di Latinka Perović, 29 settembre 2008, e-novine
(tit.orig. "Pomirenje Srba i Hrvata i Srba i Albanaca")
Traduzione per Osservatorio Balcani: Maria Elena Franco
Latinka Perović, storica, intellettuale. Impegnata in politica ai tempi della Jugoslavia, è stata segretaria della Lega dei Comunisti dal 1969 al 1972. Condannata per liberalismo, ha dato le dimissioni. È consigliere scientifico all'Istituto di Storia Moderna Serba di Belgrado.
Lo scorso 26 settembre era previsto un suo intervento alla conferenza episcopale a Belgrado sul tema della riconciliazione tra serbi e croati e tra serbi e albanesi. Prima ancora che si fosse a conoscenza del contenuto della sua esposizione, il vertice della Chiesa ortodossa serba, con l'intesa dei rappresentanti di stato, ha reso noto agli organi della conferenza episcopale che la relatrice, a causa delle sue “posizioni antiserbe”, non era ben accetta.
Ringrazio per l'invito a parlare della riconciliazione tra serbi e croati e tra serbi e albanesi di fronte ad un pubblico di tale levatura. Ma lo ammetto: in questo momento la responsabilità si fa sentire molto di più rispetto all'onore per essere qui presenti.
Questa sera, signori, con il mio intervento affronterò due aspetti, due punti estremi di quella che in sostanza è un'unica questione, che ha una storia lunga due secoli. Per questo vorrei informarvi innanzitutto sui fatti che hanno determinato la posizione che sosterrò in seguito.
In primo luogo, io mi occupo di storia della Jugoslavia. L'oggetto della mia tesi di dottorato sono state le relazioni nazionali nella prima Jugoslavia. Più esattamente, le battaglie sul carattere di questo stato plurale per nazionalità, cultura, religione e lingua. Così doveva essere il suo ordinamento: centralista, che amalgamasse tutte queste differenze, ma federalista, per conservarle, insieme all'interesse dello stato.
In secondo luogo, io sono uno degli attori responsabili del periodo politico della seconda Jugoslavia, in cui - per alcuni nella sostanza, per altri nella forma - è rimasta aperta questa stessa questione, la questione del suo carattere. Sono stata fedele a quell'orientamento del pensiero politico serbo che intendeva la Jugoslavia come uno stato complesso, i cui appartenenti erano coscienziosamente decisi per un suo ordinamento federale o confederale. Ciò significa per i più ampi diritti e le responsabilità delle repubbliche che, fatta eccezione per la Slovenia, erano tutte di per se stesse plurinazionali, e inclini al consenso sulle funzioni dello stato federale. Nel lungo periodo, questa strada ha escluso la forza militare e il potere personale come fattori di integrazione. In altre parole, vigevano libertà e democrazia.
In terzo luogo, mi sono dedicata allo studio della storia della Serbia della seconda metà del XIX secolo, quando, in particolare dopo l'indipendenza del 1878, si profilano i due orientamenti che determineranno la storia serba: lo stato panserbo e lo sviluppo di un vero stato serbo sul modello degli stati occidentali, a fianco delle relazioni culturali e politiche con i serbi dell'Impero austroungarico e in quello ottomano. Tuttavia, le guerre dell'ultimo decennio del XX secolo e i crimini commessi al tempo, non mi hanno lasciato in una torre d'avorio. Il mio rapporto con le guerre proviene dal mio modo di intendere la Jugoslavia come stato dei popoli jugoslavi e di gran parte del popolo albanese, non slavo. Le guerre hanno la loro cronologia e la loro storia, e ogni tentativo di ignorarle, ogni tentativo di stabilire degli equilibri, imprigiona il nostro pensiero e ci impedisce di diventare maturi, ovvero responsabili.
Spesso mi reco nelle repubbliche ex-jugoslave, oggi stati indipendenti e riconosciuti a livello internazionale, e in Kosovo. All'inizio della scorsa estate, insieme ad un team multidisciplinare di un'organizzazione non governativa, ho visitato le enclave serbe in Kosovo. Ovviamente abbiamo incontrato anche gli albanesi e abbiamo parlato con loro. In tali situazioni uno storico capisce quanto gli sia indispensabile l'esperienza empirica sui processi a lui contemporanei. Senza tale esperienza, rischia di diventare prigioniero di stereotipi politici e, a danno del suo popolo, entrare in conflitto con la realtà.
Dunque, tutta questa esperienza è stata accumulata negli anni ed ha contribuito in diversi modi al mio approccio alla riconciliazione tra serbi e croati e tra serbi e albanesi. Sono sicura, invece, che con un approccio simile, potreste sentire idee diverse su come arrivare alla riconciliazione. Così un economista, ne sono convinta, insisterebbe sul rafforzamento dei rapporti economici, perché questi mobilitano le persone su un piano etnicamente neutro, sul capitale. Del resto serbi, croati e albanesi hanno commerciato tra loro anche ai tempi dei conflitti armati più violenti.
Un sociologo e un demografo parlerebbero delle stesse caratteristiche che la guerra ha impresso in tutti e tre i popoli: le persone più istruite, serbe, croate o albanesi, hanno cercato di spostarsi fuori dalla propria comunità nazionale. Uno psicologo e uno psichiatra, ugualmente consapevoli dei profondi traumi e delle grandi frustrazioni, metterebbero in guardia sulla necessità di una lunga e dolorosa riabilitazione, che richiede anche un cambiamento del modo di pensare.
Un diplomatico direbbe che i conflitti, che fanno parte della vita di un popolo, devono essere risolti per vie pacifiche e non con la forza. Suppongo che un sacerdote aiuterebbe i disgraziati a perdonare, e i colpevoli a pentirsi attraverso la purificazione. Così, con una diversa interpretazione professionale della stessa esigenza, l'esigenza di riconciliazione, si potrebbe continuare all'infinito. Intendo dire che anche la riconciliazione tra serbi e croati e tra serbi e albanesi ha diversi livelli, e c'è molto lavoro per tutti noi.
In qualità di storica, qual è il mio compito? Ascolterei molto volentieri il consiglio dello storico francese Lucien Fèvre: “Se vi occupate di storia, voltate le spalle al passato e iniziate a vivere”, perché “la scienza non si fa nella torre d'avorio, ma con il solo vivere. La fanno le persone immerse nel presente.” Tuttavia sono una storica serba. Se, in quanto tale, mi aveste chiesto cosa ne penso delle caratteristiche principali della storia serba nell'epoca moderna, risponderei senza esitazione: molte guerre e molte costituzioni. Posso io, allora, non chiedermi perché il popolo serbo ha versato così tanto sangue e così tanto inchiostro? La mia parte di lavoro consiste nel comprendere con instancabile zelo queste caratteristiche. Lo ritengo molto importante, perché nella comprensione del passato, a mio avviso, sono contenuti i presupposti fondamentali per la riconciliazione. Questi collegano e rendono sensate tutte quelle idee diverse sulla riconciliazione di cui ho parlato.
Questa comprensione è più importante se nel nostro popolo esiste anche una storia orale fondata sulla tradizione e completata con la fantasia, mentre scetticismo e criticità restano immanenti alla scienza storica.
Dal 1876 al 1991, ovvero per 114 anni, la Serbia ha condotto 8 guerre. In media una guerra ogni 14 anni. Il più lungo periodo di pace coincise con l'epoca della seconda Jugoslavia: dal 1945 al 1991. Dopo la guerra serbo-turca del 1877-1878, la Serbia visse un'espansione territoriale e diventò uno stato indipendente. In seguito alla Prima guerra balcanica del 1912, la Serbia comprendeva anche i territori degli attuali Kosovo e Macedonia. Le vittorie della Serbia suscitarono l'entusiasmo degli altri popoli jugoslavi, ma anche le loro riserve, come anche le riserve all'interno della società serba. Questo a causa del regime che la Serbia impose nei nuovi territori, dando così inizio alle tensioni nei rapporti serbo-albanesi che, in modo aperto o latente, durarono per tutto il XX secolo (le insurrezioni albanesi soffocate con la forza, le fallite colonizzazioni al tempo della prima Jugoslavia, lo schieramento degli albanesi a fianco dell'Italia nel Primo conflitto mondiale, l'amministrazione militare che ne è seguita, lo status di minoranza nazionale degli albanesi che erano più numerosi dei tre popoli della Jugoslavia – sloveni, montenegrini e macedoni – lo status di provincia e il tentativo di integrazione degli albanesi nello stato jugoslavo, l'abolizione della provincia e il terrore del regime di Slobodan Milošević).
Alla fine della Prima guerra mondiale, con la costruzione del Regno di serbi, croati e sloveni, il popolo serbo, per la prima volta nella sua storia moderna, si trovò all'interno di uno stato. I conflitti sul carattere di questo stato si spostarono sul piano diretto delle relazioni serbo-croate, che nel XX secolo attraversarono diverse fasi (l'assassinio di esponenti politici croati all'Assemblea nazionale a Belgrado, il genocidio dei serbi al tempo dello Stato Croato Indipendente, la guerra contro la Repubblica croata degli anni Novanta e l'esodo dei serbi).
Accanto alle frequenti guerre, anche i frequenti cambiamenti di costituzione per ogni tipologia di stato che la Serbia ha avuto nel XIX e XX secolo. La Costituzione del 1869 fu la prima costituzione nazionale. Dal 1877 al 1912, la Serbia ebbe 12 leggi costituzionali, alcune delle quali non vennero mai cambiate. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, la Serbia soffrì di una crisi costituzionale costante. Le costituzioni vennero abolite, modificate e rimesse in vigore con una tale frequenza, che lo storico letterario e critico Jovan Skerlić ha detto che “le costituzioni sono state divorate”.
Dopo il rovesciamento della dinastia nel 1903, la Serbia divenne una monarchia costituzionale, con l’influenza decisiva dell’esercito. Alla vigilia delle guerre balcaniche, gli ufficiali crearono l’organizzazione segreta “Unione o morte”, il cui scopo era la realizzazione della Grande Serbia. La Mano nera, nome con cui tale organizzazione era conosciuta, impose il terrore. Le lotte per la costituzione nella prima Jugoslavia rifletterono diverse concezioni sul suo ordinamento come stato centralizzato o decentralizzato. Ovvero, diversi interessi
in primis di serbi e croati.
La costituzione del 1921 divenne il “pomo della discordia” perché fu votata a maggioranza semplice, non con la maggioranza dei due terzi, come concordato dai rappresentanti politici croati e serbi a Corfù (20 luglio 1917). Questa costituzione fu abrogata nel 1929 con la creazione della dittatura regia, e nel 1931 venne emanata la Costituzione Imposta. L’Accordo confederale tra serbi e croati fu conseguito nel 1939, solo due settimane prima dello scoppio della guerra, abbastanza per capire che la Serbia non voleva accettare l’Accordo. Grande resistenza venne dall’élite concentrata nel Club Culturale Serbo (SKK). Il suo presidente, Slobodan Jovanović, dichiarò al principale negoziatore Mihail Konstantinović: “Sarebbe stato meglio che tu ti fossi accordato con i tedeschi che con i croati”.
Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni del 1929. Il Regno di Jugoslavia era uno stato sovrano, ma non consensuale. Nel 1941 si dissolse, e le sue componenti si ritrovarono in diversi regimi di occupazione. Si è dimostrato quanto avesse ragione il diplomatico inglese Neville Henderson quando nel 1933 disse: “È più facile dire Jugoslavia, piuttosto che farla”. Questo l’ha confermato anche l’esperienza della seconda Jugoslavia rinata su basi federali durante la Seconda guerra mondiale. Sulle tracce della
formula regolativa nello stato plurinazionale, nel costante equilibrio tra centralismo e federalismo, anche la seconda Jugoslavia passò attraverso frequenti cambiamenti costituzionali: 1946, 1953, 1963. La costituzione del 1963 venne modificata 19 volte. Con gli emendamenti costituzionali del 1971 e del 1972, si arrivò alla costituzione del 1974, che aveva carattere consensuale. La Serbia si opponeva all'approvazione della Costituzione del 1974, e la rigettò formalmente subito dopo la morte di Josip Broz Tito. La goccia iniziale fu il Memorandum SANU [Accademia serba di arti e scienze,
ndt]. Per contenuto e per il carattere dei suoi creatori, questo documento era paragonabile alla piattaforma del Club Culturale Serbo del 1939. Con la differenza che dalla piattaforma SKK, durante la Seconda guerra mondiale, lavorò il governo in esilio e il movimento di Ravna Gora sotto il suo comando, mentre il Memorandum contribuì ad ottenere in Serbia il consenso contro la costituzione del ’74: questo sull’importante svolta storica su cui si sarebbe trovata la Serbia, senza riferimento al fallimento dei regimi comunisti nell’Europa orientale, in seguito alla morte di Tito.
Con il cambiamento della propria costituzione, la Serbia annullò i diritti che, in base alla costituzione del ’74, avevano le due province: Vojvodina e Kosovo. Parte della Serbia e allo stesso tempo fattore costitutivo della federazione jugoslava, il Kosovo, con una popolazione a maggioranza albanese, si trovò sotto un regime speciale. Questo, come nel 1912 e nel 1921, provocò la riserva di sloveni e croati, e poi degli altri popoli, nei confronti dello stato jugoslavo, la cui base sarebbe stata il popolo serbo. “Una forte serbità, una forte Jugoslavia”, come formulò nel 1939 Slobodan Jovanović, presidente del SKK.
Nella percezione della Jugoslavia come una federazione di tipo sovietico, di repubbliche con diritti amministrativi e culturali, la Serbia rimase sempre da una parte, e le altre repubbliche dall’altra. Questi fatti non si possono trascurare nemmeno quando si parla del carattere delle guerre in Jugoslavia nell’ultimo decennio del XX secolo. Perché, queste guerre hanno la propria cronologia e la propria storia, e le forze in conflitto si distinguono anche dal punto di vista quantitativo.
Perché vi parlo di questo? Perché l’interpretazione del recente passato non si può separare dall’interpretazione della storia serba del nuovo secolo. Uno storico deve constatare il fatto che la Serbia in due secoli non è riuscita ad istituzionalizzare un quadro statale. Le frequenti guerre e i frequenti cambiamenti di costituzione sono il motivo per cui questo non è stato fatto oppure sono anche la scusa inconsapevole per non farlo? E, allora, perché non farlo? Nella ricerca di risposte razionali a questa domanda, io credo siano contenuti i presupposti principali della riconciliazione.
Dobbiamo partire dal fatto che nessuno degli stati reali in cui ha vissuto il popolo serbo nell’epoca moderna – dal Regno di Serbia (1833) all'Unione di Serbia e Montenegro, la cui esistenza è terminata con il referendum in Montenegro nel maggio 2006 - ha soddisfatto il peso dell’élite politica, religiosa e militare serba. La limitazione dello stato etnico ha sottinteso l’espansione territoriale, ovvero le guerre. Questo, tuttavia, è incompatibile con il profondo sviluppo di ogni singolo stato. Lo stato moderno o, in sostanza, il rinnovamento dello stato medievale è un legame controverso nella storia della Serbia in epoca contemporanea. La Serbia ha varato costituzioni sul modello di quelle europee. Tuttavia, parallelamente a queste costituzioni, è sempre esistita una costituzione non scritta fondata sul diritto consuetudinario. La forza di una costituzione non scritta è più grande di ogni costituzione scritta. Come la storia orale è stata mentalmente più forte della scienza storica, per definizione scettica e critica: è alla base dell’ideologia nazionale, che, a differenza della scienza, non cerca risposte ma le ha già in anticipo.
Ogni ideologia ha il suo scopo fisso che sottintende un pensiero totalitario che non distingue il diritto consuetudinario dalla legge, come la tradizione dalla scienza. Allo stesso tempo, lo stato di tutti i serbi, come obiettivo dell’ideologia nazionale, non si cura dell’interesse degli altri popoli, ma nemmeno dei reali interessi del popolo serbo. Per questo ritengo che l’effetto di tutti quei diversi passi sulla strada della riconciliazione di cui ho parlato all’inizio dipendano dallo sforzo mentale di pensare al di fuori dalle matrici ideologiche.
Perché, per esempio, serbi e croati possono avere buone relazioni diplomatiche, una sviluppata collaborazione economica, un grande scambio commerciale, ma se prevalgono gli obiettivi dell’ideologia nazionale, possono sempre farsi guerra. Lo stesso vale per i rapporti tra serbi e albanesi. Il mito del Kosovo è parte della coscienza storica, ma la sua strumentalizzazione politica, che aggiunge alla memoria storica il Kosovo come territorio “in cui un giorno si dovrà tornare”, ha portato e porta ai conflitti.
C’è quindi, un aspetto di riconciliazione?
Questi aspetti oggi si intravvedono nella comune prospettiva dei popoli balcanici. Tutti hanno raggiunto il consenso sull’accettazione della prospettiva europea e sulla propria prospettiva nazionale. Dopo i drammatici anni Novanta (quattro guerre perse, sanzioni, bombardamenti), durante i quali la Serbia si è trovata, rispetto a tutti i parametri, all’ultimo posto tra i paesi europei (un ritardo di 30 anni sulle nuove tecnologie, analfabetismo, vecchiaia della popolazione, tasso di mortalità, fuga di giovani e intellettuali), i suoi cittadini alle ultime elezioni hanno mostrato di essere meno incantati dalle matrici ideologiche rispetto alle élite politiche e intellettuali. Mentre le élite continuano a parlare di uno stato di tutti i serbi, con la pretesa che questo, con l’ausilio di un forte esercito, diventi leader nel Sud Est Europa, i cittadini aspirano ad uno stato in cui la loro dignità sia la base della dignità nazionale. Questo espone la Serbia alle stesse tensioni che, oltre a tutte le divisioni, esistono anche presso i croati e agli albanesi, presso tutti i popoli balcanici.
Oltre a tutte le sue difficoltà, l’Europa va ad incontrarsi con queste tensioni. L’integrazione è figlia del tempo, come ha detto il premier serbo assassinato Zoran Đinđić. Se in Serbia prevalessero le forze il cui
modus vivendi consiste nel perseverare sui conflitti, diventerebbe un‘enclave in Europa, incapace di riconciliarsi non solo con gli altri, ma anche con la propria storia.