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Attentato in capitale

25.05.2007    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Martedì scorso nel cuore di Ankara è esploso un ordigno ad alto potenziale. Sei morti e oltre cento feriti. Sono ancora molti i dubbi e le incertezze su movente e responsabili dell’attentato
Ancora molti dubbi ed incertezze aleggiano intorno all’attentato compiuto martedì scorso ad Ankara.

Una bomba ad alto potenziale, plastico A-4, è esplosa in una strada del quartiere di Ulus, la zona che si snoda ai piedi della vecchia cittadella, cuore dell’Ankara popolare.

L’esplosione si è prodotta ad una fermata dell’autobus lungo l’affollatissimo viale che collega la piazza dove sorge il primo Parlamento della repubblica al Museo delle civiltà anatoliche. E proprio nel museo, il più importante del paese, un’ora dopo l’esplosione era previsto il ricevimento inaugurale per la fiera dell’industria militare che si tiene in questi giorni nella capitale.

Pesante il bilancio dell’attentato: 6 morti e più di cento feriti, tra i quali molti pakistani ad Ankara proprio per la fiera.

Tra i primi a raggiungere il luogo dell’esplosione il primo ministro Erdoğan che nelle prime dichiarazioni ha ribadito “la necessità dell’unità nazionale per battere il terrorismo” ed il capo di stato maggiore Büyükanit.

Sul fronte delle responsabilità, fin dalle primissime ore dopo l’attentato, l’attenzione di gran parte dei media si è concentrata sul PKK.

I risultati dei test del DNA effettuati sui resti delle vittime hanno permesso di identificare un giovane di 28 anni, Güven Akkuş. Per il prefetto di Ankara Önal si tratterebbe dell’attentatore suicida. Akkuş però ha un passato di militanza nell’Unione dei Comunisti Rivoluzionari della Turchia (TIKB) che gli è costato due anni di carcere. Un rappresentante della TIKB ha chiamato nei giorni scorsi il sito BIAnet per smentire ogni coinvolgimento nella vicenda e per ricordare che dopo la sua scarcerazione, nel 1998, Akkuş ha interrotto qualsiasi contatto con l’organizzazione. Da allora di che cosa sia stato del giovane non si sa nulla. Si è scritto che si sarebbe avvicinato al PKK e che sarebbe stato addestrato in Iraq. Per il momento solo illazioni prive di qualsiasi riscontro.

Ma perché il PKK avrebbe voluto un’azione di questo genere, nel cuore della capitale, alla vigilia delle elezioni? Lo abbiamo chiesto a Ertuğrul Kürkçü di BIAnet secondo il quale “è difficile capire per quale ragione il PKK avrebbe potuto volere un’azione simile, proprio alla vigilia di elezioni in cui il Partito della Società Democratica (DPT) punta a far entrare un discreto numero di rappresentanti in parlamento”. Kürkçü poi fa notare come siano solo voci mai confermate ufficialmente quelle secondo cui l’organizzazione avrebbe annunciato la volontà di colpire nei grandi centri del paese.

Di parere contrario è Ruşen Çakir, autorevole esperto e commentatore del quotidiano “Vatan”. “Il PKK potrebbe aver compiuto l’attentato per mostrare quali potrebbero essere le conseguenze nel caso di un intervento militare turco nel Nord-Iraq”, dice Çakir.

In un clima di totale incertezza e tensione crescente, nel quale nessuna ipotesi sembra poter essere esclusa, non resta che fare riferimento ai pochi elementi certi che emergono dal drammatico attentato di martedì.

Il primo è il fermo ad Istanbul nelle ore successive all’attentato di 7 persone tra cui una signora di 60 ani che custodiva dell’esplosivo al plastico. Ad Adana una donna di 31 anni è stata arrestata con 11 chili d esplosivo mentre si dirigeva in taxi verso il terminal petrolifero di Ceyhan.

Il secondo elemento è la tempestività con cui alcuni media e rappresentanti ufficiali hanno chiamato in causa il PKK, fin dalle prime ore, in assenza di prove o rivendicazioni.

Il capo di stato maggiore Büyükanit sul luogo dell’attentato ha fatto dichiarazioni che hanno trovato grande eco sulla stampa “Bisogna guardare chi c’è alle spalle dei terroristi”. E nei giorni scorsi il generale aveva mostrato ad Erdoğan le prove della rete di sostegno di cui il PKK godrebbe in Europa. Nelle sue dichiarazioni il generale si è anche lasciato andare ad una profezia inquietante “Ci dobbiamo attendere altri episodi analoghi nelle grandi città del paese”.

Un terzo elemento è rappresentato dalla smentita del PKK che attraverso l’agenzia di stampa Firat ha escluso ogni suo coinvolgimento nell’attentato e l’assenza di qualsiasi rivendicazione. Anche da parte dei Falchi per la libertà del Kurdistan (TAK), che nel recente passato aveva rivendicato attentati rivolti ad obbiettivi civili ad Istanbul ed in alcune località turistiche del paese. Sigla che secondo molti osservatori sarebbe una copertura usata dal PKK per questo genere di iniziative.
E soprattutto vi è il prepotente ritorno al centro dell’attenzione pubblica e dell’agenda politica della questione di un intervento militare turco in Nord Iraq, contro le basi del PKK.

Una ipotesi da tempo sul tappeto e che finora ha prodotto molteplici tensioni. A livello internazionale tra la Turchia e il governo di Baghdad. A seguito delle dichiarazioni del presidente curdo Balzani, “Se la Turchia si immischierà nei nostri affari, noi faremo lo stesso con i problemi di Diyarbakir”, il governo di Ankara aveva inviato una nota diplomatica a Baghdad nella quale chiedeva cooperazione e collaborazione nella lotta al terrorismo.

Solamente nei giorni scorsi il ministero degli Esteri turco ha fatto sapere che Baghdad ha risposto il 17 maggio ribadendo la sua volontà di collaborare.

La tensione è però soprattutto tra il governo Erdoğan e le forze armate. Lo scorso aprile il generale Büyükanit aveva ribadito la necessità di un’operazione militare per la quale però “serve una decisione politica” rimandando di fatto la responsabilità ad un governo, che non sembra entusiasta all’idea di finire nel pantano iracheno. Proprio alla vigilia dell’attentato di Ankara si era verificata l’ennesima frizione, con la decisione improvvisa del governo di destituire dall’incarico di coordinatore della lotta al terrorismo il generale in pensione Edip Başer.

Başer era stato nominato nel settembre 2006 con il compito di collaborare con il suo omonimo americano Ralston nell’obbiettivo di neutralizzare la presenza del PKK nel nord iracheno. Başer aveva ripetutamente criticato il governo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una sua intervista al quotidiano tedesco “Die Welt” nella quale aveva pesantemente preso posizione contro il governo sulla questioni dell’elezione del presidente della repubblica e la laicità.

Pressato di nuovo nei giorni scorsi sul tema dell’intervento in Iraq Erdoğan si è mostrato più possibilista non rinunciando nel contempo a rilanciare la palla ai militari “se ci sono delle richieste particolari noi siamo pronti a prenderle in considerazione.”

E mentre si discute nei palazzi di Ankara, nell’Anatolia sud-orientale continua l’operazione “Incudine” che da aprile vede impegnati più di 20.000 militari sulle tracce dei militanti del PKK. I bollettini di guerra quotidianamente riportano notizie di numerose vittime su entrambi i fronti.
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