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Un villaggio di donne nella Bosnia orientale, poco dopo la fine della guerra. L'identità, la terra, gli scomparsi. Intervista con Aida Begić, regista di "Snijeg", il film bosniaco premiato al Trieste Film Festival
Questa intervista è stata pubblicata sul settimanale Alias - Il Manifesto
Vincitore della Semaine de la critique al Festival di Cannes, film d’apertura a Sarajevo, premiato all’appena concluso Trieste Film Festival. “Snijeg - Neve”, opera prima della bosniaca Aida Begić dopo alcuni premiatissimi cortometraggi è tra i film sorpresa dell’ultima annata. Una storia tutta al femminile in un isolato villaggio della Bosnia orientale nel 1997, poco dopo la pace di Dayton. Ne abbiamo parlato a Sarajevo con la regista, che indossa il velo come la protagonista e quando parla della sua scelta riesce quasi a essere convincente.
Aida Begić, lei che è di Sarajevo come mai ha scelto un villaggio di campagna per il suo esordio nel lungometraggio?
“Non ho nessun legame con i villaggi. E prepararsi a girare un film là è stata una grande avventura. Mi sembrava che questo isolamento sostenesse la storia, aggiungesse qualcosa alle relazioni tra le persone. Solo gli elementi esterni rompono l’atmosfera chiusa. Le donne del villaggio sono isolate nel dolore e nei problemi che vivono e l’isolamento geografico è metafora di ciò”.
È un villaggio di donne. Gli unici uomini sono un anziano e un bambino muto.
“In tanti paesi, come Srebrenica, le donne sono rimaste senza uomini. Avevano sempre vissuto in una società patriarcale e per loro è stato uno shock: all’improvviso si sono trovate a gestirsi le proprie vite da sole. Un fatto che le ha portate avanti di due secoli rispetto alla vita che conducevano. Questo era molto interessante”.
La macchina da presa è sempre a mano, vicina ai personaggi. Come avete lavorato?
“Ho lavorato molto con il direttore della fotografia Erol Zubcević per sviluppare un approccio quasi documentaristico con la macchina a mano e la luce naturale. Volevo raggiungere la poesia che è parte del mondo dei personaggi e conciliarla con il realismo e il naturalismo. Volevo lasciare gli attori liberi dalle cose tecniche, lasciarli recitare, non spingerli con la camera”.
E gli attori?
“Sono tutti attori professionisti, tranne i bambini. Sono per lo più attori e attrici di teatro, solo alcuni avevano già recitato per il cinema. È stato un rischio per me dirigere 15 attori quasi senza esperienza, ma sono soddisfatta”.
“Snijeg” è una coproduzione con Francia, Germania e Iran. Non c’è il rischio che i coproduttori influenzino troppo i film o che i registi bosniaci propongano storie come se le aspettano i coproduttori occidentali e i festival?
“Le coproduzioni possono influenzare molto un regista. Con Elma Tataragić, cosceneggiatrice e produttrice, abbiamo prodotto il film in modo da essere indipendenti. Abbiamo scelto coproduttori che ci lasciassero libere. Avevamo avuto un’esperienza con un produttore francese che voleva influenzare la storia e abbiamo preferito farne a meno. Volevamo persone che avessero fiducia in noi, ci dessero libertà e avessero voglia di lavorare con noi. Ho visto qui e altrove film fatti per gli stranieri ma non mi piace come approccio. Possono anche avere successo, ma non penso siano onesti o che resteranno nella storia del cinema. Il pubblico occidentale vuole vedere solo certe cose e alcuni registi lo accontentano. La mia è una storia intima bosniaca che sono sicura comunica con tutto il mondo, perché è universale”.
Alla fine le donne non vendono i terreni e restano al villaggio. Il messaggio è restate in Bosnia e lavorate per farla crescere?
“Il messaggio è lottare per la libertà, che per me significa possibilità di scegliere. Se decidi di andartene, va bene. Posso immaginare che le donne se ne vadano dal villaggio ma per scelta, non per costrizione. Questo è valido ovunque. Oggi è frequente il dilemma di scegliere qualcosa che asseconda il materialismo ma ci fa perdere qualcosa di noi”.
Tra i momenti più belli del film ci sono le filastrocche e i giochi delle bambine.
“Le bambine sono tutte di talento. Ho lavorato molto con loro, ho fatto in modo che si fidassero di me. Gli ho chiesto di mostrarmi i loro giochi e cantarmi le loro canzoni senza fargli leggere la sceneggiatura, volevo fossero naturali. La bambina bionda ha cantato una canzone che ha composto lei stessa. Nei villaggi i bambini si creano un loro mondo con i giochi, non ci sono videogiochi”.
La protagonista Alma indossa il velo a differenza delle altre donne.
“Il suo velo è una dichiarazione. Lei non indossava il velo prima della guerra. Dopo la guerra ha scoperto il senso della religione come senso della vita. E le dà una particolare forza nell’essere diversa. Alma è fredda e chiusa verso il mondo, ma dentro è l’opposto, è bella, femminile, viva. Per questo nella scena del sogno mostro il suo mondo interiore. Ci sono pregiudizi verso le donne che indossano il velo. Lei sa cosa vuole, è una business woman. Invece le donne velate sono tutte considerate oppresse da qualcuno. La gente non pensa che ti puoi mettere il velo per scelta. Non accettano che le donne velate lavorino o siano parte attiva della società. Ciò accade perché si è persa una parte del dialogo, non c’è comunicazione e ciò crea fraintendimento. La gente ha un’idea sbagliata, creata dai media, delle donne mussulmane oggi”.
Anche lei indossa il velo.
“Tutto questo riguarda anche me. Nel 2003 ho deciso di indossarlo e ho attraversato un’esperienza di trasformazione. In modo quasi inconscio ho deciso di metterlo. Alma ha delle cose di me, ma non è un mio alter ego. Ho messo parti di me anche in altri personaggi”.
Com’è arrivata al velo. La sua è una famiglia religiosa?
“Non sono cresciuta in una famiglia religiosa, neppure i miei nonni erano praticanti. Il mio è stato un viaggio personale sul significato della vita, su cosa c’è dopo la morte. Mi sono fatta delle domande, ho incontrato tante religioni. Ho trovato tutte le risposte nell’Islam e i significati del velo. Da quando l’ho scelto la mia vita è molto migliore”.
Ad esempio?
“Per me una donna è segreto, un mistero e deve restare così. Il segreto dev’essere coperto. Se sei una donna giovane sei guardata come un pezzo di carne. È difficile far capire che non sei un oggetto di desiderio ma hai delle idee. Il velo cambia i rapporti della gente verso di te, taglia via tutto e mostri la personalità. Anche se qualcuno pensa che sei ritardato e devi lottare contro il pregiudizio di chi pensa che devi stare a casa. Sto meglio così, è una protezione per me come donna, sono padrona del mio corpo. Non lascio che chi non voglio veda o parli del mio corpo. Mi sento più libera”.
A Sarajevo le donne scelgono il velo o gli viene imposto?
“Per quel che ne so, il 99% lo sceglie. Non ci sono più i genitori che ti forzano. Oggi è l’opposto. I miei sono contro. I nostri genitori sono cresciuti con il comunismo e non accettano il velo. Hanno paura che sei trattata male perché lo indossi”.
Ha mai avuto problemi nel mondo del cinema per il velo?
“Per la gente è strano che una regista indossi il velo, ma non ho mai avuto problemi. Se sei seria e hai una bella storia, la gente ha fiducia”.
E il cinema bosniaco che vince sempre premi?
“Non facciamo abbastanza film per poter dire che il cinema in Bosnia cresce. Nel 2007 ne è stato prodotto uno solo. I premi che arrivano sono solo un caso. Parliamo di pochi registi, che sono bravi, ma ancora non consentono di parlare seriamente di un cinema bosniaco”.