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''I martiri non muoiono''

15.10.2007    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Violenze nel sud-est della Turchia, tra PKK ed esercito. Numerosi i morti. E poi l'ipotesi di un intervento armato turco nel Nord dell'Iraq, e il riconoscimento, da parte di una commissione del Congresso americano, del genocidio armeno
“I martiri non muoiono”. Uno slogan che nei giorni scorsi ha risuonato più volte ai quattro angoli della Turchia. Lo hanno gridato le folle inferocite che hanno partecipato ai funerali dei militari uccisi dagli attacchi del PKK e lo hanno sommessamente ripetuto anche le ventimila persone che a Diyarbakir sabato hanno accompagnato la salma dello scrittore curdo Mehmed Uzun, morto dopo una lungua malattia.

Nelle ultime settimane l’acuirsi della violenza nel sud-est del paese ha prodotto un bilancio pesantissimo.

13 militari uccisi in un’imboscata, altri due da una mina ed un poliziotto da una bomba esplosa a Diyarbakir. E dieci giorni fa 12 persone, tra cui sette guardiani di villaggio, sono state trucidate nel minibus che li riportava nel loro villaggio. Un attentato che la prefettura di Şirnak ha attribuito al PKK ma sul quale gravano ancora molti dubbi, come hanno confermato i membri della commissione parlamentare di inchiesta che hanno parlato con gli abitanti del villaggio di Beşağaç.

“Rischiamo di ripiombare nel clima degli anni ‘90”, così ha scritto il politologo Ahmet Insel commentando l’ultimo atto di una guerra strisciante che dall’inizio dell’anno ha già fatto registrare quasi duecento vittime. Gli sviluppi violenti degli ultimi giorni riportano nel paese un atmosfera di mobilitazione bellicosa le cui conseguenze appaiono fin da ora estremamente gravi.

In primo luogo per i parlamentari curdi del DPT. L’ingresso in parlamento di una rappresentanza del DTP aveva rappresentato uno delle novità scaturite dalle elezioni dello scorso luglio.

Da allora però i deputati del partito si trovano costantemente sotto pressione perché riconoscano il PKK come organizzazione terroristica. Diverse dirigenti locali del partito sono stati poi arrestati con le più disparate accuse. Il capo di stato maggiore Büyükanıt, facendo riferimento ai deputati del DTP, ha chiesto che si prendano provvedimenti giudiziari nei loro confronti. Ed anche il primo ministro Erdoğan si è aggiunto al coro di coloro che chiedono al partito di riconoscere il PKK come “organizzazione terroristica”.

Ma per il DTP i problemi non finiscono qui. Abdullah Öcalan, attraverso i suoi avvocati all’indomani delle elezioni aveva duramente criticato la politica del partito. Nonostante il successo elettorale infatti, nelle regioni a maggioranza curda le elezioni di luglio hanno visto un deciso rafforzamento del partito di Erdoğan che ha di fatto incrinato il monopolio della rappresentanza politica, tradizionalmente nelle mani dei partiti filo-curdi. Öcalan ha invitato il DTP ad “essere più vicino al popolo” e minacciato di far mancare il suo appoggio al partito. Dal canto suo il PKK con gli attacchi degli ultimi giorni mostra di non preoccuparsi delle sorti del DTP e della sua legittimazione politica. Sembra piuttosto essere intenzionato a mettere in difficoltà il partito di Erdoğan spingendolo a trascinare il paese nell’avventura militare in Iraq. Non il processo di democratizzazione della Turchia ma piuttosto “sul lungo periodo ottenere una autonomia democratica sul modello del nord iracheno anche per le regioni curde della Turchia e dell’Iran” appare l’obbiettivo del PKK, a giudicare dalle dichiarazioni del suo leader sul campo, Murat Karayılan.

Il volto attonito di Ayse Tuğluk, co-presidente del DTP, fotografata in parlamento all’indomani dell’uccisione dei 13 militari, riassume tutto lo smarrimento di un partito che si trova in mezzo al guado, preso tra due fuochi. In modo del tutto insolito il gruppo parlamentare del DTP nel condannare l’uccisione dei 13 militari ha utilizzato il termine “martiri”, mai utilizzato in precedenza per rifersi ai soldati dell’esercito morti negli scontri con il PKK. Forse un segno che nel partito è in atto il tentativo di svincolarsi dall’ombra dell’organizzazione.

Con la violenza degli ultimi giorni è tornata poi alla ribalta la questione dell’intervento militare nel Nord Iraq sulle tracce delle basi del PKK. Un argomento che dopo le elezioni del 22 luglio era completamente scomparso dall’agenda del paese. L’opinione pubblica solleticata da molti organi di informazione, esponenti politici ed ambienti militari sono tornati a far rullare i tamburi di guerra ed a chiedere una soluzione radicale della questione PKK. Dal canto suo il premier Erdoğan ha mantenuto una posizione oscillante tra la prudenza “dobbiamo considerare tutte le conseguenze politiche, economiche, diplomatiche e militari” e la tentazione di cedere alle sirene belliciste “qualunque sia il prezzo da pagare, lo pagheremo ... abbiamo perso la pazienza” per poi lanciare un messaggio agli Stati Uniti: “Loro non hanno chiesto il permesso a nessuno per colpire l’Iraq”.

Gli USA sono da tempo considerati da larghe fette dell’opinione pubblica - che gli ultimi sondaggi indicano come la più antiamericana del pianeta - come responsabili della ripresa delle inziative del PKK. Ankara chiede da tempo agli americani di intervenire contro le basi dell’organizzazione situate in territorio nord-iracheno. Nonostante le molte assicurazioni, le ultime pochi giorni fa da parte dell’ambasciatore ad Ankara Wilson, nulla è cambiato. Il Nord Iraq è l’unica parte del paese ad essere relativamente pacificata ed i curdi ottimi alleati degli americani, due buone ragioni per giustificare l’atteggiamento di Washington. Ed ad aumentare ulteriormente il risentimento dei turchi, giovedi è arrivata, ampiamente annunciata, la notizia che la Commissione esteri del Congresso americano ha riconosciuto, nonostante l’opposizione del presidente Bush, i massacri delle popolazioni armene del 1915 come genocidio. Immediata la reazione di Ankara che ha convocato per consultazioni l’ambasciatore a Washington ed ha intensificato le pressioni sull’amministrazione americana. Il capo di stato maggiore Büyükanıt ha dichiarato che “gli americani con questa decisione si sono sparati un colpo nella loro stessa gamba”.

E mentre cresce la tensione con gli Stati Uniti e nel paese la sindrome d’accerchiamento, la Turchia sembra poter trovare un alleato inaspettato nel governo di Tehran.

Per molti anni l’Iran ha chiuso gli occhi sulle attività del PKK che utilizzava il suo territorio come base di appoggio e come rifugio dopo le incursioni in territorio turco. Stretto dalle minacce americane e dalla posibilità che gli USA utilizzino le organizzazioni curde per seminare il disordine nel paese, ora Tehran è alla ricerca di nuovi alleati. E una Turchia in difficoltà con gli americani rappresenta un ottimo candidato.

La scorsa estate rappresentanti di Ankara e Tehran si sono incontrati. Obbiettivo, quello di stringere un accordo: Ankara si impegna a rinunciare a qualunque forma di influenza sulla numerosa minoranza turco-azera in Iran e soprattutto a garantire che non permetterà agli Stati Uniti di colpire l’Iran utilizzando il territorio turco. In cambio Tehran promette pugno di ferro nei confronti di PKK e PJAK (Partito della vita libera. L’omologo del PKK in territorio iraniano.Nd.A).

Il giornalista turco Irfan Aktan riferisce che da allora gli ospedali iraniani non accettano più i feriti del PKK provenienti dalla Turchia e la polizia iraniana starebbe consegnando ai colleghi turchi i militanti dell’organizzazione. Le cronache degli ultimi mesi parlano anche di bombardamenti dell’artiglieria iraniana sulle basi del PKK in territorio nord-iracheno e la chiusura dei posti di frontiera tra i due paesi. In territorio iraniano si moltiplicano invece le notizie di attacchi dell’esercito contro i militanti del PJAK.

Adesso tutti gli occhi sono puntati sul parlamento turco dove martedi il governo Erdoğan presenterà la sua proposta per un’operazione militare oltre confine. A chi gli ricordava come nelle scorse settimane i ministri degli esteri turco ed iracheno avessero firmato un accordo che escludeva la possibilità di “un inseguimento a caldo” dell’esercito turco in territorio iracheno, il primo ministro ha ricordato che l’accordo non è ancora stato votato dal parlamento iracheno.

Sull’altro versante del confine intanto sale la preoccupazione. Falah Bakir, responsabile delle relazioni estere del governo regionale curdo in Iraq ha detto “noi ci aspettiamo che si rispetti la sovranità e l’integrità territoriale dell’Iraq” ma intanto il suo governo ha trasferito soldati alla frontiera per fronteggiare i carri armati di Ankara.

In un clima così fosco restano le parole di Yaşar Kemal. L’anziano scrittore in occasione dei funerali di Mehmed Uzun si è fatto portavoce di tutti coloro che in queste ore rifiutano la logica dello scontro e delle armi “ La Turchia troverà la pace, io ci credo....non c’è nessuna ragione per continuare questa guerra. Loro credono che la guerra sia un gioco”
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