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Osservatorio Balcani Racconti, diari di viaggio
 

I prescelti

11.09.2007   

Un risveglio troppo brusco. Dopo un sogno che ritorna da giorni: quello di essere il Prescelto. Continua la pubblicazione delle storie dalle code dei visti
Davorin Nosal, Novi Sad

Traduzione a cura di Antonia Pezzani


All'improvviso sveglia. Il cellulare traballa sulla mensola di legno accanto al cuscino mentre i suoni ostinati, metallici, artificiali dell'allarme riempivano la piccola stanza. Il giovane lo trovò e con un moto riflesso della mano lo spense. Seguì il silenzio, più ostinato, più pungente del precedente assordamento. Si tirò a sedere sul letto, cercando a tentoni gli occhiali. Era presto, tanto presto che ancora non erano incominciati gli attacchi di tosse da fumatore dei coniugi di mezza età al piano di sopra. Così presto da potersi quasi dimenticare il chi e il dove.

Tre passi per attraversare la stanza ed essere già in bagno. Sopra il lavabo, tra la ragnatela di crepe sullo specchio schizzato, il riflesso pallido del suo volto. Ottima cera, disse al riflesso delle labbra secche. Aprì il rubinetto, l'acqua riempì le tubature e sgorgò a spruzzi incostanti. La lasciò correre per mezzo minuto almeno, per far sparire la feccia giallastra nello scolo prima di lavarsi le mani e il volto. La sera prima non si era rasato e adesso era troppo tardi. Per arrivare in tempo per la Selezione, come aveva previsto, avrebbe dovuto fare di corsa. E quest'ombra di tre giorni che gli pizzicava le guance avrebbe dovuto attendere.

Nudo, le spalle incurvate, si infilò nella doccia. La porta di plastica cigolò sui cardini arrugginiti. Il doccia schiuma rimasto era troppo diluito e sgusciò via per il giovane corpo, senza che riuscisse a darsi una bella strofinata. Lo scarico del box doccia era in parte intasato, così l'acqua sporca ristagnava intorno ai suoi piedi e li ricopriva. Allora si ricordò il sogno. Poteva averlo sognato la notte scorsa, un sogno compresso tra il tardo e agitato riposo e questo inizio mattiniero. O poteva averlo sognato chissà quale notte di quelle precedute, cullate dall'oblio. Perché tutti questi sogni erano simili, quasi identici: lì sa di essere il Prescelto e cammina sicuro, non c'è niente che lo possa fermare, mentre si avvicina al sole alla fine del Tunnel. Con tanta semplicità e determinazione. Ma qui, da sveglio, appoggiato all'interno sbiadito e graffiato del box doccia bluastro, in piedi con la testa china, mentre l'acqua tentava disperatamente di scendere per lo scolo, poteva solo contemplare i resti della sua vita sotto i piedi.

Fuori, ancora pioggia. Ancora e sempre quella pioggia tediosa, insalubre, salata, amara, schifoso sudore di un'instancabile creatura industriale dei cieli. Le fosche strade secondarie bisognose di luce, parecchi randagi, bagnati e infreddoliti, che si trascinano intorno ai sacchi dell'immondizia, sciagurati e stanchi anche per scambiarsi un latrato. Il primo tram del mattino, stridulo sui binari, si fermò alla fermata del giovane all'angolo. Le scintille schizzarono. Un vecchio saltò giù dalla vettura, barcollando, brontolando qualcosa di incomprensibile. Il giovane lo aggirò, seguendo un arco molto cauto, e spiazzato andò a sedersi nel primo posto libero.

Firme, oscenità, amori dimenticati e scommesse pendenti lo attendevano sul retro del sedile che lo precedeva. Forse alcuni di quei nomi, date e luoghi d'appuntamento di esseri un tempo felici poteva anche trovarli familiari, divertenti o quanto meno intriganti. Ma non era il momento per questi pensieri. Dopo ogni semaforo verde, dopo l'ennesima pozzanghera attraversata in strada, il tram era sempre più vicino all'ambasciata, più vicino all'ennesimo tentativo, più prossimo al suo sogno.

Il mattino non aveva ancora la meglio sulle nuvole, né trovava la via, il passaggio semi nascosto lungo l'orlo del mantello panciuto di fumo che incombeva sulla città. Nei pressi del centro cittadino le fermate si facevano più affollate, e sempre più gente saliva sul tram. Prima furono occupati i posti liberi e poi si stipò il corridoio. A una curva il tram gemette straripante mentre lo svolazzo di un cappotto grigio maleodorante si strofinò contro il viso del giovane. E fu mentre storceva il capo lontano da quel fetore, che il giovane si ricordò di non essere solo nel bisogno. Al contrario. Malgrado la levataccia, malgrado la smania di arrivare prima degli altri; malgrado tutte le volte che era andato all'Ambasciata invano, malgrado la disperazione con cui desiderava essere un Prescelto, non era solo in tutto ciò. Altri sognavano lo stesso sogno, e si dirigevano verso il proprio sole.

L'Ambasciata sorge in mezzo alla più grande piazza della città. Un edificio di cemento a più piani dalla facciata fredda e indifferente con poche finestre solitarie, si incurva sulla strada e il marciapiede già stipati di persone. La pioggia incessante si rovescia a dirotto dal cielo, lavando le facciate grigiastre e sferzando via le rare foglie rimaste sugli alberi soli. Le persone si ingorgano in un allargamento, tra le pareti silenziose dell'Ambasciata e i guidatori attenti in strada, si danno spinte impercettibili, chiedono scusa, si pestano i piedi, sono stanchi. Uno, tre, dieci, ottocento giovani si uniscono alla folla, stringendosi nell'impermeabile, con i documenti custoditi nella tasca interna sotto il braccio, stirandosi, facendosi largo nella folla, ruotando il capo. Ci sono anche donne e vecchi, bambini di nessuno, genitori dimenticati, coppie indissolubili.

Ogni mattino, gli abitanti di questa città caparbi e ostinati, vengono all'Ambasciata, ottimisti e disperati si raccolgono innumerevoli e senza volto, si amalgamano nella folla, nell'attesa dei fatidici cinquanta secondi della Selezione. E quando il momento arriva, prescritto e regolato dall'indiscutibile sagezza degli Ambasciatori e dei loro rappresentanti, le luci si accendono e si volgono verso il basso, scrutano e cercano, tra tutte queste persone scegliendone solo cinque. Solo cinque: geneticamente adatte, professionisti affermati, emotivamente stabili, cinque che non siano affetti da mali ereditari, intellettualmente sani. Solo quei cinque che per primi saranno avvolti dal fascio deciso di un altrimenti schizzinoso riflettore multifunzionale, mirabilia tecnologica. Gli altri dovranno tornare a casa, fino al mattino successivo almeno, nessuno escluso, tranne questi cinque mietuti da questa enorme messe di grano.

Comunque sia, si dice che i Tunnel siano la più grande meraviglia degli Ambasciatori e delle loro civiltà. Incomprensibili per l'uomo ordinario, si reggono sulle comuni leggi della fisica, e superandole agilmente, si diramano sotto la superficie terrestre, inoltrandosi nell'oscurità perpetua, da questa città (e da altre, simili a questa) al paese benedetto del popolo dell'Ambasciatore. Una distanza ignota, misurata in migliaia di chilometri, che un viaggiatore deciso può attraversare via Tunnel in meno di un'ora. E infine, finalmente esistere, stare lì, pensò il giovane. Intanto pioggia e persone continuavano a infittirsi sulla piazza.

Le luci. Si accendono le luci. Prima alle finestre, gli occhi del colosso di cemento che, come ogni mattina, torna in sé; poi quelle sotto i cornicioni dell'Ambasciata, sulla complessa costruzione metallica a cui sono appese. In risposta dalla folla si alzano grida e schiamazzi. Il giovane, spintonato, spintona e diventa parte di un'onda, senza volto e volontà in questo mare di corpi. Grida perché gli altri gridano, invoca e impreca, urla il proprio nome, come per presentarsi e ricordarsi di se stesso: chi è, come è, quanto gli importi e perché dovrebbero ascoltare lui, Prescelto da accogliere e abbracciare.

Una dopo l'altra le luci si ravvivarono in un quintetto di suoni e luci. Non ancora dirette sulle persone, screzianvano il torbido mattino cittadino, illuminando le nuvole e gli altri edifici, i manifesti in strada, il lato oppposto della piazza, vuoto. Nei tragitti sfavillanti di quelle luci le gocce di pioggia vanno e vengono intermittenti, un luccichio momentaneo come di sparpagliati addobbi natalizi: un'illusione che piove sulle teste dei presenti. Oh, se solo fosse possibile raggiungere e toccare questo tracciato celeste, tirarlo giù e puntarselo addosso! Tutte le mani sono alzate al cielo, come una sola, ma la luce resta ancora irraggiungibile.

Il grosso sale sul piccolo, il conoscente ignora il conoscente, il mare è mosso – una tempesta di interessi contrastanti e di desideri comuni. Poi la luce cala e la situazione si placa all'istante. Gli Ambasciatori stanno scegliendo, in questo preciso frangente, e nessuno vuole sfigurare ai loro occhi. Le persone sono un collage surreale, un'animazione incompleta, una scultura di massa di movimenti gelati e grida sfumate. Solo le luci scrutano incessantemente. Uno, e poi un altro, scovano il loro obiettivo sicure e si fermano. Un leggero mormorio si diffonde attorno ai Prescelti. Ecco, pensava il giovane, la luce è vicina, quasi sopra di lui, chiara e dipinta come le finestre del Paradiso. Fissa quella profondità, i misteri dell'esistenza e dell'essere e non si accorge che la luce si ferma e lo fissa immobile dall'alto, proprio lui.

Si congraturano e lo maledicono, gli battono pacche sulle spalle, gli arruffano i capelli, una vecchia lo abbraccia, una donna gli chiede di benedire il suo bambino, un vecchio piange e le sue lacrime rotolano nella bocca sdentata. Il giovane sbatte le palpebre e barcolla facendosi largo tra la folla, tra questi amici e fratelli anonimi, questi compagni e compagne di viaggio, passo dopo passo, corpo dopo corpo, verso la porta dell'Ambasciata. Non vede, non sente, non capisce e non sa; non è lui, questo che verrà accolto e fatto entrare dal funzionario all'ingresso; i cui documenti saranno controllati e abbelliti da un visto. Non può esserci lui, tra i quattro affratellati, all'entrata del Tunnel.

È un bambino, a scuola di fronte al maestro arrabbiato che giustifica il righello comunitario di legno rotto. È un ragazzino che scappa dagli zingari che lo bersagliano di castagne. È un adolescente che fissa la maglietta semplice bianca di una coetanea, l'inverno che i loro corpi avevano cominciato a crescere. È alla modesta cerimonia per il diploma, con l'abito preso a nolo, lo sguardo rivolto verso lo sterminato orgoglio negli occhi di sua madre. È un lavoratore spossato, in una catena di giorni, nel suo modesto appartamento, ma non riesce più a ricordare la fatica perché diventa consapevole di questo momento e di questo luogo, di se stesso e di ciò che ha realizzato.

Senza inutili parole, con un flusso tremolante di fifa nello stomaco, prende per mano la persona vicina. Una ragazza sconosciuta, con i capelli raccolti in una coda, il naso arrosasto dal freddo e dall'umidità. Lui è lì per lei, lei per lui. Si tengono stretti per mano, come amanti da sempre, muti, senza memorie, ripensamenti e rimpianti. Andiamo, può aver detto lei, o è soltanto un pensiero che riescono a capire benissimo entrambi. Il primo dei Prescelti, un signore corpulento, sicuro di sé, avanza nel Tunnel. Il secondo, un adolescente alto dai capelli corti, cerca di seguirlo, ma è titubante, si volta a guardare indietro. Il terzo, una donna con i capelli tinti male, fruga incessantemente tra la roba nella sua borsetta. Gli ultimi due, il giovane e la ragazza, con le dita intrecciate, penetrano nel ventre profondo della terra.

Il Tunnel si fa sempre più buio e stretto. Le numerosissime impronte non si contano. Il giovane a un certo punto si disfa del suo impermeabile fradicio lungo il cammino, ma sotto la camicia e la maglietta è lo stesso inzuppato di sudore nelle tenebre asfissianti. Sparuti segnali bluastri luminosi poco convincenti seminati lungo il passaggio non offrono niente di più di una claustrofobica indicazione di direzione. Difficile dire se abbiano superato gli altri Prescelti, o se loro due siano rimasti indietro. Il pavimento, fatto di uno strano materiale, imbavaglia ogni suono, inghiotte ogni passo. È caldo e il caldo aumenta. Incominciano a incespicare.

Quel che le persone ignorano, e gli Ambasciatori non rivelano, è che il viaggio attraverso l'interno del mondo ha il suo prezzo. Che il Tunnel ha i suoi abitanti e sorveglianti, e che sono affamati. Sempre. I segnali luminosi si diradano, si perdono tra un'evaporazione calda. Il palmo della ragazza è bagnato e scivoloso. Diventa difficile dire una parola, e ogni pensiero, che non sia quello di camminare senza fermarsi, una pena. Nonostante ciò il giovane continua ad avanzare. Senza dare peso a quello che vedono o non vedono gli occhi, perché pensa solo al sole molto vicino, ancora solo pochi passi. Presto si deve trascinare dietro la ragazza, aiutandosi con la proria forza di volontà e la propria convinzione. Respirano forte a pieni polmini, con l'aria bollente che brucia gola e polmoni.

L'ululo delle Bestie nelle prorpie tane nel Tunnel scuote il suolo. La ragazza incomincia a fare resistenza, passa dal pianto al riso. Dove ci hanno mandato, perché ci hanno mentito, ripete di tanto in tanto. Tra sé si lamenta che vuole tornare a casa, ma per quella casa e per quel mondo lei non esiste più. Inciampano, cadono entrambi a terra, viscida e fangosa. Il giovane lascia la mano della ragazza, la perde di vista e, rotti gli occhiali, non riesce più a ritrovarla. In ginocchio, prova a riprendere a muoversi, si dimena, cade in quel fango, e di nuovo si rialza. La Belva si è nutrita, dell'eterna offerta di viaggiatori imprudenti verso la felicità. La Bestia inghiotte e digerisce, nell'oscurità primordiale perenne. Ma il giovane sgattaiola via, striscia bocconi, serpeggia verso il suo sole.

Il vento è la prima cosa che sente, vento sul viso, e minuscola sabbia sulla lingua e tra i denti. Ce l'ha fatta. Sente vociare di gente, calpestio di molti passi. Alcune mani lo sollevano da terra, lo bagnano con dell'acqua, lo lavano. Sì, ce l'ha fatta. Inspira dolorosamente l'aria di questo nuovo posto, sconosciuto, come un neonato. Apre gli occhi, e sbatte le palpebre per l'incertezza. Una spada estremamente fredda gli taglia lo stomaco quando vede oscurità, ma dopo un momento si rende conto che è solo notte, una comune notte del mondo e non l'oscurità degli inferi. Scoppia a ridere, forte, tossicchiando e sputando l'acqua con cui avevano tentato di dargli ristoro. Si stende supino, sulla sommità di una collina, sopra il deserto. Lontano all'orizzonte, un rossore spento annuncia l'arrivo dell'alba.

È attorniato da gente scura e nerboruta, in abiti bizzarri svolazzanti, come non ne aveva mai visti. Alcune mani indicano l'apertura oscura della grotta da cui è fuoriuscito; altri gesticolano e urlano nella propria lingua; arrivano altri ancora esitanti, lasciando la massa raccolta nella valle, per vedere questo insolito straniero. Ma il giovane non ride più. Riconosce questa situazione, riconosce queste persone, l'ennesima Ambasciata. Questa è una costruzione a più piani, di mattoni arancioni, battuta dal vento desertico, appoggiata al fianco di una montagna. E sulle poche strette finestre, le luci che annunciano una nuova Selezione si accendono.

Il giovane lascia cadere la testa indietro nella sabbia, fissa dritto il cielo. Davanti all'Ambasciata, il mormorio prima si intensifica poi si indebolisce mano a mano che i nuovi viaggiatori vengono scelti e chiamati in un luogo di non ritorno. Il mattino quasi fatto tinge il cielo di tonalità calde. Le persone si disperdono, deluse. Il giovane respira, sempre più in profondo, con i polmoni riempiti di fuoco. Un uomo grinzoso con i baffi gli lascia una bottiglia d'acqua e va dietro ai suoi sogni. E come nella realtà, il giorno avanza sul deserto, con le lacrime del sole che gocciolano negli occhi del giovane.