Balcani Cooperazione Osservatorio Caucaso
mercoledì 07 settembre 2022 14:41

Osservatorio Balcani
 

Cartolina dal tempo imprigionato

20.08.2007   

Un racconto che ci riporta indietro nel tempo, a Belgrado nel 1999, in uno stato di amara incertezza esistenziale e di altrettanto sorprendenti risorse. Continuiamo la pubblicazione delle ''Best Stories from Visa Queues'' pubblicate da www.needvisa.net. La traduzione è di Antonia Pezzani
di Milica Jovanović di Belgrado

Acquistare la benzina da bidoni lungo le strade della Serbia, andare a caccia di telegiornali su frequenze oscurate, l'indigenza costante e molte forme ancora di vitaccia ai tempi di Milošević, sono soltanto alcune originalità della Belgrado del 1999. Annoverabile quasi allo stesso livello, per la nostra gente, anche riuscire a farsi mettere il visto sul passaporto da una delle diverse ambasciate. Un'angoscia. Molte persone lasciarono il paese. A molti, pur desiderandolo, non fu concesso. Almeno una volta tanto, per le vacanze estive, con gli amici. Questa non è la storia di qualcosa che non sarebbe stato verosimile, nella cornice di un'ordinaria giornata lavorativa dell'ambasciata tedesca, in un qualche giorno passato. Questa è la storia di come si svolge ciascun giorno qualsiasi. La gente vuole una via d'uscita dal paese. E può essere triste...

È presto e freddo. Mia cugina dall'entroterra e io ci arrampichiamo per la salita, verso Slavija. Ci affrettiamo verso quella zona della città dove ci sono le ambasciate. Anche se dobbiamo “acciuffare” la coda prima possibile, lei non può fare a meno di notare come siano grossi i buchi causati dai Tomahawks sul quartiergenerale dell'esercito. Non ci faccio più caso. Vivo vicino e ci sono abituata. La parte di città in cui vivo io è stata bombardata spesso nei mesi scorsi, edifici dell'esercito e della polizia, qualche volta civili. Ma questo tiro a segno è andato a vuoto, gli edifici erano vuoti. Penso a questa ragazza che non va neanche fino a Zaječar, e a Belgrado trova tutto eccitante. Mentre andiamo le indico le altre ambasciate, lei mi chiede della cinese. Perché proprio della cinese tra le altre chissà, ma lei mi spiega che si ricorda che l'ambasciata cinese fu l'unica a essere distrutta – danno collaterale. Tra me e me ricordo un pettegolezzo cittadino secondo cui all'ambasciata cinese si nascondevano i membri dello Julovci e che quella notte c'era Ljubiša Ristić, e che si spaventò a morte. Non so se ancora qualcuno ricorda questo pettegolezzo cittadino e Ljubiša Ristić, l'amico di Mira.

Davanti all'ambasciata troviamo una trentina di persone. Sono dentro un box metallico transennato, una in fila all'altra, e non sono ancora le otto. Umiliante – la prima cosa che penso. Visto che da soli non siamo capaci di starcene tranquilli in fila senza spintonare, i disiciplinati tedeschi ci hanno messi in un recinto. Ci serviva proprio. Realizzo che davanti a noi abbiamo una lunga mattinata d'attesa a meno due. Mi soffio sulle mani e cerco di ricordare tutte le informazioni in mio possesso di questa lontana cugina, dal distante entroterra.

Lei è di una città dove le strade solo a volte sono illuminate, di una città dove si vota ancora Milošević e dove ci si scalda con la legna. Gli uomini lì bevono il raki di primo mattino, e le donne fanno il bucato a mano per via delle lavatrici rotte. La cugina vuole fare l'ultimo tentativo, per raggiungere il suo amico a Francoforte. Due, tre mesi di lavoro lì, in nero. Quello che c'è, le basterebbe solo tornare con dei soldi. L'hanno respinta già due volte. Mi dice che al momento lavora in bottega, e il padrone non la paga regolarmente perché il negozio non guadagna bene. E i suoi lavorano nell'agricoltura, ma il governo non paga neanche il rimborso e così sono spesso senza soldi. E mentre cercavamo di ricordarci dei precedenti rari incontri e di ricostruire il nostro albero genealogico, sono arrivati i rinfreschi. Una nonna, le cui fattezze sono difficilmente distinguibili per via di tutti i vestiti che ha addosso, vende tè e caffè. Non mi posso lamentare, dice. Scende a vendere qualcosa all'ambasciata inglese, poi fino a quella italiana. Va a vendere un po' di calore alla gente semiassiderata in fila per il visto. Ride, dice che queste code funzionano, riesce a camparci. Ecco, il nostro distributore ambulante di caffè, con le emozioni.

Dopo il caffè la gente in coda incomincia a svegliarsi. Era il nostro primo caffè insieme, ci rendemmo conto, bevuto qui al freddo, dentro questa recinzione metallica, mentre a mezza voce controlliamo di avere tutti i documenti e le copie richieste. Secondo la mia stima, sono circa venti fogli di vari documenti originali e fotocopie da consegnare. La lettera d'invito è uno dei più importanti. Se non avete nessuno da cui andare non mettetevi in fila. Ostelli o altri viaggi turistici in Europa per noi sono fuori discussione, perché inarrivabili, oltre la frontiera, per noi così difficile da superare. Poi c'è una specie di prova di come viaggerete lì e di quando tornerete, di dove lavorate, il certificato di nascita, di cittadinanza, l'assicurazione, il passaporto e i soldi, e può darsi ci sia ancora qualcosa, ma come fare a ricordarsi tutto. Per cui tutti hanno una cartella, che dà un'aria da persone importanti, come se facessero chissà quale lavoro. Mia cugina ha dei soldi presi a prestito, che dovrebbero servire a dimostrare che le spese di soggiorno saranno coperte e che dovrà restituire dopo averli presentati all'ambasciata agli amici che ne avevano abbastanza da prestargliene. E sono necessarie anche le fotografie, due. E il formulario, indispensabile! Impronte digitali, gruppo sanguigno e albero genealogico non sono ancora richiesti. Forse è meglio, così non sanno proprio tutto di chi fanno entrare in paese.

In fila c'è un'atmosfera rilassata. Un uomo che somiglia a un criminale da due soldi, con il cellulare, che è ancora uno status simbol nella nostra cittadina, legge il giornale. Si comporta come se niente di quello che gli accade intorno gli importasse. Ci precede una donna velata. Con pantaloni larghi e ducati come orecchini. E un dente d'oro. E calze di lana di Zlatibor. E ciabatte di plastica rosa. E tre figli. All'inizio i figli se ne stanno tranquilli e mangiano le arachidi che lei gli dà da una borsa. Con il passare del tempo, iniziano a giocare tra loro sempre più chiassosamente. Il marito precede la donna velata in fila e parla con un uomo accanto a lui, in una lingua che per me è incomprensibile. Se sia turco o albanese, non lo saprei. Li osservo meravigliandomi. So che non sono dei “nostri”, gente ortodossa e cattolica. E mentre mi chiedo se sia per via di pregiudizi religiosi nei loro confronti o li consideri diversi per via della donna e delle sue ciabatte di palstica rosa, sento una donna parlare con mia cugina delle proprie speranze di viaggio e di ottenimento del visto. È una vecchia signora, ancora in forze, ma deperita, con un qualche vecchio splendore di gioielli obsoleti. Per la forte emozione non riesce a trattenrsi, e racconta nei dettagli delle sue figliole con cui si dovrebbe incontrare a Dusseldorf. Una di loro arriva dal Canada per vedere la madre e la sorella. Entrambe partirono già nel novantuno, quando qui incominciarono a guerreggiare. Ha paura che non glielo diano il visto, perché è pensionata. Traduceva dal francese e viaggiava molto, ancora al tempo di Tito, benché naturalmente lei non fosse a favore di Tito, si affretta ad aggiugere. Come se adesso anche questo fosse importante per il visto. Rifletto: non importa a quale gruppo si appartenga per ottenere il visto. Se sei pensionato, pensano che starai dai figli, se sei studente resterai a lavorare, se sei gastarbeiter daccapo, lavorerai in nero, e nemmeno questo va bene, e se sei disoccupato non hai possibilità.

Finalmente le dieci, e questa è l'ora in cui iniziano a far entrare le persone all'ambasciata. Due uomini della sicurezza, armati, fanno passare una persona per volta. Più nessuno agli sportelli delle persone che dovrebbero lavorare al di là di essi, perché l'amministrazione è stata ritirata per via del bombardamento e ancora la situazione non si è normalizzata, e c'è ancora la questione del quando e come, perché siamo ancora sulla lista nera, veniamo a sapere in fila. Il primo che è passato attraverso le porte dell'ambasciata lo rimandano indietro perché gli mancano le fotografie, ma se le consegnerà su due piedi, accetteranno i suoi documenti. Incomincia il fermento, l'indagine di dove ci si possa fare ritrarre, se è vicino, e che è accaduto dentro e come era. Un uomo della sicurezza spinge sgarbatamente quelli che non richiedono il visto dall'altra parte della strada.

Poco male, ho i piedi gelati e fare due passi mi farà bene, inoltre non starò a pensare se sia lui una minaccia per i miei diritti, o se sono io che minaccio i diritti di qualcuno col fatto che sto su quella porzione di marciapiede. O semplicemete i diritti di un ammasso incontrollabile di gente, che si metterebbe quanto prima al riparo dal freddo, anche se implica farsi avanti a gomitate nella fila, se questo è lecito. Ma mi avranno bene dimenticata prima che torni, una tale fisionomia.

L'uomo è alla ricerca di un fotografo, io di un bagno. Tutta la situazione si svolge a un incrocio dell'austero centro cittadino. Nella via parallela ci sono tutti i Ministeri, il parco, il Beogradanska, il London (1). E l'uomo trova un fotografo sul luogo. Si mette accanto alla parete di un fabbricato residenziale, lo sguardo diritto nella macchina e appena escono le foto dalla macchina il fotografo improvvisato mette le foto su un fornello a gas nel laboratorio fotografico estemporaneo, in una vecchia Skoda. Forse per farle asciugare? Che scena surreale. Ecco, la nostra cabina automatica per le fototessere. E ti riscalda!

La mia ricerca va a buon fine in un caffè-bottega decrepito, che saranno trent'anni che non lo riammodernano. Dentro il bagno, non c'è niente che non provochi disgusto, tanto più niente che sia a standard europeo. Sono ancora tempi in cui nella nostra capitale bagni pubblici e toilette chimiche non sono “contemplate.” E siamo nel ventesimo secolo.

In una casa prefabbricata in miniatura, proprio all'angolo, siedono due ragazze che compilano il formulario unico che quelli che vogliono andare in Europa devono consegnare. E ci sono quelli che non sono lo sanno fare e perciò pagano. Non è uno spettacolo allegro. Queste persone, quasi in punta di piedi, dettano alle ragazze attraverso l'apertura dello sportello le loro generalità. Nelle vicinanze c'è anche la fotocopiatrice casomai servissero copie dei documenti e un cambio valuta, per chi non ha quaranta marchi spiccioli, perché all'ambasciata accettano solo denaro spicciolo. Un uomo che in fila siede su uno sgabello dice che è perché i tedeschi ci odiano. Io guardo soltanto, come se non avessi capito la stoltezza che ha detto. I tedeschi ci odiano e allora ci toccano i denari spiccioli? Ormai inizio a saltellare sul posto, ho freddo. Ma per la cugina, per un viaggio all'estero, vale la pena aspettare e essere d'aiuto. È così che mi consolo, ma in sostanza in questo momento odio i serbi e i tedeschi, le file e i visti, e le cugine. Solo i bambini sono ancora giocosi. Tocca alla famiglia che ci precede. Quello della sicurezza con un fare molto professionale toglie la catena, tesa tra i paletti metallici del recinto. La catena che divide noi dagli altri. Quelli che entrano da quelli che restano ad aspettare ancora, dopo già sei ore buone. E quelli che sono lì stabili, dietro quelle catene che dividono le persone. Tedeschi, inglesi, francesi. In quel momento, il più piccolo dei figli al seguito della madre velata accorre e mi dà una caramella. Mi sento spaesata. Con quel sorriso che mi ha strappato.

Attraverso dall'altra parte, per non creare problemi, e osservo il luogo in cui ci troviamo. Nella capitale di un paese balcanico e europeo. Le strade sono asfaltate, e non manca l'illuminazione notturna. Ma sembra di essere in una borgata. Sviluppata, ma borgata. Quello sportello, e le nonnette che sopravvivono così e le persone che gironzolano con i loro sogni da due soldi, di partire per chissà dove, di vedere chissà cosa, lavorare, mangiare meglio, dormire meglio. Mi sembra tanto triste tutta questa gente. E io con loro. Ma così è la vita. Così ogni giorno, accade una storia ordinaria nella nostra borgata.

L'edificio di fronte all'ambasciata è il Centro per la decontaminazione culturale. C'è appeso sopra un cartello che dice: Sete di vita. Dovrebbero attaccarlo su tutti gli edifici della città un cartello del genere, perché la condividiamo tutti questa sete di vita che non avevamo nel tempo imprigionato trascorso.

Passati sei anni, devo ancora vedere Berlino, e mi piacerebbe tanto.


(1) Rispettivamente un grattacielo e un ristorante