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Sarajevo 1993, sulla Maršala Tita (Foto Mario Boccia)
Presentato a Sarajevo “Ostalo je muk”, traduzione bosniaca de “Il resto è silenzio” di Chiara Ingrao. Il movimento per la pace, la guerra in Bosnia Erzegovina e l'Europa di oggi: conversazione con l'autrice
Sabato 11 ottobre, in occasione della nona edizione degli Incontri Europei del Libro organizzati dal
Centre André Malraux, si è tenuta a Sarajevo la presentazione di “Ostalo je muk”, edizione bosniaca de "Il resto è silenzio", di
Chiara Ingrao. Il libro, pubblicato in Italia dalla Baldini Castoldi Dalai, è stato presentato presso la libreria Šahinpašić dall'autrice, dalla traduttrice Nadira Šehović e dall'editore Ibrahim Spahić. Chiara Ingrao, fondatrice dell'Associazione per la Pace, esponente del movimento di solidarietà e contro le guerre nei Balcani sin dai primi anni '90, ha parlato della necessità di ricorrere al mito per descrivere “il senso di totale inadeguatezza provato di fronte a quello che accadeva qui. Era rimasta bruciante una sensazione di inespresso, che mi ha spinto a scrivere questa storia”. La vicenda di Sara e Musnida, protagoniste del romanzo, si confonde infatti con quella di Ismene e Antigone, in un'Europa su cui incombe l'assedio di Sarajevo, gravido di conseguenze come quello di Tebe. Ritornare sulla guerra bosniaca, tuttavia, avviene “non con la presunzione di esprimere quello che viveva chi vi era coinvolto direttamente, ma il mio punto di vista.” Gli anni '90 diventano così un preludio all'Europa di oggi, dove l'editto di Creonte (il tiranno che nel testo di Sofocle impedisce la sepoltura del fratello di Antigone e Ismene, Polinice) è ritornato “non nella legge ma nella realtà. Ogni giorno – ha concluso Chiara Ingrao - uomini e donne cercano di attraversare il Mediterraneo in cerca di una vita migliore. I loro corpi finiscono nelle reti dei pescatori che ormai non li riportano più a terra, hanno cominciato a rigettarli a mare. Hanno introiettato l'editto di Creonte ma, così facendo, perdono un pezzo della loro anima. Per costruire l'Europa dobbiamo mettere al centro l'anima di quei pescatori, degli europei comuni, aiutare noi stessi a ritrovare il pezzo della nostra anima che si perde ributtando quei corpi in mare.”
Quando è stata a Sarajevo per la prima volta e quale impressione ne ricava oggi?
Sono venuta qui per la prima volta nel '91. Allora ero dirigente dell'Associazione per la Pace, avevamo organizzato insieme ai pacifisti di tutte le parti dell'ex Jugoslavia una carovana che partiva da Trieste attraversando Slovenia, Croazia e Serbia e si concludeva a Sarajevo con una catena umana. Continuo a sentire la ferita per il fatto che secondo me, allora, si sarebbe stati in tempo a fermare il massacro. Oggi, soprattutto per quello che mi dicono gli amici di qui, quella Bosnia e quella Sarajevo che insieme avevamo difeso non esiste più. Anche se formalmente non hanno vinto gli assedianti, l'assedio ha ottenuto il suo risultato, quello di dividere. Non sono però in grado di giudicare se questo sia qualcosa di ormai definitivo o se invece rappresenti una fase di transizione.
Perché ritornare oggi sulla guerra in Bosnia Erzegovina?
C'era un bisogno individuale, che nasceva da quello che vedevo accadere intorno a me. Sento un rapporto molto forte tra le guerre attuali e il modo in cui, in quegli anni, abbiamo consentito che una cultura di guerra si diffondesse in Europa. Sento che in qualche modo il non aver sostenuto allora quella cultura, quella voce, quell'anima di Sarajevo proietti le sue conseguenze sull'oggi, perché proprio di quello avremmo bisogno per gestire la realtà europea attuale.
Non è troppo tardi?
Penso sia una domanda un po' astratta. Forse sì, è troppo tardi, io sono molto angosciata da quello che vedo succedere in Italia, in Europa e nel mondo, però penso che non ci sia altra scelta se non fare come se non fosse troppo tardi, perché comunque abbiamo bisogno di costruire dei germi di resistenza. Può darsi che questi germi diano un frutto tra molti anni, ma io credo che quello che si semina ha un senso e rimane anche se nell'immediato viene sconfitto. Io non credo che chi ha lavorato per una Bosnia diversa, per una Sarajevo che mantenesse la propria identità, abbia lavorato inutilmente, anche se oggi appare sconfitto. Io non credo che chi oggi in Italia rifiuti la cultura dominante del respingere il diverso, del fare del diverso il capro espiatorio, possa misurare il senso di quello che fa solo sul suo risultato immediato. La storia ha dei percorsi che è difficile prevedere.
Nella sua introduzione lei ha parlato di Sarajevo come cuore dell'Europa. Oggi nel dibattito pubblico italiano c'è attenzione nei confronti di Sarajevo, della Bosnia o dei Balcani in genere?
Chiara Ingrao
Quasi nessuna. Si tratta di un rimosso anzitutto a livello politico, da ogni parte. Anche perché non abbiamo fino in fondo esplorato, capito o discusso nessuna delle due scelte fatte: né quella di assistere impotenti all'assedio e al massacro di Sarajevo – con i risultati che abbiamo visto, di sofferenze terribili e di una pace costruita comunque su base etnica, né la scelta fatta in Kosovo di intervenire per difendere le vittime creando poi altre vittime nella popolazione serba. In realtà abbiamo assistito a due scelte apparentemente opposte entrambe le quali hanno portato allo stesso risultato, cioè all'accettazione di Stati fondati su base etnica.
C'è una responsabilità dei media in questa rimozione, per come si è parlato di Balcani in questi anni?
Credo siano responsabili tutti, non solo i media. Purtroppo le tragedie vanno di moda per un certo periodo, poi scompaiono. Quando sono di moda fanno le prime pagine, poi spariscono ma non necessariamente perché si sono concluse. Però credo che questo tipo di responsabilità dei media si intrecci con le responsabilità della politica e anche della cultura. Io oggi mi sento molto poco rappresentata da quello che è il mondo della politica, ma sento molto più drammaticamente il silenzio della cultura. Tante volte abbiamo detto che la politica non rispondeva, che le risposte venivano dalla società civile, ma oggi anche la società civile vive una crisi profondissima. Noi che siamo stati pacifisti, e che lo siamo tutt'ora, che siamo nei movimenti di solidarietà, non possiamo solo dire “ma noi avevamo ragione, ma noi abbiamo tentato di fare qualcosa”. Dobbiamo anche interrogarci sul perché non siamo riusciti a comunicare con il resto della società.