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Il Kosovo tra passato e presente

16.11.2007    scrivono Francesca Vanoni e Marjola Rukaj

Shkelzen Maliqi
La partecipazione politica, lo status, la società kosovara, la transizione degli anni '90, i rapporti con l'Albania. Un'intervista a tutto campo all'intellettuale Shkelzen Maliqi, che ha scelto di candidarsi per il partito Ora
Lasciando da parte per il momento la questione dello status finale, quali sono le questioni attorno alle quali la società kosovara si mobilita e si organizza oggi? Nei primi anni dopo il conflitto, ad esempio, era rilevante la questione delle persone scomparse...

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Ritengo che le vere grandi mobilitazioni siano avvenute solo sino agli anni '90. Dopo, su alcune singole questioni la gente si è mobilitata, ma meno rispetto a prima. La società kosovara sta attraversando varie transizioni: dalle campagne ci si trasferisce in città, vi è stata una forte trasformazione del sistema economico, si è nel pieno di una transizione politica. Transizioni che si trascinano da tutti gli anni '90. Prima dell'intervento della NATO sono state vissute in modo particolarmente drammatico mentre dopo abbiamo vissuto un periodo relativamente tranquillo. Ci sono state le violenze del 2004, contro la comunità serba, a seguito dell'annegamento di tre bambini.Ma quella è stata un'eccezione, per il resto la situazione è sotto controllo.

Tutta la sfera politica albano-kosovara si esprime unanimemente per l’indipendenza. Ma che cos’è che differenzia i partiti politici tra di loro? Perché l’elettore dovrebbe votare uno e non un altro partito?

Le differenze sono storiche e non si riferiscono esclusivamente al passato recente. Si sono formate durante gli anni ’90, quando si discuteva sulla strategia per giungere all’indipendenza. Da una parte vi era Rugova che sosteneva il metodo pacifico, negoziando, ascoltando gli internazionali, facendo resistenza nonviolenta, e poi ci sono stati altri che hanno optato per il conflitto. Da questo sono scaturite le principali divisioni.

Dopo il ’99 il Kosovo non ha avuto modo di sviluppare partiti tradizionali che si riconoscessero ad esempio nella suddivisione europea tra Socialdemocratici e Democristiani. Vi sono stati dei tentativi, tutti falliti. Non sono riusciti a trovare un elettorato. L’elettorato si orienta solo in base a quella che è la problematica più rilevante del momento e quindi lo status e la vocazione indipendentista.

La resistenza passiva ha provocato una sorta di delusione nella società, era evidente che la strategia della nonviolenza non avesse funzionato. Ciononostante dopo l’interevento della NATO è sempre l’LDK di Rugova ad aver vinto tutte le tornate elettorali. Come spiega questo fenomeno?

E’ vero, il partito di Rugova era il più forte, e tale è rimasto anche dopo il '99. I sostenitori del conflitto armato sono rimasti minoranza sia prima del ’99 sia dopo. Tra l'altro, loro si sono divisi in più formazioni politiche. L’LDK rimane comunque il partito più votato anche se con il passare degli anni il suo consenso si sta riducendo. Tra l'altro, i suoi rappresentanti hanno sempre avuto il sostegno degli americani e degli internazionali: all’estero hanno promosso l’immagine degli albanesi pazienti, e Rugova ha grandi meriti in questo, poiché grazie a lui il Kosovo ha acquisito molta credibilità in ambito internazionale. Ma i meriti non sono solo suoi. In questa classe politica, i diplomatici internazionali hanno trovato un partner con cui dialogare. Quando c’erano i conflitti in Croazia e in Bosnia, ai kosovari è stato detto di aspettare il proprio turno, di aspettare il momento adatto per poi aprire anche la questione del Kosovo. La violenza è scoppiata solo quando ci si è accorti che con la Serbia non si poteva negoziare.

Ritiene quindi che la crisi del Kosovo sia stata stimolata dall'esterno?

Sì, stimoli percepiti sia dall'LDK che dai suoi avversari, si è verificato una sorta di coordinamento tra le varie anime politiche kosovare. Anche nel momento in cui si è verificata la rivolta armata sono arrivati impulsi dall'esterno. In un suo libro, Tim Judah, scrive che dei membri dell’UCK negli anni ’90 gli riferivano di aver avuto contatti con la CIA, e nel ’99 è stato dato loro il via libera.

Lei adesso è un candidato di “Ora”, il partito di Veton Surroi. Perché c’è stato il bisogno di un nuovo partito e qual è la novità offerta da “Ora” al panorama politico del Kosovo?

I fondatori di Ora anche all'inizio degli anni ’90 avevano fondato piccoli partiti, dimostrando che c’era spazio per il pluralismo. Io ho fondato il Partito Socialdemocratico, ho aiutato il partito dei Verdi, mentre Veton Surroi aveva fondato il Partito Parlamentare. Negli anni ’93 e ’94 abbiamo però abbandonato la politica e abbiamo lavorato per i media. Io ho lavorato anche per fondazioni private, come la Fondazione Soros. Ma l’arena politica, a parte questa parentesi, è stata sempre dominata dai grandi partiti, tutti gli altri hanno difficoltà ad affermarsi.

La fondazione del partito Ora è stata una reazione, una risposta al bisogno dell’elettorato di avere partiti con una piattaforma politica chiara e definita. La classe urbana in Kosovo si è sentita emarginata in questi anni. Con la fondazione di Ora invece si è vista rappresentata in politica anche questa parte della società. L'LDK è votato prevalentemente da contadini o gente che ha combattuto, la classe urbana non vi fa parte.

Come spiega la difficoltà che i nuovi partiti affrontano nell'affermarsi sulla scena politica?

La principale ragione è che non c’è stato spazio per i partiti che si presentano con una piattaforma politica ben definita e centrata su alcuni temi piuttosto che altri. Come i verdi ad esempio. Non c’è elettorato. E in più, essendo un protettorato degli internazionali, le elezioni sono sempre state una questione formale. I problemi economici non sono mai stati una priorità, l’unica opzione in campo era su come diventare indipendenti.

Inoltre, il sistema elettorale è stato finora a liste chiuse quindi anche le persone elette sono state determinate dai partiti, gli elettori hanno votato solo il partito, quindi anche in parlamento non vi è stato modo di esprimere un’individualità, non c’era spazio per questo.

Lei ha fatto riferimento all'esistenza di una classe urbana a cui il partito Ora si rivolge. Come si sta trasformando la società da questo punto di vista e quanto viene condizionata dalla forte mobilità campagna-città?

I cambiamenti sono di enorme portata, e questa è una conseguenza delle transizioni degli anni ’90. Con il crollo del comunismo in Kosovo (e in Jugoslavia), il regime di Milosevic ha attaccato due strutture che costituivano l’integrazione del Kosovo in quel regime. Innanzitutto ha colpito l’élite comunista del Kosovo, spazzandola via dal potere. E questo è avvenuto solo qui, nelle repubbliche succedute al crollo della federazione l’élite comunista ha continuato infatti a controllare il sistema conducendolo verso la transizione.

La più colpita è stata la classe urbana. Molti hanno perso il posto di lavoro tra il ’90 e il ’94 e si sono visti costretti ad emigrare. Poi negli anni '90 si è verificato un nuovo fenomeno: erano in corso le guerre in Croazia e Bosnia e i giovani per non finire arruolati nell'esercito jugoslavo lasciarono in massa il paese. Il Kosovo è rimasto senza élite. Il sistema parallelo degli anni ’90 ha formato una nuova élite ma quest'ultima non aveva alcuna esperienza alle spalle, l’unico suo merito era il patriottismo, non aveva assolutamente la preparazione per svolgere tutte le funzioni che svolgeva la precedente classe dirigente. E nemmeno recentemente hanno avuto la possibilità di farsi un’esperienza, dato che non hanno un potere reale, c’è sempre l’UNMIK che ostacola ogni processo di acquisizione di competenze.

La nuova élite è incompetente nel senso che manca di esperienza e capacità o non ha le competenze perché non ha potere?

Sono veri entrambi gli aspetti. Ci sono persone che non sono preparate, non hanno avuto neanche le possibilità di formarsi adeguatamente, ma in aggiunta a ciò non hanno abbastanza potere per svolgere i propri compiti. Tra l’altro, adesso vi è una corruzione dilagante in Kosovo, che ha fatto avanzare gente che non lo meritava, quelli che invece erano preparati si sono impegnati nella società civile o nelle organizzazioni internazionali. E questo è logico perché gli stipendi in quell'ambito sono come minimo dieci volte più alti che nelle istituzioni pubbliche.

La società civile non sembra riuscire ad influire molto sulle dinamiche politiche. Perché?

La società civile negli anni ’90 ha dovuto incominciare tutto da zero, quindi è servito molto tempo perché imparasse come muoversi. La società civile spesso è condizionata dalle questioni politiche, perché si è usciti da una situazione in cui o si era in guerra o in un conflitto latente. Il potere di controllo e di indirizzo della società civile si è trasformato in militantismo. Il ruolo della società civile è spesso stato quello di invocare la guerra.

La questione dello status e conseguentemente dell'indipendenza sembra mettere in ombra un più ampio ragionamento sulla sovranità. I due concetti non sono equivalenti: ad esempio, la Bosnia Erzegovina è uno stato indipendente ma non sovrano…

Perché non lo è? La Bosnia è uno stato sovrano. E’ un membro dell’ONU, perché non è sovrano? Lo è come è stato previsto a Dayton. Certo, vi è un controllo internazionale e non è completamente indipendente ma è sovrano perché internazionalmente riconosciuto. Noi siamo indipendenti dalla Serbia ma non siamo sovrani.

Che ruolo ha la classe politica nella costruzione della democrazia in Kosovo?

In Kosovo non abbiamo condizioni realmente definibili democratiche, ma quale stato balcanico alla fine è democratico? Noi non abbiamo mai avuto la democrazia. Per costruirla occorrono degli anni, occorre attraversare tutte le fasi.

E la prospettiva europea?

Il Kosovo era una sfida per la Jugoslavia e la stessa cosa si sta ripetendo ora con l’Europa. Il nostro modo di rapportarci con l’Europa è capovolto, non è il Kosovo che sta cercando di entrare in Europa, è l’Europa che sta entrando in Kosovo. Abbiamo l’euro come moneta. Non dobbiamo fare domanda di adesione alla NATO perché la NATO è già qui. Il Kosovo è un po’ come un figlio illegittimo dell’Europa, forse non lo vogliono, ma quando il bambino è nato bisogna farlo crescere.

Come si presentano i rapporti con l’Albania in questa fase politica?

L’Albania dalla maggior parte dell'opinione pubblica in Kosovo è stata percepita come la “madrepatria”, pensando che il Kosovo fosse destinato ad unirsi ad essa. Questo è stato sempre riportato in tutti i libri di storia, anche durante la Jugoslavia di Tito. Forse non sempre lo si diceva ma l’intento era sempre quello. C’era anche molto rispetto per Enver Hoxha.

La questione nazionale e il comunismo venivano percepiti come convergenti. Dopo la caduta del comunismo in Albania, vi è stata la scissione tra i due concetti. L'LDK è riuscita a mobilitare l'opinione pubblica in questo modo. C’è ancora tanta gente in Kosovo che pensa che ci si debba riunire all’Albania, nonostante si sappia bene che l’Albania è molto indifferente a questa opzione e ha i suoi problemi.

Come negli anni ’90 anche adesso in Albania ci sono molti pregiudizi nei confronti degli albanesi del Kosovo. Ma dopo la normalizzazione della situazione in Kosovo, la questione si può riproporre, non per unirsi all’Albania nel vero senso della parola, ma per formare in futuro una sorta di federazione. Ma ora non è una priorità. Bisogna guardare la realtà negli occhi, tutta la regione è contro questa opzione e gli internazionali non la vedono di buon occhio.

Io non sono tra coloro che dicono che il Kosovo sia una nazione distinta dall’Albania. E’ ovvio che ci sono differenze storiche, politiche, linguistiche ma penso che permangano degli elementi che fanno di noi e dell’Albania un’unica nazione. Qui si parla albanese non kosovese. Sono mancati i contatti, ma adesso tutti in Kosovo guardano le televisioni albanesi, non quelle del Kosovo. L’Albania è un punto di riferimento non solo culturale.



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