L'8 febbraio la Svizzera deciderà con referendum se confermare o meno gli accordi sulla libera circolazione delle persone con l'UE, estendendoli a Bulgaria e Romania. Per i due paesi balcanici il voto, soprattutto se negativo, sarà misura del grado di solidarietà europea
Su due paesi balcanici, Bulgaria e Romania si giocherà tra pochi giorni il futuro delle relazioni tra la Svizzera ed Unione europea: il prossimo 8 febbraio il popolo svizzero sarà chiamato a decidere con un referendum se confermare o meno gli attuali accordi sulla libera circolazione delle persone, estendendoli agli ultimi due paesi entrati nell’Unione europea.
Era previsto dagli accordi Svizzera-UE sulla libera circolazione delle persone (firmati nel 1999) che due anni dopo l’entrata in vigore degli stessi il popolo potesse confermarli o meno. Gli accordi sono diventati pienamente operativi nel 2007 per i cittadini dei quindici “vecchi” membri dell’ Unione, da qui dunque il primo voto.
Nel frattempo l’Unione si è allargata e Berna ha dovuto negoziare con Bruxelles l’estensione degli accordi esistenti, prima ai dieci paesi entrati nel 2004 e poi a Romania e Bulgaria. Come per ogni progetto di legge o decreto del governo, anche sulle ratifiche dei trattati internazionali (e dei protocolli che li modificano) è facilissimo indire un referendum: basta raccogliere 50mila firme, in un paese di 7,2 milioni di abitanti.
La destra anti-europea e l’estrema sinistra - che considera la libera circolazione un attacco all’interesse dei lavoratori – hanno già tentato senza successo questa strada nel 2005, in occasione dell’estensione ai dieci nuovi membri. Ora ci riprovano, invitando – nel caso della destra isolazionista – a votare sì agli accordi esistenti (i cui effetti si sono rivelati complessivamente positivi e comunque non catastrofici) ma no alla loro estensione a Romania e Bulgaria.
Il fronte del sì fa notare che si tratta di una distinzione impraticabile, giacché l’Unione non accetterà mai che si facciano discriminazioni tra i membri, cosi come la Svizzera non ammetterebbe discriminazioni tra i propri cantoni. Nonostante l’impegno sul fronte del doppio sì da parte del governo federale, dei cantoni, di molti partiti, del mondo economico e di buona parte di quello sindacale gli ultimi sondaggi danno ai favorevoli solo un leggero vantaggio. Il risultato finale, in altre parole, resta aperto.
La vittoria del no è praticamente certa nel Canton Ticino, dove la disoccupazione è tra le più alte di tutta la Svizzera e il divario salariale con il paese confinante - l’Italia - è il più elevato. Ma la battaglia non sarà facile nemmeno a Ginevra, dove gli elettori saranno chiamati a fare la sintesi tra il loro europeismo e il timore del dumping salariale (con il Ticino Ginevra ha in comune un’ alta disoccupazione ed un numero elevato di lavoratori frontalieri). La crisi finanziaria, che si fa sentire anche nella Confederazione, ovviamente non aiuta, cosi come non hanno aiutato le polemiche italiane su rom e romeni e gli episodi di criminalità che ne hanno visti alcuni protagonisti.
Prima di aprire completamente il proprio mercato del lavoro a bulgari e romeni la Svizzera si avvarrà – come fece per gli UE15 e sta facendo per gli UE10 - di un periodo di transizione, durante il quale i flussi di lavoratori dovranno sottostare ad un tetto massimo annuo di permessi, predeterminato e crescente. La libera circolazione totale, in altre parole, scatterà solo dopo il 2015 (2012 per gli UE10), salvo anticipazioni che appaiono improbabili.
Inoltre la Svizzera non è meta tradizionale per i cittadini di questi paesi. Se si escludono gli italiani – la comunità più numerosa, ma ormai cosi radicata da non essere quasi più oggetto di dibattito - la maggioranza degli stranieri in Svizzera proviene dai Balcani occidentali, cioè da Stati che non fanno (ancora) parte dell’Unione. Si tratta in primo luogo di albanesi del Kosovo e serbi, seguiti da croati e bosniaci.
Nonostante la reputazione xenofoba, la Svizzera è uno dei paesi europei con il maggior numero di stranieri residenti: all’incirca uno su tre. Non fa parte dell’Unione, ma verso di essa esporta il 50% delle proprie merci e ne importa l’80%. Berna ha accesso a buona parte del mercato interno europeo e ne finanzia lo sviluppo con contributi alle regioni povere dei nuovi stati membri (ma senza far passare i soldi dalle casse della Commissione).
Nella Confederazione un posto di lavoro su tre è legato all’Unione europea, ma la prospettiva di un’adesione vede contraria la maggioranza della popolazione, che nel 1992 ha anche respinto l’ ipotesi di aderire allo spazio economico europeo, quel cerchio allargato di cui fanno parte invece paesi come Norvegia e Islanda.
I rapporti con Bruxelles sono retti da una ragnatela sempre più fitta di accordi bilaterali. Una ragnatela che quasi certamente si disferà se l’8 febbraio dalle urne non uscirà un doppio sì, riportando indietro di oltre 15 anni l’orologio del buon vicinato. Alcuni accordi verrebbero a cadere in modo automatico perché legati da una clausola detta “della ghigliottina”. Altri, come l’adesione allo spazio Schengen, pur giuridicamente ammissibili diventerebbero difficilmente applicabili.
Questo almeno è quanto afferma la Commissione europea, ed è inutile dire che una parte di queste minacce finisce per sortire l’effetto contrario, convincendo gli isolazionisti della necessità di dare una lezione all’arroganza di Bruxelles.
Anche l’Unione trae grossi benefici dalle relazione con la Svizzera, stracciarla non sarebbe un’operazione indolore. Bruxelles, d'altra parte, non potrebbe accettare uno sgarbo a due membri di pieno diritto. Il governo bulgaro, en passant, ha fatto sapere di considerare la libera circolazione più che altro una questione di principio, visto che nella realtà non sono molti quelli che vogliono ancora emigrare, e ancor meno in Svizzera. Al contrario, i lavoratori cominciano a tornare indietro e Sofia spera che siano sempre di più, specie se si tratta di mano d’opera qualificata. La risposta di Bruxelles ad un eventuale no elvetico dovrebbe dunque dare a Romania e Bulgaria tutta la misura della solidarietà europea.
L’autore è corrispondente della radiotelevisione svizzera di lingua italiana a Bruxelles ed è stato, negli anni novanta, corrispondente dai Balcani. Le considerazioni qui espresse sono formulate a titolo personale