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Il primo giorno di Obama alla Casa Bianca e la speranza di un nuovo corso nei diritti umani dopo l'era Bush. Il caso dei “sei algerini”, sequestrati a Sarajevo nel 2002 e internati per 7 anni a Guantanamo. La riflessione dell'ex Alto Rappresentante Wolfgang Petritsch
Oggi Barak Obama, 44simo presidente degli Stati Uniti, si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca. Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal New York Times, in questa stessa giornata verrà ordinata la chiusura di Guantanamo, il carcere simbolo della violazione dei diritti umani nell'era Bush.
Il direttore di Human Rights Watch, Kenneth Roth, nel presentare il
Rapporto 2009 dell'organizzazione ha dichiarato che “per la prima volta da circa un decennio gli Stati Uniti hanno la possibilità di recuperare la propria credibilità internazionale, voltando pagina rispetto alle politiche di abuso dell'amministrazione Bush”.
Un'ampia parte del rapporto è dedicata agli Stati Uniti (
I disastrosi anni di Bush), considerati responsabili del deterioramento dello stato dei diritti umani nel mondo per aver abdicato al proprio ruolo in questo campo, avendo utilizzato strumenti quali la tortura, la “sparizione” dei sospetti in luoghi segreti di detenzione e per aver incarcerato persone per anni senza processo a Guantanamo. Il rapporto conclude chiedendo al presidente Obama, tra le altre cose, di “chiudere Guantanamo […], rimpatriare o processare tutti i detenuti assicurandosi che i processi vengano condotti in tribunali regolari.”
A Guantanamo ci sono 248 prigionieri. I primi vi sono arrivati esattamente sette anni fa, nel gennaio 2002. Nonostante le buone intenzioni enunciate dalla nuova amministrazione, l'operazione di chiusura del campo potrebbe rivelarsi lunga, e complicata: “E' più difficile di quanto molti non credano” – ha dichiarato Obama al canale televisivo ABC l'11 gennaio scorso.
Il caso dei cosiddetti “6 algerini”, catturati dalle forze americane in Bosnia Erzegovina nel 2002 e deportati sull'isola cubana, è un esempio di queste difficoltà.
La storia inizia a Sarajevo, Zenica e Bihać nell'ottobre del 2001. Su segnalazione dell'Ambasciata americana gli uomini – di origine algerina ma immigrati in Bosnia e con passaporto bosniaco - vengono arrestati dalle autorità locali, accusati di preparare un attentato contro le sedi diplomatiche statunitense e britannica. Per tre mesi sono trattenuti dalla giustizia bosniaca, mentre vengono svolte le indagini su di loro. La Corte Suprema della Bosnia Erzegovina li giudica infine innocenti, ordinandone il rilascio. Subito dopo la loro liberazione, tuttavia, vengono prelevati dalle forze americane, presenti nel Paese dalla firma degli accordi di Dayton, e trasferiti a Guantanamo.
Sei anni più tardi, nel giugno del 2008, una decisione della Corte Suprema statunitense permette ai detenuti di presentare istanza di fronte ad un giudice civile contro l'incarceramento. I “6 algerini” fanno ricorso. Il 20 novembre, nella prima decisione di questo tipo sulla legittimità della detenzione dei cosiddetti “combattenti nemici”, il giudice federale Richard Leon, a Washington, ordina la liberazione di 5 dei 6. Secondo il giudice, tranne che in un caso – contestato dagli avvocati della difesa - le prove presentate non erano credibili. E' stato un errore.
L'ambasciatore Wolfgang Petritsch, oggi a capo della missione diplomatica austriaca presso l'OCSE e presidente del comitato consultivo del
CEIS, ha seguito tutta la vicenda: “Quando sono avvenuti quei fatti, all'inizio del 2002, io ero Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina. Non ho potuto impedire quanto stava avvenendo ma, proprio in virtù dell'incarico di responsabilità che ricoprivo in quel momento nel Paese, questa per me è sempre stata una questione molto importante. L'ho portata all'attenzione del Parlamento Europeo e ho sostenuto il ricorso giudiziario dei sei, aiutato dall'intervento di un gruppo di legali a Boston. Non l'ho fatto perché ritenessi che fossero innocenti, ma perché credevo dovessero godere degli stessi diritti di qualsiasi altra persona. Se vogliamo aiutare la Bosnia a diventare un Paese pienamente democratico, come era nelle intenzioni degli Accordi di Dayton, dobbiamo attenerci strettamente ai principi della democrazia e legalità”.
In quel momento, pochi mesi dopo l'attacco alle Torri Gemelle, né l'Alto Rappresentante della comunità internazionale, né l'allora capo del governo bosniaco, Zlatko Lagumdzija, poterono opporsi alla deportazione dei sei, nonostante la pronuncia della Corte Suprema Bosniaca. “Al tempo – continua Petritsch - il governo bosniaco non era nelle condizioni di resistere alle richieste degli Stati Uniti, che in pratica avevano minacciato di ritirare ogni sostegno alla Bosnia qualora i sei non fossero stati consegnati. Questa è la stessa ragione per cui anche io non ho potuto intervenire. Lagumdzija era nella mia stessa posizione. Si trovava di fronte allo stesso rischio.”
- Quale?
- Che gli Stati Uniti si ritirassero dalla Bosnia Erzegovina. Questo nel 2002 avrebbe significato un'enorme perdita, in particolare sotto il profilo della sicurezza del Paese, una perdita che io non potevo rischiare.
Circa un mese fa, il 16 dicembre, tre dei cinque algerini prosciolti hanno potuto fare ritorno a Sarajevo. Gli altri tre restano a Guantanamo. Oltre a quello per cui il giudice ha ritenuto valide le prove a carico, rimangono nel campo di prigionia anche i due considerati innocenti. Rappresentano il tipo di problemi che si trova ora a dover affrontare l'amministrazione Obama.
I sei erano entrati in Bosnia durante la guerra, fermandosi poi a vivere nel Paese dopo essersi sposati con donne bosniache. Ora però, dopo 7 anni di Guantanamo, non tutti, in Bosnia, li attendono a braccia aperte. Già un mese fa i servizi di sicurezza bosniaci (OSA) si erano opposti alla decisione del governo di accettare il ritorno dei primi tre, sostenendo che potrebbero rappresentare un pericolo. Gli altri due nel frattempo hanno perso la cittadinanza bosniaca, e la loro situazione è quindi ancora più complicata. Nel Paese di origine (Algeria) non possono rientrare perché la loro sicurezza, secondo alcuni, non sarebbe garantita.
Per uscire in qualche modo dalla vicenda a questo punto sono gli americani che hanno bisogno di aiuto: “La Bosnia Erzegovina può dare una mano nella soluzione della questione, così come si sono offerti di farlo Paesi come la Germania o il Portogallo, che hanno dichiarato di poter accogliere alcuni degli ex prigionieri di Guantanamo - aggiunge Petritsch. Credo che sarebbe un gesto molto positivo da parte della Bosnia accettare anche gli altri due, nonostante formalmente non siano più cittadini bosniaci, aiutando così gli Stati Uniti che in questi anni hanno fatto molto per quel Paese.”
Ma davvero questi uomini rappresentano una minaccia? Nonostante sia stato definitivamente chiarito che erano innocenti, qualcuno sostiene che, proprio per essere stati tenuti quasi 7 anni in condizioni dure e disumane nel campo di Guantanamo, sono ora a rischio di essere arruolati dagli estremisti. Un bel risultato della guerra al terrore dell'amministrazione Bush, in ogni caso.