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Data pubblicazione: 24.06.2008 09:29

Duecento persone, nella capitale turca, hanno fatto il loro pezzettino di storia: il primo corteo per il diritto alla libera scelta del proprio orientamento sessuale e contro le discriminazioni che spingono gay, lesbiche e trans nella clandestinità. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Michela Chimenti, pubblicato sul settimanale Carta, 13 giugno 2008

«Un giorno mia sorella piombò in camera mia e chiuse la porta a chiave dietro di sé. Ero spaventato. Lei mi guardò dritto negli occhi e intimò: ´Dimmi che non fai parte della mafia´. Non potei far altro che sorridere e confessare: ´No, sono omosessuale´». Onur ha 25 anni e dall’età di 14 sa di essere gay. La depressione lo ha portato ad isolarsi dal mondo e dalla sua stessa famiglia, provandolo anche nel fisico. Dopo otto anni passati fra casa e scuola, e dopo aver confessato alla sorella il motivo della sua asocialità, ha deciso di cominciare un percorso di psicoterapia. Oggi Onur parla tranquillamente di ciò che era e di ciò che è diventato.

Storia di Mehmet, anarchico e gay

Sarà per i 51 giorni di sciopero della fame fatti nel 2005 o sarà perché essere perseguitati dal governo non concilia il sonno, ma Mehmet Tarhan, dissidente politico curdo, dimostra ben più dei suoi trent’anni.

Omosessuale, anarchico e obiettore di coscienza, Mehmet è stato arrestato nel 2005 per insubordinazione, e condannato a quattro anni di carcere, la pena più alta mai comminata in Turchia per questo “reato”. «In realtà la chiamata è arrivata nel 2001 – dice Mehmet - Sapevo che prima o poi sarebbero venuti a cercarmi». Mehmet è sempre stato un attivista per i diritti umani, ma stavolta, è stato lui stesso a diventare un caso internazionale. La Turchia non prevede un’alternativa al servizio militare e il caso di Mehmet è anche più complicato.

In Turchia tutti gli uomini sono obbligati a prestare servizio nell’esercito fino a quindici mesi. L’omosessualità è considerata una malattia, e pertanto si può essere esonerati, previa dimostrazione di quanto si è dichiarato. Oltre a visite mediche e psichiatriche, sono specificatamente richieste testimonianze di familiari, ma anche fotografie e video in cui sia evidente l’atto sessuale. «Avrei fatto la stessa cosa se fossi stato etero. Non sono malato. Sono anarchico e antimilitarista, e a prescindere dal mio orientamento sessuale non avrei mai potuto sopportare il perpetrarsi di una simile violenza».

Mehmet è stato rilasciato nel 2006 grazie alle pressioni internazionali, dopo aver subito mesi in isolamento, aggressioni e torture. Spiega come siano stati quei cinque anni di attesa: «Mia madre e mia sorella sapevano già che ero gay, ma in quegli anni di limbo, in attesa dell’arrivo dell’esercito, si sono preparate ad ogni eventualità. Hanno fatto una campagna a favore dell’obiezione di coscienza, mi hanno supportato in tutto e per tutto, così che quando sono stato arrestato, in molti conoscevano già il mio caso e si sono uniti alla battaglia, specialmente nei mesi in cui sono stato lontano». Mesi non certo facili per le due donne, non sempre ben accette nella loro stessa comunità.

Mehmet racconta quanto fosse faticoso per lui vederle arrivare, dopo 14 ore di pullman, ed essere umiliate dalle guardie. Non sembra nemmeno un caso che la piccola agenzia pubblicitaria della sorella sia fallita proprio in quel periodo, e che molti suoi amici attivisti abbiano perso il lavoro. E, sebbene il governo lo abbia rilasciato, non ha annullato la pena che gli resta da scontare: «Tra un paio di mesi ci dovrebbe essere il processo per capire cosa fare con i 24 mesi rimasti. Nel frattempo sono, di fatto, un ricercato. Non mi hanno ancora restituito la carta d’identità. Mi sembra evidente come non sia troppo difficile scovarmi».

Purtroppo in pochi finora hanno deciso di seguire le sue orme. Mehmet, in attesa di aprire un bar, lavora per Lambdaistanbul, associazione anarchica ed antimilitarista che ha iniziato ad occuparsi di lotta alla discriminazione sessuale proprio grazie a lui. Purtroppo il 29 maggio è arrivata la condanna alla chiusura per Lambda, a causa di presunte violazioni della legge sulla moralità pubblica, sebbene non siano state portate prove a sostenere l’accusa.

Sabato 7 giugno i membri di Lambda hanno organizzato una manifestazione per far capire al governo che non hanno intenzione di arrendersi, e stanno facendo pressioni affinché la sentenza d’appello smentisca la precedente. Mehmet, con la sua irreale pacatezza, sorride e dice «supereremo anche questo».

Ride dell’ultima domanda: «Sono molto più utile qui che altrove. Continuo a dar fastidio a chi mi non mi vorrebbe più in mezzo ai piedi e, soprattutto, continuo ad aiutare chi è nelle mie stesse condizioni. Certo che mi viene voglia di scappare, ma solo quando sono imbottigliato nel traffico o quando leggo gli articoli di qualche giornalista nazionalista. Dopo tre minuti mi passa. Nonostante tutto, io amo il mio Paese».

Michela Chimenti
La consapevolezza di essere gay in Turchia non lo spaventa più come una volta: «Sono stato a studiare un anno in Spagna e ho capito che ero più normale di quanto non mi facessero credere nel mio paese». Onur, con la sua fragilità, è riuscito a tenersi dentro per anni quella che lo stato turco considera una “malattia”. La sua voce e il suo corpo sottili non reggono il confronto con la durezza della sua storia: «Stavo in casa, sul divano, ad aspettare che quello che provavo passasse. Ma non se ne andava».

Erkan, invece, ha 23 anni, si è appena laureato ed è sempre stato determinato: «I miei genitori non sapranno mai che sono gay». Ultimo di quattro figli, Erkan sente il peso delle aspettative della sua famiglia, ma è anche profondamente ansioso di raccontarsi, come un bambino che non riesce a nascondere un grande segreto. Davanti all’ipotesi di un incontro fra un futuro fidanzato e la sua famiglia scoppia a ridere: «Il massimo che possono fare è costringermi a fidanzarmi con una ragazza, ma non lo sopporterei. Tenterò di evitare il matrimonio finché potrò, poi si vedrà. Non posso stare in questo paese ancora a lungo».

La Terza Conferenza Internazionale contro l’Omofobia, che si è tenuta a fine maggio nelle Università e in un centro culturale di Ankara, è stata organizzata da Kaos Gl, una delle due maggiori organizzazioni turche di gay, lesbiche, bisessuali, transessuali e travestiti [Glbtt]. I campus universitari avrebbero dovuto essere il luogo migliore per attirare la partecipazione sia dei giovani che della gente comune. Non è stato così. I campus sono a decine di chilometri dalla città, su colline circondate dal nulla, è necessario lasciare i documenti alla polizia armata all’ingresso e per raggiungere le prime aule bisogna prendere un bus per altri dieci minuti. Non certo il luogo migliore in cui imbucarsi di soppiatto. Essere universitari significa vivere in un mondo parallelo. Nonostante ciò, ogni giorno alla Conferenza hanno attivamente partecipato una cinquantina di persone.

Paradossalmente, in questa settimana di incontri i dibattiti più infuocati sono stati quelli sul tema della “visibilità”. I gay vorrebbero avere la stessa fortuna delle lesbiche, libere di camminare per strada mano nella mano senza creare scompiglio. Le lesbiche, invece, vorrebbero creare scompiglio e mostrare a tutti che quella a cui tengono la mano non è la compagna di studi.

Le transessuali vorrebbero sparire: devono affrontare ogni giorno la discriminazione più bassa e violenta e spesso non sono accolte nemmeno dalle associazioni femministe. Busè racconta, con voce stanca e rabbiosa, cosa significhi per lei andare a fare shopping o la spesa, costantemente additata dalle altre donne; andare al ristorante, e vedere quelli attorno a sé lasciare il posto e andarsene, o peggio, essere invitata a cambiare locale; cosa voglia dire provare a fare amicizia su internet e poi essere cacciata dal webmaster se invia una sua foto; dover fare una denuncia alla polizia, quando spesso le maggiori violenze derivano proprio dalle forze dell’ordine.

Le transessuali sono state costrette ad adeguarsi a certi taciti usi, fra i quali non passare davanti a determinate caserme perché si rischia l’arresto per “provocazione”. «Vorrei poter cambiare sesso di nuovo, tornare indietro -dice Busè - Lo dico agli indecisi: fatelo solo se sapete di avere la forza di reggere tutto quello che vi cadrà addosso, se avrete la forza di reggere lo sguardo schifato che ogni persona vi rivolgerà ogni giorno della vostra vita».

L’altro grave dramma che vivono le trans è l’impossibilità pratica di trovare un lavoro alternativo alla prostituzione. Sebbene gay e lesbiche possano essere licenziati in quanto tali, e sebbene ci sia una legislazione che tenti di regolamentare i lavori sessuali, le trans sono relegate a questo, senza possibilità di alternativa. In Turchia come in tanti altri Paesi.

I racconti e le storie dei partecipanti alla Conferenza si sono mescolati, differenti, se non per un punto in comune: il primo pensiero, alla scoperta di questa - da loro stessi definita - “diversità”, è stato la solitudine. Mancando modelli da imitare o qualcuno con cui confidarsi, la sola cosa che resta da fare è chiudersi in se stessi. E aspettare. Una solitudine paralizzante da cui tutti sono passati, e da cui non tutti sono usciti. Istanbul è sicuramente una città più vivace ed aperta, grazie anche al turismo, ma ad Ankara c’è un solo locale gay e uscire allo scoperto non è un gioco.

I primi rapporti nascono nella paura, ma il vero terrore è che siano inganni per “stanarli”. Internet è si un tesoro per lo scambio di informazioni e le denunce, ma ha anche dato via libera a siti in cui si cerca la storia di una notte. Nulla di male, ovvio. Ma il rischio è molto alto. Il caso di Baki Kosar è diventato un triste monito.

Kosar, giornalista 41enne turco, è stato ucciso nel febbraio 2006 con 32 coltellate. Il suo assassino, Serhat Raglan, che scappò subito dopo l’omicidio, ha confessato e raccontato i fatti. I due si erano incontrati per fare sesso, ma di fronte alle richieste di Kosar, Raglan ha risposto con il coltello. Se per l’omicidio il codice penale turco prevede l’ergastolo, esistono delle attenuanti, tra cui la “provocazione”. Serhat Raglan è stato condannato a 18 anni, scesi poi a 15 per buona condotta, perché avrebbe solo tentato di difendersi. Gli omicidi come quelli di Kosar sono stati almeno 15 nel 2007. Il dramma è che di tutti gli altri non si saprà mai nulla. Tutte le storie e i dati che sono stati raccolti durante la Conferenza vengono dalla città, da Ankara o da Istanbul, da persone che hanno studiato e che hanno trovato il coraggio di esporsi. Nel resto del Paese vige la clausura.

Il 17 maggio, Giornata Internazionale contro l’Omofobia, nell’ambito della Conferenza si è tenuta la prima manifestazione Glbtt nella storia di Ankara. La polizia non aveva mai dato il permesso, dato che non è concesso a nessuno manifestare sulla strada che porta al Parlamento. I timori non sono mancati, ma alla fine, nonostante l’ingente schieramento di forze dell’ordine, non ci sono stati momenti di tensione.

La manifestazione non è stata però una passeggiata silenziosa, come la polizia aveva auspicato. Slogan, bandiere arcobaleno, applausi e anche un tamburo hanno dato forza al corteo composto da circa duecento persone [meglio di ogni previsione] che ha svegliato le strade di Kizilay, al centro di Ankara, e attirato curiosi in strada e alle finestre. Dietro lo striscione di apertura c’erano alcuni membri di Kaos Gl e Lambdaistanbul [l’altra importante associazione di Glbtt], la scrittrice olandese bisessuale Anja Muelenbelt, il giornalista turco Kursad Kahramanoglu e Michael Cashman, difensore dei diritti Glbtt al Parlamento Europeo. In molti si sono chiesti se non sia stata proprio la loro presenza ad evitare incidenti.

La marcia ha attirato non solo la polizia, ma anche tutti i maggiori media turchi i quali, però, non hanno dato all’evento il risalto che meritava. Fare “coming out”, dichiararsi, non è facile, e nonostante le telecamere il corteo non si è mai fermato. A parte le prime file, qualcuno ha camminato a testa bassa e nascosto dietro un cappello o una sciarpa. «Far scoprire a tua madre che sei gay al telegiornale della sera non è un’ottima idea, ridacchia Erkan. Semih, di Kaos Gl, come qualcuno che dopo un brutto spavento torna a rilassarsi: «Per noi che in piazza ci fossero 200 persone è un successo. Ci inorgoglisce e ci dà la forza per continuare non solo a fare quello che facciamo ma per cercare sempre nuovi appoggi. Oggi abbiamo fatto il nostro pezzetto di storia».

La Turchia non ha una legge contro l’omosessualità o la sodomia, come altri paesi al mondo [sodomylaws.org], ma non ha neppure una legge che punisca le discriminazioni in base all’orientamento sessuale. Il provvedimento che ha fatto allontanare la Turchia dall’Europa e dall’affermazione del diritto alla libera scelta del proprio orientamento sessuale è stato l’entrata in vigore nel 2005 del kabahatler kanunu - legge sulla morale pubblica - alla quale è seguita, nel 2007, un’altra legge che amplia quasi all’infinito i poteri della polizia. La definizione di morale pubblica è molto vaga e si può essere puniti - a discrezione dei poliziotti - per accattonaggio, detenzione di arma non registrata, per una gonna troppo corta o per aver mangiato la minestra troppo rumorosamente. A fare le spese di questi provvedimenti sono stati proprio i membri di Lambdaistanbul, i quali hanno ricevuto il 29 maggio scorso l’ordine di chiudere, per la presunta violazione del kabahatler kanunu .

Il lavoro di associazioni come Lambdaistanbul o Kaos Gl è indispensabile, farle chiudere significa privare dell’unico aiuto chi è discriminato e non sa a chi dirlo o non sa come comportarsi. Significa chiudere l’unico canale che parli di Hiv/Aids, prevenzione e preservativi. Significa bloccare un lungo e faticoso percorso di emancipazione e affermazione di diritti, e condannare Onur ed Erkan ad una vita più clandestina di quella di un criminale.