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Il festival di Hacibektaş

16.08.2007    scrive Fabio Salomoni

Hacibektaş (foto Andrea Rossini)
Un villaggio dell'Anatolia. Nel tredicesimo secolo vi si fermò Hacibektaş Veli, santo derviscio. Ora ogni agosto vi si tiene un festival, intenso ed eterogeneo. Il nostro corrispondente ha seguito l'edizione dello scorso anno. Un reportage
Un pugno di case circondate da un mare di terra dolcemente ondulato che durante l’inverno si copre di neve ed in estate si fa secco e brullo, intervallato qua e là da oasi di verde a segnalare la presenza di corsi d’acqua. Un paesaggio che, ai primi nomadi turchi arrivati nella regione intorno all’anno mille dovette ricordare le sterminate steppe dell’Asia Centrale che erano stati costretti ad abbandonare.

A prima vista Hacibektaş non sembra differire molto dalle migliaia di villaggi sparsi sull’altipiano anatolico, spopolati dalla mancanze di prospettive e dall’emigrazione verso le grandi città del paese o l’Europa, capaci di rianimarsi solo durante le vacanze estive quando gli emigrati, gurbetçi, tornano per lenire la loro nostalgia e mostrare i simboli del benessere raggiunto.

Ma Hacibektas non è un villaggio come gli altri. Nel 13° secolo d.C. è qui infatti che ha deciso di fermarsi Hacibektaş Veli, un santo derviscio, forse spossato dalla lunga peregrinazione che lo ha portato dal Khorasan, attualmente diviso tra Iran, Afghanistan e Turkmenistan culla del misticismo sufi, fino a questa parte d’Anatolia che lambisce il confine settentrionale della Cappadocia. E’ in questo villaggio che il santo derviscio ha trascorso buona parte della sua vita attorniato da uno stuolo di discepoli – mürit o taleb - ed è qui che è stato sepolto.

Il villaggio si è così trasformato nel principale punto di riferimento per la sterminata comunità alevita. Difficile dire quanti siano gli aleviti perchè statistiche ufficiali non ne esistono. “Da un minimo di 9 milioni ad un massimo di 25 in Turchia ai quali va aggiunto un milione di emigrati”, secondo il sociologo Mustafa Şen dell’università METU di Ankara.

Sono invece circa 500.000 gli aleviti che ogni anno raggiungono Hacibektaş, come ci racconta il direttore del museo che ospita la tomba del santo. Un imponente flusso di pellegrini che raggiunge l’apice nella settimana centrale d’agosto, quando, come ogni anno dal 1964, si svolge il festival di Hacibektas. E’ questa l’occasione per la comunità alevita di ritrovarsi, di celebrarsi e di mettere in scena tutta la sua eterogenea complessità. Un’eterogeneità ben riassunta dalle parole dell’antropologo Aykan Erdemir della METU “Un ospite straniero che è venuto con me a Hacibektaş ha detto che è tutto così strano: c’è il kemalismo, il socialismo, il movimento hippie, il festival assomiglia ad un festival rock degli anni ’70, ad un meeting politico, ad una commemorazione del laicismo kemalista e alla commemorazione di un importante figura religiosa”.

Per molto tempo le tensioni che hanno caratterizzato il rapporto tra gli aleviti, lo stato turco ed il resto della società si sono ripercosse anche sulle giornate del festival.

Il tono distratto con cui una sparuta pattuglia di gendarmi, all’imbocco della strada che dalla statale proveniente da Ankara si inerpica al villaggio, ci chiede dove siamo diretti è invece alquanto rivelatore dell’evoluzione che la società turca sta conoscendo da alcuni anni. Solo pochi anni fa la presenza dei gendarmi durante il festival era molto più massiccia e nervosa.

Nella piazza del paese, battuta dal sole agostano, campeggia una grande immagine del santo in una sua classica iconografia: è raffigurato mentre tiene tra le braccia un leone ed una gazzella a simboleggiare la capacità di far convivere pacificamente gli opposti secondo un motivo ricorrente nella tradizione sufi.

Non è solo il caldo però a tenere lontana la folla dal luogo in cui si sta per tenere la cerimonia di inaugurazione. Da tempo il nuovo sindaco del paese, un militare in pensione, divide la comunità. Molti non apprezzano il piglio autoritario con cui si è impadronito dell’organizzazione del festival. Di più, lo accusano anche di voler “normalizzare” la festa, di volerla svuotare del suo tradizionale carattere protestatario. La potente Federazione delle associazioni Alevi-Bektaşi, l’ala più politicizzata del movimento alevita, l’anno scorso ha boicottato il festival “L’anno scorso abbiamo dato le spalle al sindaco durante il suo discorso, speriamo abbia ricevuto il messaggio”.

Durante la lunghissima cerimonia di inaugurazione si susseguono i discorsi delle autorità. Quello del sindaco che si lascia andare ad alcuni commenti sulla politica internazionale che sembrano mal conciliarsi con l’umanesimo pacifista di Hacibektaş. Quelli di ministri e prefetti ed anche quello di un parlamentare dei Verdi tedeschi, che loda l’umanesimo della filosofia alevita e le relazioni turco-tedesche, magari con un’occhio all’elettorato alevita in Germania.

Sul palco d’onore siedono poi molti rappresentanti del gotha della politica turca. Deputati del CHP (Partito Repubblicano del Popolo), il partito fondato da Atatürk al quale va tradizionalmente il voto di molti aleviti. Zeki Sezer è il segretario del Partito Democratico di Sinistra (DSP), un’altro partito che conta molti elettori tra gli aleviti, al quale chiediamo di spiegarci la stranezza di un appuntamento religioso che attira l’attenzione del mondo politico “Hacibektaş esprime valori importanti per l’Anatolia. In queste terre centinaia di anni fa si è vissuto un movimento illuminista, prima del Rinascimento europeo, che riconosceva la parità tra uomini e donne. E’ naturale che il nostro partito per cui l’illuminismo e la parità tra sessi costituiscono valori fondamentali si trovi qui oggi”.

Applausi per tutti, anche per Erkan Mumcu, segretario del Partito della Madre Patria (ANAP), fondato negli anni ’90, con forti legami con l’Islam sunnita e le sue confraternite, e che attualmente vive un vertiginoso calo di consensi che lo costringe a lanciarsi alla conquista del serbatoio elettorale alevita.

Al termine della cerimonia ci inerpichiamo per le stradine del villaggio che lentamente prendono ad animarsi. Ovunque attorniati da un’autentica panoplia di souvenir dal carattere decisamente sincretico: un ritratto del profeta Ali dai colori fiammeggianti accostato alle fotografie di Atatürk e Che Guevara. Sui banchi dei negozi, tra decine di statuette ben allineate che riproducono un altro simbolo della rivolta, un derviscio che leva al cielo il saz, lo strumento musicale per eccellenza dell’Anatolia, fa capolino una spaurita statuetta del Budda. Ormai le strade sono invase da fiumi di folla ma i commercianti non sono soddisfatti “Di turisti e pellegrini ne vengono molti ma nessuno spende” racconta deluso Ahmet che viene ogni anno al festival per rimpolpare il suo magro stipendio di dipendente pubblico affettando döner kebap per i turisti.

In una strada laterale la prova che lo spirito ribelle degli aleviti continua ad esercitare la sua attrazione. E’ il luogo degli stand di partiti ed associazioni politiche alternative. C’è il partito del lavoro (EMEP) il cui rappresentante invita “all’unità dei lavoratori al di là delle differenze confessionali”. C’è l’associazione dei familiari dei detenuti politici (TAYAD), che ricorda i più di cento giovani, in gran parte aleviti, che negli ultimi anni si sono lasciati morire per protestare contro le condizioni dei detenuti politici. Il tono della voce dell’uomo che spiega come molti altri giovani siano pronti al sacrificio ha però un tono gelido che sgomenta.

Il centro geografico e simbolico del villaggio è rappresentato dal complesso che ospita la tomba – türbe - del santo e il vecchio convento – dergah - della confraternita Bektashi, fondata dopo la morte di Hacibektaş. Nel 1925 Atatürk ordinò la chiusura di tutte le confraternite religiose, dei loro conventi, tekke o dergah, e delle tombe dei dervisci, tradizionalmente meta dei pellegrinaggi popolari. Anche del convento e della tomba di Hacibektaş. Il complesso venne riaperto solamente il 16 agosto 1964 con lo statuto di Museo di Hacibektaş Veli. Di fatto il festival d’agosto celebra proprio la riapertura al pubblico della tomba, una stranezza, come sottolinea il professor Erdemir “in genere queste manfestazioni tendono a festeggiare la data di nascita o di morte dellà personalità religiosa, ad Hacibektaş invece si festeggia la sua riapertura al pubblico ed ai pellegrinaggi”.

Varcata la porta di ingresso del complesso ed attraversato un largo piazzale gremito di folla si raggiunge l’entrata della tomba. Tra i pellegrini in attesa moltissimi gitani, in particolare donne: “Io venivo quando ero bambina con la mia famiglia e continuo a venire e sacrifico sempre un animale”.
Dopo essersi levati le scarpe i pellegrini sciamano odinatamente verso la tomba del santo. Tutti accarezzano o baciano il panno verde che ricopre il catafalco, alcuni in un angolo pregano silenziosamente con le braccia aperte sul petto, qualcuno striscia lentamente. L’atmosfera è uno strano miscuglio di estrema compostezza e di grande tensione emotiva.

Ma il festival non consiste solamente in quello che accade per le strade o negli spazi pubblici. Grande fermento anche tra le pareti delle abitazioni private o nelle cemevi, “ le moschee” degli aleviti.

La famiglia Çelebi Ulusoy vanta una discendenza diretta con Hacibektaş e si considera una sorta di custode della tomba e della dergah. Benché non approvino i modi del sindaco, gli anziani della famiglia non hanno abbandonato le loro abitudini centenarie: “Continuiamo ad ospitare per tutti i mesi dell’anno i pellegrini che vengono qui, alcuni si fermano per giorni, altri ripartono subito. Nella nostra casa, organizziamo delle riunioni, sohbet”, interminabili narrazioni dal carattere epico accompagnate dal saz suonato da un cantore, ozan.

Il signor Kadir è un imprenditore alevita in pensione ma soprattutto lo squisito animatore di un’associazione di Istanbul “Garib Dede” che, contando solo sul volontariato, ha costruito ad Hacibektas un edificio di tre piani, una misafirhane, destinato ad ospitare i pellegrini che arrivano fin qui. Al piano terra si sta svolgendo la cerimonia della cem: per ore uomini e donne ascoltano le parole del dede, pregano con lui, cantano accompagnati dal suo saz ed assistono alla danza semah, dove uomini e donne ballano in cerchio con un movimento che ricorda l’altra grande tradizione sufi anatolica, quella dei dervisci danzanti di Mevlana.

Anche le alture che circondano il villaggio sono un’attrattiva per ogni pellegrino: la tomba d Mahsuni Sherif, un ozan che ha cantato le torture, i soprusi ed il suo lungo esilio in Germania diventando una voce simbolo per gli aleviti. Per il suo funerale nel 2005 sono arrivati fin qui a decine di migliaia da ogni dove.

Poco più oltre la Çilehane, una piccola fessura nella roccia all’interno della quale Hacibektaş avrebbe trascorso un periodo consacrato al digiuno per uscirne poi purificato. Pazientemente i pellegrini attendono il loro turno per poter sottoporsi alla prova: entrare dall’ingresso principale della caverna per cercare di uscirne da una piccola apertura laterale. La ricompensa per chi riesce nell’impresa è il perdono di tutti i peccati.

Alle spalle della caverna, sullo sfondo di un tramono che infiamma lo sterminato altipiano anatolico, si staglia un albero i cui rami sono completamenti ricoperti da piccole striscie di stoffa colorata, che trepidanti pellegrini hanno legato nella speranza di vedere esaudito il loro voto.

Mentre scendiamo a valle ci imbattiamo nel gigantesco Zeki, uno dei tantissimi gurbetçi che ogni estate dalla Germania torna a casa. E’ infuriato “ Loro, i sunniti ci vogliono assimilare. Nel villaggio in cui sono nato hanno costruito addirittura una moschea”. Un gruppo di persone lì vicino ascolta perplesso “ Non è giusto, non parlare così, noi siamo sunniti ma siamo venuti qui!”. Si accende un piccolo parapiglia poi il gruppo si allontana. Zeki rincara la dose “Se io dico di essere alevita non mi considerano, in un paese musulmano non posso esprimermi liberamente”.

Più o meno dello stesso avviso è Kadir Bey “ Lo stato appoggia i sunniti, non riconoscono le nostre cemevi come luogo di culto, a scuola i corsi di religione non parlano degli aleviti”.

L’ultima domanda è per lui, sulla terrazza della sua misafirhane: “Cosa rappresenta per lei Hacibektaş? L’essere umano, il bene, la bellezza. Al tempo in cui è vissuto mostrava rispetto per le donne e le riconosceva come pari agli uomini. Non credo sia necessario leggere libri, bastano le sue parole: se non vuoi soffrire non far soffrire!”
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