurezza, 24 serbi accusati di crimini di guerra sono riusciti a fuggire dal penitenziario di Mitrovica. Secondo le persone che abbiamo intervistato nel corso di quest'inchiesta, vi sarebbero addirittura casi in cui persone sospettate di crimini di guerra sono riuscite ad entrare nel Kosovo Police Service.

R.S. sarebbe uno di loro, e oggi lavora in una delle stazioni di polizia della regione di Pristina. Secondo i poliziotti che abbiamo interpellato su questo caso, R.S. è ormai sotto indagine, ma la pubblicazione dei suoi dati potrebbe danneggiare l’inchiesta, partita in questi giorni, dopo che abbiamo iniziato a fare domande su di lui. Ejup Reka ha testimoniato di averlo visto con i propri occhi mentre partecipava all’azione criminale nel suo giardino di casa. L'avrebbe riconosciuto quando, dopo essersi tolto il passamontagna nero, ha colpito con il suo elmetto suo zio, Avdyl.

... continua

* Questo reportage-inchiesta è stato realizzato con il sostegno della Danish Association of Investigative Journalism (This investigation was done with support from the Danish Association of Investigative Journalism)
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