“Una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale”, diceva De André. Così è stato per la morte di Ismet Bajramović “Ćelo”, il capo dei capi della mafia sarajevese, comandante militare durante la guerra, sfuggito ad un attentato che lo aveva lasciato con gravi problemi al cuore. Nel pomeriggio di mercoledì 17 dicembre iniziano a circolare le notizie. È morto Ćelo! Di overdose... No, si è sparato!
Secondo le notizie si sarebbe rinchiuso nel suo appartamento e avrebbe chiamato il fratello che, arrivato sul posto, avrebbe sentito lo sparo. Intanto sui forum internet si aprono pagine di fans per “l’ultimo saluto”, con centinaia di messaggi; tantissimi giovani salutano commossi “la leggenda”, “un grande uomo”, “babuka” il “babbo”, come viene più spesso chiamato. Dall’altra parte c’è anche chi esprime soddisfazione per un altro criminale e profittatore di guerra che se ne va. La verità è che Bajramović era un boss in declino, negli ultimi mesi si era ritirato, inseguito dai debiti, indebolito dai problemi al cuore e dalla dipendenza dalla cocaina. La sua morte, in qualche modo, era attesa.
Ismet Bajramović “Ćelo”
Nato nel 1966, Bajramović aveva cominciato come piccolo pusher di Sarajevo, passato poi alle rapine negli appartamenti e condannato infine per uno stupro particolarmente odioso. Mentre sta scontando 11 anni nel carcere di Zenica, scoppia la guerra e la condanna viene sospesa. Come altre figure della mala cittadina, Bajramović mette al servizio della difesa della città i suoi uomini e le sue armi, che si rivelano una forza di azione efficace, ma che porta con sé anche metodi discutibili. Assieme a personaggi come Musan Topalović “Caco”, Jusuf Pranzina “Juka” e Ramiz Delalić “Ćelo”, anche “Ćelo” Bajramović viene inquadrato nell’Armija bosniaca, diventando comandante della polizia militare.
Nel 1993, durante un attentato, viene colpito al cuore. C’è chi dice che fu lo stesso governo della novella Repubblica di Bosnia Erzegovina a cercare di levarselo di torno. Ismet “Ćelo” viene ricoverato dapprima all’ospedale di Koševo, con gli onori di un capo militare, e poi in gran segreto viene trasferito ad Ancona per essere nuovamente operato con un foglio di evacuazione, pare, firmato dallo stesso Radovan Karadzić.
Nel 1997 torna a Sarajevo, e c’è chi si aspetta una lotta con i nuovi leader del mercato della droga, prostituzione e racket, tutti ex comandanti durante la guerra.
Secondo i resoconti del settimanale “Dani”, uno dei più attenti alla criminalità organizzata, si tratta Naser Orić a Tuzla, Bakir Handanović a Zenica, Zijo Orucević a Mostar e Hamdija Abdić Tigar a Bihać.
Bajramović riuscirà a farli lavorare insieme, costituendo la prima “Cosa Nostra” bosgnacca che, apparentemente, vanta anche forti protezioni tra le più alte cariche della polizia.
Ismet Bajramović sarebbe stato vicino ad Alija Izetbegović, al figlio Bakir ed in generale al partito nazionalista SDA (Partito di Azione Democratica), e per questo protetto in molte occasioni. Nel 2001 però, nel corso di in un processo definito storico, smette di essere intoccabile e viene condannato a 20 anni per l’omicidio di Rahaman Ajdarparšića, un criminale a lui rivale. Condanna cancellata clamorosamente da un secondo processo nel 2004.
In ogni caso Bajramović un po’ di prigione se la fa, cosa che incide sul suo morale e sulla sua salute. Quando esce in pratica si ritira dalla maggior parte dei traffici dell’underground cittadino.
Le cose cambiano poi rapidamente: dopo la fuga di Ramiz Delalić “Ćelo” in Turchia, c’è chi ne approfitta per riempire la piazza del racket, come i fratelli Aziz e Mahmud Ali Gaši e Naser Keljmendi, “gli albanesi” (i Gaši sono nati a Sarajevo, ma di famiglia albanese). Lo scontro aperto è a questo punto tra Ramiz Delalić e Ali Gaši. Ismet “Ćelo”, intanto, conduce una vita splendente tra i locali alla moda e il gioco. Al casinò di Sarajevo, il Colosseum, perde cifre astronomiche, si parla di 250 mila euro in una serata, tanto che negli ultimi mesi gli sarà proibito l’ingresso a causa delle sue escandescenze.
Ramiz Delalić viene infine ucciso nella primavera del 2007, ma è ormai impensabile che Bajramović reagisca in qualche modo: deve soldi a mezzo mondo per il gioco e la cocaina. Soprattutto a Mahmud Ali Gaši che, in una telefonata, ripresa da tutti i media nazionali, lo deride come un poveraccio che viene sempre a bussare alla sua porta per chiedere soldi. La telefonata, secondo molti, è uno dei motivi che lo avrebbero portato a togliersi la vita. Oltre ai problemi al cuore, che lo costringevano ancora a lunghe degenze in ospedale, e alla morte della sorella, a lui molto cara, un mese fa.
Ma cosa succederà ora a Sarajevo? La geografia della criminalità è nuovamente cambiata. Delalić è morto, ora anche Bajramović, Mahmud Ali Gaši e il fratello Aziz sono stati arrestati (gennaio 2008), e in ottobre anche Naser Orić è stato incarcerato.
“La domanda vera è: come mai ora riusciamo a processare i fratelli Gaši?”, ci dice una fonte che segue da vicino i processi ma che non vuole essere identificata. “Il vento sembra cambiato e lo si vede dal numero dei testimoni, che si presentano spontaneamente e molto più numerosi”.
Probabilmente questa è una conseguenza anche dell’omicidio di Delalić, di cui secondo le accuse i Gaši sarebbero i mandanti. “Ci sono due possibilità per motivare questo cambiamento – continua la nostra fonte – o la gente non ne può davvero più e le autorità giudiziarie vanno avanti grazie a questa ondata di sostegno, oppure il loro mentore più influente, Keljmendi, li ha abbandonati perché troppo rumorosi e troppo fastidiosi, per lui che ora è nel grande business”.
Naser Keljmendi è un uomo al cui nome le polizie dei Balcani sembrano tremare.
“Si dice che Keljmendi si sposti con i confini dell’Europa – dice Vildana Selimbegović, direttrice di Oslobodjenje. Prima era in Slovenia e, quando questa è entrata in Europa, lui è venuto in Bosnia Erzegovina”.
Conosciuto come proprietario, ad Ilidža, di Casa Grande, protagonista al fianco dei Gaši di una sparatoria stile gangster all’Holiday Inn nel 2004, l’albanese Keljmendi è diventato adesso un intoccabile.
“Non si trova uno straccio di prova a suo carico”, dice la nostra fonte. “Adesso è un rispettabile businessmen coinvolto in grandi opere di costruzione”.
Com’è possibile questo cambiamento?
“Lo chieda ai nostri vicini – risponde la Selimbegović indicando la sede del quotidiano Dnevni Avaz, di proprietà del magnate Fahrudin Radončić – visto che pare che Radončić guidi la macchina blindata di Keljmendi. Lo ha scritto il Dani – aggiunge – e non è stato smentito. Il problema vero non sono i vari gruppi mafiosi – continua la giornalista – bensì i politici che ostentatamente li proteggono. I partiti nazionalisti, sia in Federazione che in Republika Srpska sono quelli che si appoggiano di più alla mafia locale”.
Esiste, secondo alcuni, una sorta di “sistema” del partito nazionalista SDA: da una parte si mantiene il legame con la malavita più violenta, prima Bajramović e ora Gaši (è stata pubblicata di recente una telefonata tra uno degli uomini più vicini a Bakir Izetbegović e M. Ali Gaši che, dal carcere, progettava di far violentare la figlia di uno dei capi della polizia), dall’altra con uomini d’affari molto potenti e a loro volta legati alla mafia locale.
Il riferimento più evidente è quello al tycoon Radončić, che ha dichiarato in un’intervista di aver ricevuto il suo primo milione proprio dall’SDA, e di averlo restituito una volta che ne aveva guadagnati svariati altri. Ad ognuno la sua parte: il traffico di droga e della prostituzione, che vede la BiH su una delle “vie” principali verso l’Europa, il business e il potere politico.
“Io sono d’accordo con quello che disse una volta Branko Perić, capo dei procuratori della BiH – conclude la Selimbegović. Ogni Stato ha la sua mafia, ma in Bosnia Erzegovina la mafia ha il suo Stato”.