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La neve nera

21.11.2008    scrive Azra Nuhefendić

Sarajevo, la Biblioteca
Sedici anni dopo il bombardamento, sono cominciati i lavori di restauro della Biblioteca di Sarajevo. Le autorità cittadine, tuttavia, hanno deciso di modificarne la destinazione d'uso. Storia di un palazzo simbolo di una città, e della sua distruzione
Buona notizia: stanno per restaurarla. Cattiva notizia, la stiamo perdendo di nuovo.

Il Consiglio municipale di Sarajevo ha deciso di iniziare il restauro della Biblioteca Nazionale e Universitaria, meglio conosciuta come la “Vijećnica”. Le autorità hanno stabilito che, in futuro, il palazzo non sarà più Biblioteca, come prima, ma sede degli uffici del sindaco e di altri burocrati municipali.

La Vijećnica è il simbolo della distruzione di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina. Custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, tra i quali 155.000 esemplari rari e preziosi e 478 manoscritti. Era l'unico archivio nazionale di tutti i periodici pubblicati in, o sulla Bosnia Erzegovina.

Dopo tre giorni di rogo, dalla Biblioteca bruciata sono rimasti solo lo scheletro di mattoni e dieci tonnellate di cenere.

“Una grande catastrofe culturale”, cosi il Consiglio di Europa ha definito la distruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. “La pazzia visibile”, così il quotidiano inglese "The Times" intitolava l'articolo sulla devastazione della Vijećnica.

Il 25 agosto 1992, poco dopo la mezzanotte, i nazionalisti serbi spararono le prime bombe incendiarie sulla Vijećnica dalle colline che circondano la città. La Biblioteca Nazionale fu bombardata per tre giornate intere. La precisione dei lanci non lasciava dubbio che il bersaglio fosse proprio la Vijećnica.

Il fuoco dei cecchini o delle armi antiaeree colpiva i vigili del fuoco, i coraggiosi bibliotecari e i volontari che avevano formato una catena umana cercando di salvare i libri. La giovane bibliotecaria Aida Buturović perse la vita in quell'occasione.

“Salvavano solo i libri degli autori musulmani”, affermò un tale Miroslav Toholj, scrittore di Sarajevo scappato a Belgrado.

Tre mesi prima della Vijećnica, i nazionalisti serbi avevano distrutto in modo identico l’Istituto Orientale a Sarajevo. Era la più grande collezione in Europa Sud-Orientale di manoscritti e testi rari, spesso documenti unici, in arabico, persiano o ebraico, che testimoniavano 500 anni di storia della Bosnia Erzegovina. Consapevoli di questa perdita erano soprattutto gli scienziati.

Ma quando bruciò la Biblioteca Nazionale, il dolore lo sentirono tutti i cittadini, compresi quelli che non avevano mai presso un libro in prestito dalla Vijećnica.

“Quel palazzo bellissimo, il simbolo della città, bruciava. E ho pensato che questa era proprio la fine. Presto, pensavo, ci sarà il nostro turno”, ricorda Zlata Huseinćehajić, una commessa.

Lo scrittore bosniaco Goran Simić guardava dalla finestra la Biblioteca in fiamme e, disperato, scriveva: ”Liberàti dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane Soyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov.“

Il violoncellista Vedran Smajlović
L’immagine-simbolo della distruzione della Vijećnica è quella del violoncellista Vedran Smajlović. Ha sfidato i barbari suonando nella Biblioteca distrutta. I giornalisti lo fotografavano. Smajlović ha smesso di suonare, per un attimo, per asciugare le lacrime. Finito il lavoro, i fotografi gli hanno detto: "Stop, basta, abbiamo finito". “Credevano che facessi finta di piangere per il servizio fotografico. Ma io piangevo davvero, per la disperazione”, ha raccontato poi Smajlović.

La Vijećnica era stata costruita nel 1894. E’ un palazzo maestoso, di stile pseudo moresco, realizzato dagli austro-ungarici che all’epoca governavano la Bosnia. L'edificio fu eretto ai piedi delle colline dove, nel Medioevo, nacque Sarajevo. La Vijećnica si pone in netto contrasto con le case piccole, le viuzze strette e tortuose della parte ottomana della città. Come se gli austriaci avessero voluto dire che, con quel palazzo, nasceva una città moderna e cominciava una nuova epoca.

Il progetto della Vijećnica fu affidato ad un certo Karl Paražik, ma al governatore austriaco a Sarajevo, Kalaj, il disegno non piacque. Incaricò un altro progettista, Alexander Witek. Quello, dicono, fu talmente preso e tormentato dall’impresa che prima di finire i lavori si suicidò. Fu Ćiril M. Iveković, architetto serbo-bosniaco, a finire i lavori. La Vijećnica fu ufficialmente aperta nel 1896.

Una delle ultime foto dell'Arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sophie fu presa proprio sulla scala esterna della Vijećnica, il 28 giugno 1914. Poco dopo, furono uccisi.

L'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia mentre escono dalla Biblioteca, il 28 giugno 1914
Quella foto fa anche parte della storia della mia famiglia. La zia materna, Emla, era la ragazza che, vestita in costume nazionale, in quell'occasione consegnò i fiori agli ospiti. Il fatto non fu molto pubblicizzato e nessuno in famiglia se ne vantava, visto che fine aveva avuto la visita reale a Sarajevo e le conseguenze che l’assassino dell'Arciduca avevano avuto per tutto il mondo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la Vijećnica diventò sede della Biblioteca Nazionale e Universitaria. Ci hanno studiato intere generazioni di studenti provenienti da Sarajevo, dal resto della Bosnia Erzegovina e da tutta la Jugoslavia. Ci sono passati anche tanti scolari che arrivavano da Paesi poveri e lontani. Arrivavano a Sarajevo sostenuti dal governo jugoslavo, in omaggio alla solidarietà con i Paesi non allineati.

L’aula principale della Vijećnica era enorme, sembrava un salotto reale, o una grande chiesa trasformata in sala di lettura. Le finestre alte, di vetro intarsiato, davano sul fiume Miljačka e sul monte Trebević.

Dentro c’erano file di panchine, sedie e scrivanie di legno massiccio. Emanavano un odore misto di polvere, anni passati e del grasso che si usava per conservare il legno. Ci si entrava con cautela, in silenzio, con il fiato sospeso, cercando di attutire il rumore dei propri passi. L’importanza del posto proveniva dalla bellezza e grandiosità del palazzo e dal fatto che, da noi, il libro era considerato un oggetto sacro.

Siamo stati educati, in famiglia, a scuola e nelle varie associazioni, a considerare il libro come “il migliore amico”. Le biblioteche erano ovunque, si facevano le gare per stabilire chi aveva letto di più.

Ancora oggi ricordo il mio primo libro nuovo. Me l'hanno comprato quando ero in seconda elementare. Tutti gli altri erano di seconda mano, o ereditati dalle sorelle più grandi. Tuttora posso rievocare l’odore della stampa fresca, le pagine lisce e satinate che sfogliavo delicatamente, per non rovinarle. Per lungo tempo quel libro è rimasto l’oggetto più prezioso che avevo.

Alla Vijećnica c'era un'atmosfera affascinante. Ci piaceva l’ambiente, ci dava la sensazione di far parte di un mondo importante, saggio, e bello. Da là, eravamo convinti, si aprivano le porte dell’ignoto, diverso, lontano, insomma, tutto quello che poteva essere il futuro migliore. Era il luogo dove nascevano e si sviluppavano le simpatie, gli amori e le passioni non solo per la conoscenza o per il sapere, ma anche per un'altra persona.

Là iniziavano le nostre paure per il prossimo esame, si progettavano le battaglie, si pianificavano le sfide, si pronunciavano le promesse, a se stessi e agli altri. E’ là, in un piccolo bar, gestito dalla signora Alema, che festeggiavamo i successi, o ci consolavano, quando le cose non andavano proprio come avevamo sperato.

Alla Vijećnica a volte si andava anche solo per riscaldarsi, perché tanti non avevano il riscaldamento a casa propria.

Anche per quelli (rari) che non avevano mai messo piede alla Vijećnica, il posto era importante. Ci si andava per fare le foto espressive, o per vantarsi davanti agli amici che venivano a visitare la città. Le cartoline di Sarajevo portavano la sua immagine con la scritta obbligatoria “Saluti da Sarajevo”. Per tutte queste ragioni, e per quelle intime mai pronunciate, la distruzione della Vijećnica fu vissuta come “la fine del mondo”.

“Tuta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo giù come neve nera. Afferrandola, per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”. Così ricorda quei giorni il bibliotecario, dr. Kemal Bakaršić.

Non eravamo preparati per la guerra, ma neanche per i vari furbacchioni che usavano la nostra tragedia.

La distruzione della Vijećnica fu considerata un crimine contro l’umanità. Già nel 1993 in tanti, nel mondo, si sono messi a raccogliere i soldi per ristrutturarla. Anche in Italia furono raccolti dei fondi. Il professor Boro Pištalo, direttore della Vijećnica, fu evacuato da Sarajevo e ospitato in Slovenia. Ma, ahimé, né il direttore né nessuno a Sarajevo videro mai un centesimo.

Sconfitto e deluso, il direttor Pištalo si trasferì a Belgrado. Non fu benvenuto. Lo trattavano come uno che si era messo solo in ritardo dalla parte dei “patrioti”. A Sarajevo, invece, lo accusavano di aver rubato i soldi raccolti per la Vijećnica e di essere diventato un “ćetnik” (nazionalista serbo).

Tra gli amici, a Belgrado, abbiamo raccolto un po' di vestiti per il professor Pištalo. Uno riuscì a sistemarlo in una casa di riposo. Venne a trovarmi per prendere della roba. Aveva addosso un maglione consumato e troppo grande per la sua statura. Lo guardavo e mi vergognavo per quello che avevano fatto altri. ”Ma chi sei tu, una nessuna, che raccoglie le briciole per un professore universitario, il direttore della Vijećnica, fedele amico di famiglia” pensavo, sentendomi miserabile.

Ho girato la testa per non fargli vedere che stavo piangendo. “Dai, su, mala (piccola)”, mi disse con finta autorità. Lo guardai. Piangeva pure lui, e con la manica del maglione si asciugava le lacrime. “Beviamoci qualcosa”, propose.

Quella volta non fu né la prima né l'ultima che, con un bicchiere di vodka, aprivo le porte al dolore e all’impotenza davanti all’ingiustizia, alla rabbia e alla vergogna.

Qualche giorno fa, le autorità di Sarajevo hanno annunciato che la Commissione Europea ha donato un milione di Euro per il restauro della Vijećnica. Anche la Spagna, l'Ungheria, il Montenegro, la Slovenia, l'Austria, l'Albania, Cipro, la Croazia e altri Paesi e organizzazioni internazionali hanno messo soldi per riportare l’antico splendore alla Vijećnica.

Eppure, non mi entusiasma la notizia.

A Sarajevo e in Bosnia Erzegovina, dopo la guerra, si sono affrettati a ricostruire molte chiese e moschee rovinate; hanno edificato centinaia di nuovi posti di culto per tutte le religioni; hanno costruito grattacieli di vetro e cemento dove una volta c'erano piccole case famigliari, enormi centri commerciali crescono come l’erbaccia.

In tutti questi anni, dopo la guerra, i politici non hanno mai considerato la Vijećnica come una priorità. E adesso, la vogliono solo per se.
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