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Borut Pahor
Borut Pahor, leader dei socialdemocratici sloveni, ha ottenuto l'incarico a formare il nuovo esecutivo, e ora ha due settimane per presentare la sua squadra di governo. Uomo del dialogo, Pahor dovrà ora trovare un equilibrio stabile tra i quattro partiti della maggioranza che lo sostiene
Dallo scorso venerdì 7 novembre la Slovenia ha un nuovo premier, ma non ancora un nuovo governo. Il parlamento ha conferito l’incarico al leader socialdemocratico Borut Pahor, che adesso avrà 15 giorni per presentare alla camera la sua squadra. Per vedere all’opera la nuova compagine, probabilmente, bisognerà attendere ancora una ventina di giorni.
La maggioranza sarà composta da Socialdemocratici, Zares, Democrazia liberale e Desus. Com’era nelle previsioni, quindi, a governare la Slovenia per i prossimi quattro anni sarà un quadripartito di centrosinistra. L’intesa tra le parti è stata firmata dopo una lunga concertazione sui contenuti del programma. In tutto 67 pagine, stilate sulla base della proposta avanzata dai socialdemocratici ed emendate dagli alleati. Rimane ancora da definire la lista dei ministri.
A creare i maggiori grattacapi è stato il Desus, o per meglio dire il presidente del partito dei pensionati, Karl Erjavec. Forte del risultato elettorale ottenuto e consapevole di poter giocare il ruolo di ago della bilancia, Erjavec avrebbe voluto ottenere ministeri importanti e significative concessioni nel programma di governo per i pensionati. Le sue richieste, però, più che di fronte all’intransigenza di Pahor si sono frantumate davanti alla volontà dei deputati Desus di far parte della nuova maggioranza. Quest’ultimi si sono affrettati ad avviare una trattativa autonoma con i socialdemocratici e si sono premurati di “consigliare” ripetutamente al loro presidente di accettare quanto gli veniva offerto. In questo contesto va precisato che dei 7 deputati del Desus, ben 5 non sono iscritti al partito e che tra gli eletti in parlamento non figura Erjavec.
Pahor, in ogni modo, avrebbe avuto la maggioranza anche senza i voti dei pensionati, visto che due formazioni che saranno all’opposizione, popolari e partito nazionale, avevano annunciato che l’avrebbero appoggiato. Gli unici a votare contro soni stati i democratici. “Il signor Pahor non ha mai cercato il nostro appoggio”, ha affermato il loro leader, il premier uscente Janez Janša. Il suo partito, comunque, risentito per non essere stato invitato ai colloqui sulla formazione del nuovo governo, ha nuovamente tirato in ballo gli spettri delle antiche divisioni della società slovena che risalgono al periodo della seconda guerra mondiale.
Con Borut Pahor il governo sloveno passa per la prima volta in mano ad un socialdemocratico, ovvero ad un membro del partito che fino al 1990 si chiamava Lega dei comunisti della Slovenia. Pahor ha iniziato la sua carriera politica nella seconda metà degli anni ottanta e nel 1990 era tra i membri della delegazione slovena che abbandonò il congresso della Lega dei comunisti della Jugoslavia. Fu quello il segno che la federazione si stava sfaldando.
Nel 1990 Pahor entrò per la prima volta in parlamento e in un partito in piena crisi d’identità, incominciando la sua scalata alla leadership. Tra il 1990 ed il 1997 la compagine cambiò ben quattro presidenti, poi toccò a lui. A molti sembrava la persona sbagliata nel posto sbagliato. Troppo elegante e forse troppo poco di sinistra, almeno per la base del partito e per il nocciolo duro del gruppo parlamentare. Pahor parlava di terza via e si ispirava a Tony Blair, ma pochi sembravano dargli retta. Intanto, però, volava negli indici di gradimento, mentre il partito restava al palo. Alla fine riuscì ad imporsi a tal punto da convincere i suoi compagni ad appoggiare l’ingresso della Slovenia nella Nato. Fu una vera e propria svolta per un partito che aveva sostenuto fieramente la neutralità della Slovenia.
Presidente del parlamento dal 2000 al 2004 la sua popolarità continuò a crescere, tanto che nel 2004 riuscì a farsi eleggere al parlamento europeo raccogliendo una marea di preferenze. Tutto ciò non bastò, però, a convincere i suoi ad avviare trattative con i democratici di Janša, che avevano offerto a tutte le forze politiche di entrare nel nuovo governo.
Nel 2007 la carriera di Pahor sembrava giunta ad una svolta. Tutto faceva presagire che si sarebbe candidato alle presidenziali con buone possibilità di vittoria. All’ultimo momento, però, è arrivata la rinuncia, per portare il partito alle elezioni politiche e per prendere in caso di vittoria le redini dell’esecutivo.
La mossa poteva sembrare azzardata, ma per gli eredi della Lega dei comunisti le cose erano cambiate. La Democrazia liberale, il partito che sino al 2004 aveva retto la Slovenia, si stava sfaldando. Alcuni membri del partito costituirono il movimento politico Zares, altri cercarono rifugio proprio tra i socialdemocratici. Una vittoria alle elezioni, insperata sino a pochi anni prima, adesso diventava possibile. Il partito però era cambiato e Pahor lo aveva lentamente modellato a sua immagine e somiglianza.
Il Pahor che si annuncia alla Slovenia è un capo del governo che punta sule larghe intese: “Abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. Una frase questa usata spesso in queste settimane e con cui ha chiuso il suo intervento alla Camera. Del resto questo, sino ad oggi, è stato il suo modo di operare. Il suo motto in questi anni è stato quello della ricerca del consenso e del dialogo tra le parti. Una pratica che, qualche volta, ha irretito persino i membri del suo partito. Con la sua elezione non si preannunciano, quindi, cambiamenti radicali. È stato lui stesso a precisare che su questioni strategiche non ci sono difformità di vedute con il governo uscente e non ci sono differenze quindi nemmeno per quanto riguarda la soluzione dei contrasti confinari con la Croazia. Un argomento che pesa ancora nelle relazioni tra i due paesi.
Il nuovo premier si presenta quindi come un uomo di dialogo. Un dialogo che, però, dovrà cercare innanzitutto all’interno della sua maggioranza. La lunga concertazione sul programma di governo ed il contenzioso legato alla nomina dei ministri ha fatto emergere che nel quadripartito ci sono differenze, che al momento nessuno ha voluto esasperare e soprattutto ci sono anche tante prime donne che bisognerà controllare.