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Di Jean-Arnault Dérens, per Le Courrier des Balkans/Fondazione Gabriel Péri, 21 luglio 2008 (titolo originale: "Être de gauche dans les Balkans, mission impossible?”)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta
I tre articoli di questo dossier sono stati realizzati da Le Courrier des Balkans e pubblicati sulla rivista Nouvelle Fondation della Fondazione Gabriel Péri
Constatarlo sarebbe facile. All'infuori di qualche vecchio nostalgico ancora legato alla memoria del maresciallo Tito o di Enver Hoxha, e che forse coltiva soprattutto la nostalgia della propria gioventù, la «sinistra» nei Balcani sembra ridursi a qualche circolo di affaristi corrotti o, nel migliore dei casi, ad alcuni burocrati di provincia incompetenti...
L’immagine è forse forzata, ma il colpo d'occhio è desolante. Inoltre, i partiti considerati «di sinistra» non sono stati minimamente capaci di opporsi ai nazionalismi bellici che hanno dilaniato la regione. All'esatto contrario, il Partito socialista della Serbia (SPS) di Slobodan Milosevic, pur presentandosi come un Partito «di sinistra», ha svolto nella dissoluzione della Jugoslavia il drammatico ruolo che tutti conoscono.
La frattura sinistra/destra, una questione di eredità
Sono considerate «di sinistra» le formazioni politiche nate dagli ex partiti comunisti, anche se non tutte gestiscono questa eredità allo stesso modo. Soprattutto quando nello stesso Paese ci sono diverse formazioni rivali a rivendicare l'eredità dei vecchi Partiti unici. Inoltre, in tutte le Repubbliche jugoslave, e specialmente in Croazia o in Bosnia Erzegovina, numerosi ex quadri comunisti sono confluiti nelle formazioni nazionaliste create all'inizio degli anni '90, pronti ad abbracciare con foga e ardore le forme più estreme di questa nuova ideologia. Una famosa barzelletta bosniaca riassume a meraviglia questa situazione. Un imam comincia la sua preghiera: «Ai fratelli che sono in fondo alla sala io dico ‘Aleikum salam’, ai credenti che sono nel mezzo io dico ‘Buongiorno, signori’, a quelli delle prime file: ‘Salve, compagni!’»…
Il Partito d’azione democratica (Stranka demokratske akcije, SDA) di Bosnia-Erzegovina e la Comunità democratica croata (Hrvatska demokratska zajednica, HDZ) hanno ampiamente ripreso i quadri, le strutture e i metodi di potere e di organizzazione della vecchia Lega dei comunisti. Il fondatore dell'HDZ, Franjo Tudjman (1922-1999), «padre dell’indipendenza croata», era egli stesso un vecchio partigiano della Seconda guerra mondiale, generale dell’armata jugoslava e militante comunista «convertito» al nazionalismo. All'opposto il fondatore dell'SDA, Alija Izebegovic (1925-2003), è uno dei rari dirigenti post-jugoslavi a non essere mai stato un appartenente al Partito: tutta la sua carriera ideologica e politica si è svolta in un universo intellettuale dominato dall'Islam.
In Croazia, come in Bosnia Erzegovina, sono i partiti socialdemocratici (SDP) ad essere gli eredi diretti delle vecchie Leghe dei comunisti. Ivica Racan, dirigente dell'SDP croato e Primo ministro in Croazia dal 2000 al 2003, fu uno dei principali protagonisti del XIV ed ultimo congresso della Lega dei comunisti jugoslavi, nel gennaio 1990.
E' importante ricordare che la Lega dei comunisti jugoslavi era divisa in tante Leghe quante erano le Repubbliche federali, e che anche le due province autonome della Voivodina e del Kosovo avevano la loro propria organizzazione. Negli anni '80, la Federazione jugoslava si evolvette così in una «Federazione di burocrazie comuniste repubblicane», che difendevano ciascuna gli interessi particolari della rispettiva Repubblica, cosa che non mancò di creare scontri e tensioni. La Lega dei comunisti giocò anche un importante ruolo nell'accesso della Slovenia all'indipendenza.
I partiti socialdemocratici degli anni '90 potevano dunque a buon diritto presentarsi come delle formazioni «nazionali», anche se i partiti nazionalisti lanciavano spesso contro di loro l'accusa, percepita come infamante, di «jugonostalgia». Nel momento delle prime elezioni multipartitiche croate, nella primavera del 1990, l'SDP difese un programma che prevedeva, più che una rottura del quadro federale, una riforma radicale delle istituzioni jugoslave, il che gli permise di beneficiare di numerosi voti serbi.
Nel contesto segnato dalla guerra degli anni '90, gli SDP di Croazia e di Bosnia Erzegovina ebbero grandi difficoltà a far sentire la propria voce. La vittoria dell'SDP croato alle elezioni del 3 gennaio 2000 fu una conseguenza della morte di Franjo Tudjman, ma anche della riconquista di tutto il territorio croato (1995) e della completa reintegrazione delle zone serbe (1998).
In Bosnia Erzegovina, l'SDP partecipò ai governi di guerra di Sarajevo, il che ebbe come conseguenza quella di limitare l'elettorato del partito alle regioni controllate da questo governo e, in maggioranza, alla comunità bosniaco-musulmana. Ancora oggi, l'SDP bosniaco si presenta come un partito «unitarista», favorevole a un rafforzamento dello Stato centrale a discapito delle larghe competenze devolute alle due «entità», la Republika Srpska e la Federazione croato-bosniaca di Bosnia Erzegovina, che compongono il Paese dopo gli accordi di pace di Dayton (1995). L'SDP cerca di raccogliere un elettorato «cittadino», ostile alle divisioni etniche, ma il suo passaggio al governo (2000-2002) non ha lasciato un ricordo brillante.
L’eredità delle vecchie Leghe è stata rivendicata anche da altre formazioni, spesso emerse strutturalmente dalle diverse organizzazioni dell’epoca socialista (organizzazioni della gioventù, fronti di massa, ecc.). Queste formazioni generalmente non hanno avuto che un seguito molto ridotto. L'ultimo Primo ministro della repubblica socialista federale di Jugoslavia, il riformatore croato Ante Markovic, è l'artefice della creazione dei Movimenti riformatori, che hanno avuto solo breve durata, ma sono riusciti in alcuni casi a trasformarsi in partiti d’ispirazione socialdemocratica. Così, in Bosnia Erzegovina, la corrente socialdemocratica è divisa in funzione di queste due filiazioni: l'SDP deriva direttamente dalla Lega dei comunisti, mentre l’Unione dei socialdemocratici bosniaco-erzegovesi, a lungo animata dal sindaco di Tuzla, Selim Beslagic, è l'erede del movimento riformatore. Le due formazioni si sono formalmente riunificate, senza cessare peraltro di vivere forti contrapposizioni a livello personale.
Il principale indicatore che permette di situare i partiti politici alla sinistra dello scacchiere politico è dunque la loro filiazione, più che il loro programma o le loro scelte politiche effettive. I casi della Serbia e del Montenegro presentano tuttavia delle forti singolarità.
Il caso serbo
È in Serbia che la nozione di «sinistra» è probabilmente più svalutata, perché resta legata al regime di Slobodan Milosevic e al suo Partito socialista di Serbia (SPS), erede diretto della Lega dei comunisti di Serbia (Savez Komunista Srbije, SKS).
Nella sua strategia di conquista del potere, Slobodan Milosevic cominciò con l'assicurarsi il controllo sulla SKS, prima di estenderlo alle organizzazioni del partito nelle province autonome di Voivodina e del Kosovo, così come nella Repubblica del Montenegro. In tal modo, egli controllava quattro burocrazie repubblicane, il che gli permetteva di disporre di quattro voti su otto nelle istanze federali.
Politicamente, l’ascesa di Milosevic si è iscritta in una dinamica dialettica ben gestita: da una parte, il padrone di Belgrado riabilitava ed esaltava il nazionalismo, che era stato colpito da un lungo periodo di interdizione sotto Tito; dall’altra, egli si presentava come il difensore della Jugoslavia federale e socialista di fronte ai «secessionisti» sloveni e croati, come a quelli albanesi del Kosovo. Questo atteggiamento gli è valso il sostegno, decisivo, dell'Esercito popolare jugoslavo (Jugoslovenska Narodna Armija, JNA), che disponeva di strutture comuniste interne e che godeva, de facto, dello status di una entità federale autonoma. Dopo il decisivo XIV Congresso del gennaio 1990, i dirigenti della JNA, sotto l'impulso del generale Veljko Kadijevic, furono tentati dall'opzione golpista per «salvare la Federazione», ma questo progetto non vide mai la luce.
Al contrario, essi finirono per allearsi al progetto politico di Milosevic, che era riuscito nello stesso tempo a recuperare una buona parte dell’opposizione nazionalista. In un primo tempo, nel 1990, questa opposizione vedeva in Milosevic un erede dell'inviso sistema comunista. Il «genio» di Milosevic fu quello di recuperare i diversi gruppi che si formavano e di inviarne i bracci armati, spesso usciti dalle tifoserie organizzate dei club di calcio, sui primi campi di battaglia in Croazia.
Vojislav Seselj, divenuto capo del Partito radicale serbo (Srpska radikalna stranka, SRS), fu l’uomo che permise questo recupero politico, mentre un famigerato criminale controllato dalla polizia segreta, Zeljko Raznatovic, meglio conosciuto sotto il nome di comandante Arkan, ricevette il compito di formare le prime milizie. Uscito da questa stessa frangia nazionalista e monarchica, solo Vuk Draskovic comprese la manovra e radunò le correnti dell'opposizione democratica.
Durante tutti gli anni '90, la scena politica serba resta strettamente controllata da Slobodan Milosevic, dal suo Partito socialista di Serbia (Socialisticka Partitija Srbije, SPS) e dai suoi «satelliti»: l'SRS, che doveva occupare il campo politico sulla destra, e l’Unione delle sinistre jugoslave (JUL), diretta da Mirjana Markovic, moglie del padrone di Belgrado, che doveva occuparne la sinistra.
Nelle altre repubbliche jugoslave dilaniate dalla guerra si ritrovava questa dicotomia. Nel momento in cui i partiti serbi di Croazia e di Bosnia, la cui creazione era stata suscitata da Milosevic, si riferivano ad un nazionalismo romantico, alla monarchia e alla Chiesa Ortodossa, essi avevano il sostegno dei vecchi quadri formati alla scuola comunista. Tale era in particolare il caso del capo militare dei serbi di Bosnia, Ratko Mladic, «obbligato» a venire a patti col folklore cetnico laddove i suoi stessi genitori, partigiani comunisti, erano stati uccisi dai cetnici durante la Seconda guerra mondiale.
Di fronte a questo sistema inarrestabile, l’opposizione era ridotta alla pura sussistenza. Anche se, in base ai loro riferimenti ideologici, molti dei dirigenti di questa opposizione si classificavano a sinistra – tale era in particolare il caso di Zoran Djindjic (1952-2003) – d'altra parte essi erano obbligati a denunciare la «sinistra al potere» rappresentata dalla coppia Milosevic-Markovic. Al di fuori delle rivendicazioni democratiche, questa opposizione non poteva formulare dei veri programmi. Essa si divise anche su questioni essenziali, come le relazioni con i nazionalisti serbi di Bosnia-Erzegovina, ai quali Zoran Djindjic stesso offrì un criticabile sostegno quando nel 1994 Milosevic prese le distanze da loro, a causa di un assai malaccorto opportunismo politico.
In Montenegro, il Partito non muore mai!
Il Montenegro offre un caso estremo ed unico, senza equivalenti in nessuna parte d'Europa, di conservazione del potere, senza alcuna interruzione, da parte dell'antico Partito comunista. Ribattezzata Partito democratico dei socialisti (Demokratska Partija Socijalista, DPS), l’ex Lega dei comunisti montenegrini (SKCG) non ha mai perduto una elezione dall'instaurazione del sistema pluripartitico. È pur vero che il partito ha subito svariate purghe e scissioni. Nel 1988 la famosa «rivoluzione antiburocratica», ordita da Belgrado, permise di eliminare la vecchia guardia del Partito montenegrino e di rimpiazzarla con giovani quadri, all'epoca fedeli seguaci di Slobodan Milosevic. Questi giovani si chiamavano Momir Bulatovic, Milo Djukanovic, Filip Vujanovic, Svetozar Marovic… Essi gestirono la trasformazione del SKCG in DPS e restarono fedeli alleati di Belgrado fino alla metà degli anni '90.
Il gruppo guidato da Milo Djukanovic cominciò in quel momento a prendere le distanze da Belgrado e a sbirciare verso Occidente, pur riprendendo a suo vantaggio le tesi secessioniste montenegrine, fino ad allora difese unicamente dall'Alleanza liberale del Montenegro (LSCG), formazione anch'essa creata nel 1990 da ex quadri della Gioventù comunista come Slavko Perovic. Questa evoluzione ideologica del DPS provocò la scissione degli elementi fedeli a Belgrado, che crearono il Partito socialista popolare (SNP), sotto la guida di Momir Bulatovic. Dopo il 2000, questo partito si avvicinò alle correnti nazionaliste serbe del Montenegro, cessando di fare riferimento a Slobodan Milosevic, il che portò ad una nuova scissione: Momir Bulatovic, sempre fedele al suo antico mentore, creò un piccolo Partito socialista popolare (NSS), lasciando il controllo dell'SNP a Predrag Bulatovic (tra i due non ci sono rapporti di parentela).
L'SNP cerca di conciliare dei riferimenti «jugoslavi», l'attenzione sociale e il suo impegno «unionista» in favore del mantenimento dei legami tra la Serbia e il Montenegro. La lotta unionista l’ha però portato a legarsi con delle formazioni nazionaliste che inneggiano alla Grande Serbia, come quelle oggi raggruppate nella Lista serba di Andrija Mandic.
Da parte sua, il DPS è prima di tutto un comitato di affari e di potere che ha depredato sistematicamente il Montenegro, a grande vantaggio dei suoi dirigenti, che continuano a monopolizzare tutte le funzioni pubbliche. Il DPS tuttavia governa il Paese in partenariato con il piccolo Partito socialdemocratico (SDP), una formazione che a lungo è stata più risolutamente indipendentista, pur riuscendo a condurre altre lotte, di cui il Montenegro aveva un gran bisogno (diritti delle minoranze, femminismo, ecc.). In questi ultimi anni, pur conservando una sociologia particolare (il Partito conta molti aderenti usciti dalle minoranze nazionali), l'SDP ha abbandonato la maggior parte delle sue specificità ideologiche e partecipa direttamente al sistema di potere costruito da Milo Djukanovic. Il dirigente del Partito, Ranko Krivokapic, Presidente del Parlamento, è il terzo uomo dello Stato e del «sistema» Djukanovic.
Macedonia, differenze ideologiche?
In Macedonia oggi è difficile trovare delle differenze programmatiche essenziali tra l’Alleanza socialdemocratica (Socijaldemokratski Sojuz na Makedonija, SDSM) e il VMRO-DPMNE, il cui stesso nome, Organizzazione rivoluzionaria interna di Macedonia - Movimento democratico di unificazione nazionale macedone, rinvia al «folklore» patriottico macedone dell'inizio del XX secolo. I due partiti condividono a priori i medesimi orientamenti, incentrati sulla difesa dello Stato macedone e dell'identità nazionale. Anche i loro obiettivi sono comuni: il proseguimento delle privatizzazioni e della transizione verso una economia di mercato, l'integrazione euro-atlantica, ecc. – esattamente come i loro metodi di potere, segnati da un forte clientelismo.
Del resto la maggior parte di questi punti trovano un largo consenso in tutti i Paesi della regione, dove la cruciale questione dell'integrazione europea non è mai oggetto di un vero dibattito politico. Le polemiche in effetti vertono solo sul modo per avvicinarsi all'obiettivo europeo, senza interrogarsi sui contenuti politici o sociali dell’integrazione.
ONG, «società civile»: nuovi paradigmi
Importanti tematiche sociali sono condivise da altri attori sociali, che colmano il vuoto lasciato dal silenzio dei partiti, che si tratti della difesa dell’ambiente, dei diritti delle donne e della lotta contro i modelli patriarcali esacerbati dagli anni di guerra e di culto della violenza, politica o mafiosa, o ancora dei diritti sociali.
Le ONG sono state spesso accusate di essere portatrici di valori ideologici occidentali artificiosamente applicati su realtà di tutt'altra natura. È vero che queste ONG beneficiano spesso di finanziamenti stranieri (Unione europea, USA, fondazioni private, ecc.), e che è anche possibile che siano state oggetto di manipolazioni politiche (nel famoso schema, presto degenerato, delle «rivoluzioni colorate», il cui modello sarebbe la caduta di Milosevic in Serbia). Sarebbe tuttavia sbagliato avere un approccio negativo verso queste ONG, malgrado l’immagine caricaturale che le accompagna, di «democratici professionisti» ben remunerati, necessariamente anglofoni, che hanno potuto autoproclamarsi portavoce di una «società civile» spesso molto difficile da identificare…
Le questioni che portano avanti, l'energia sociale che queste ONG suscitano sono in effetti dei fattori essenziali di vitalità democratica.
Tra queste ONG, la galassia femminista è probabilmente la più attiva. Le femministe dell'ex-Jugoslavia, sull'esempio delle Donne in nero di Belgrado, non hanno del resto mai avuto difficoltà a conservare tra di loro dei legami attivi di solidarietà transfrontaliera, rappresentando dunque una alternativa molto “politica” ai diversi nazionalismi.
Similmente, certe reti come le Iniziative cittadine in Serbia (Gradjanske Inicijative) hanno potuto federare un gran numero di associazioni locali. Le mobilitazioni ambientaliste rappresentano, da questo punto di vista, un fenomeno nuovo e promettente. Le importanti mobilitazioni di questi ultimi anni contro alcuni progetti di dighe che avrebbero portato pesanti conseguenze sull'ambiente, specialmente in Bosnia Erzegovina e in Montenegro, hanno permesso di aprire un dibattito nuovo sul modello di sviluppo economico proposto ai Paesi della regione, sulla confusione tra interessi politici, economici e mafiosi…
Un cambio della guardia sindacale?
Il silenzio generale delle formazioni cosiddette di sinistra sui temi sociali resta però particolarmente opprimente, dal momento che tutti i Paesi della regione hanno vissuto in condizioni estremamente difficili la «transizione» verso l’economia di mercato. Il crollo dei salari e delle pensioni, la massiccia disoccupazione (che oggi tocca circa il 30% della popolazione attiva in Serbia e il 60% in Kosovo), la crescita del lavoro nero… I partiti socialdemocratici si sono generalmente accontentati di esternare una «preoccupazione» sociale, pur riaffermando il loro attaccamento al conseguimento della transizione economica, e senza cercare di sviluppare particolari relazioni con i sindacati.
La scena sindacale è essa stessa ancora largamente dominata dagli apparati usciti dall'epoca socialista, incapaci di sviluppare un sindacalismo rivendicativo ed ugualmente incapaci di rivolgersi ai lavoratori delle nuove imprese private, spesso non dichiarati e privi di ogni riconoscimento e sicurezza sociale.
Spesso questi sindacati riproducono le fratture politiche o nazionalistiche che dividono il loro Paese. Così in Bosnia l'unità dei sindacati è un guscio vuoto, e i sindacati si sviluppano in realtà su base strettamente nazionale (sindacati della Republika Srpska e della Federazione, questi ultimi ulteriormente scissi in croati e bosniaco musulmani). In Montenegro, l’opposizione tra correnti indipendentiste e unioniste divide ugualmente i sindacati, mentre i sindacati macedoni non hanno alcun radicamento nella popolazione albanese del Paese…
L’esperienza di sindacalismo alternativo più sviluppata è certamente quella di Nezavisnost in Serbia, che si è costruita in contrapposizione all’Unione dei sindacati indipendenti (SSSS), legata al regime Milosevic. Il sindacato Nezavisnost faceva parte del «fronte» dell’opposizione democratica. Eppure dopo il 2000 il sindacato fa fatica a ridefinire il suo ruolo. Partigiano delle riforme e delle privatizzazioni, il sindacato è cosciente dei compiti che dovrebbero essergli propri: la difesa dei salariati, dei lavoratori in nero, ecc., ma ancora non riesce ad adattarsi al nuovo contesto politico.
Come ricostruire una sinistra politica?
Il caso serbo può anche servire da esempio della confusione prevalente. Il Partito socialista di Serbia (SPS) conserva una base militante ed un elettorato sempre più vecchio, costituito da nostalgici del regime Milosevic; il Partito ha ormai circa il 6% dei voti. Il Partito democratico (DS) del Presidente Boris Tadic è membro dell’Internazionale socialista, ma non manifesta una particolare sensibilità sociale. In esso coabitano militanti che hanno riferimenti vicini a quelli della sinistra europea e ultra-liberali come l’attuale vice-Premier Bozidar Djelic.
Frutto di una scissione del DS, il Partito liberaldemocratico (LDP) di Cedomir Jovanovic raggruppa alcune grandi figure della dissidenza antinazionalista serba degli anni '90, come Vesna Pesic, ex dirigente dell’Alleanza civica di Serbia (GSS), o Zarko Korac, ex dirigente della piccola Unione socialdemocratica (SDEL). Anche la storica Latinka Perovic, ex dirigente delle correnti «liberali» degli anni '70 della Lega dei comunisti di Serbia, è molto vicina al Partito.
I riferimenti intellettuali, e politici, di queste grandi personalità della scena politica serba, si ricollegano al marxismo critico degli anni '70 (e in particolare ai circoli che si ritrovavano ai seminari estivi sull’isola dalmata di Korcula), come pure alle correnti che hanno profondamente rinnovato la sinistra occidentale: il femminismo, l'ecologia, ecc. Questi militanti oggi non esiterebbero a definirsi dei socialdemocratici. Allo stesso tempo però, l'LDP evita con grande cura di posizionarsi sull'asse sinistra-destra.
Di fronte a questa sinistra che non osa affermarsi, la destra serba ha invece saputo gestire perfettamente il suo adattamento al dopo-Milosevic. Così il Partito radicale serbo (SRS), mentre il Partito democratico di Serbia (DSS) di Vojislav Kostunica si presenta apertamente come un Partito ultraconservatore e filoclericale. Il DSS conta anche sull’alleanza russa ed intrattiene evidenti connivenze ideologiche con l'SRS, ma allo stesso tempo tiene molto alla «legittimità democratica ed europea» che gli donano i suoi legami col Partito popolare europeo (PPE).
In Croazia, se l'SDP può apparire come un Partito socialdemocratico fortemente coerente con quelli che si ritrovano in altri Paesi d’Europa, bisogna notare che altre forze politiche sono presenti alla sinistra dello schieramento politico. Diversi partiti regionalisti portano avanti istanze di decentramento, così come altri temi quali quello ambientale. Questo è il caso del Forum democratico istriano (IDS), che dirige le istituzioni provinciali dell'Istria, dove dispone di una larga maggioranza, o del Partito croato di Slavonia e Baranja (HSSB). In Francia si fa spesso confusione tra regionalismo e nazionalismo, essendo il regionalismo percepito come una forma «moderata» di nazionalismo. In Croazia, regionalismo e nazionalismo sono antinomici: un progetto regionalista mira a riunire tutti i cittadini di una data regione attorno ad obbiettivi comuni, indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale. Da questo punto di vista, essi hanno pienamente partecipato alla resistenza al nazionalismo che dominava negli anni '90. Questi partiti si mostrano spesso più capaci dell'SDP di sviluppare dei veri progetti di sviluppo economico, tenendo conto degli aspetti sociali ed ambientali.
Oltre alle confusioni legate all'eredità ideologica particolare degli anni della dissoluzione della Federazione, la definizione dei programmi politici di sinistra nei Balcani necessita in effetti di tener conto di una particolare serie di parametri.
Obiettivi e criteri da reinventare
Innanzitutto la «transizione economica» è ancora ben lungi dall'essere compiuta nei Paesi della regione, che si confrontano sempre con privatizzazioni dolorose e spesso mafiose. I partiti di sinistra dovrebbero non solo denunciare gli abusi e le illegalità che possono riguardare questi processi, non solo prendere in considerazione gli interessi dei lavoratori, ma anche avviare una riflessione sul tipo di sviluppo economico desiderabile per la regione.
I partiti di sinistra devono ugualmente essere in prima fila nell'indispensabile lavoro di confronto col passato recente e di riconciliazione regionale, confermando il loro retaggio antinazionalista. In questa dinamica, a dover essere riesaminate sono tutte le difficili prove del XX secolo, e non solo gli avvenimenti legati alla dissoluzione della Jugoslavia. Così, senza coltivare una «jugonostalgia» o un culto postumo del maresciallo Tito, che non può più avere un significato politico, devono opporsi ai tentativi revisionisti legati alla Seconda guerra mondiale, e che propongono una riabilitazione delle correnti cetniche e ustascia.
Questi partiti devono inoltre aprirsi a nuove problematiche, come la difesa dell'ambiente, senza scordare l'essenziale dibattito sul senso ed il contenuto politico dell'integrazione europea, che deve a sua volta sostenere un reale progetto d’integrazione e di riconciliazione regionale, chiave dell’avvenire dei Balcani.
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Capo redattore di Le Courrier des Balkans