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Un film di quasi tre ore, presentato al Festival di Locarno e poi a Torino. Una serie di incontri tra Sarajevo, Srebrenica e Tuzla. Un'intervista a Daniele Gaglianone che ne ha curato la regia. Esce in contemporanea su Alias
La Bosnia è uno dei luoghi prediletti dai documentaristi italiani alla ricerca di un esotismo facile, a portata di mano. Tanti lavori che però riescono raramente ad andare sotto la superficie, oltre il già noto. E tantomeno a raccontare com’è la piccola repubblica spezzata in due 13 anni dopo la fine della guerra. Tra le eccezioni c’è “Rata nece biti” di Daniele Gaglianone, uno dei nostri registi più interessanti (“I nostri anni”, “Nemmeno il destino” e tanti documentari). Un film di quasi tre ore, presentato al Festival di Locarno e poi a Torino dove ha ricevuto una menzione nel concorso italiano, diviso in incontri con diverse persone tra Sarajevo e dintorni, Srebrenica e Tuzla. Ne abbiamo parlato con l’autore al Trieste Film Festival dove era giurato e dove c’era in competizione “Mostar United” di Claudia Tosi, altra gradita eccezione al pressapochismo.
Daniele Gaglianone, cominciamo dal titolo, “Non ci sarà la guerra”.
“Il titolo non deriva da quello che ci hanno raccontato molte persone comuni, cioè che ancora nel 1992 non si aspettavano che sarebbe scoppiata la guerra. E’ un titolo di giornale del dicembre 2007, durante uno dei viaggi che ho fatto là. Quando c’è un momento di crisi oggi dicono “non ci sarà la guerra”, quasi a voler scacciare la paura. Questo non è un film sul passato ma un film sull’oggi. In Bosnia vivono un passato che non è passato e un presente che deve ancora cominciare. Chi ha vissuto la Seconda guerra mondiale, che ha avuto un inizio e una fine, divide le cose in prima della guerra e dopo la guerra. In Bosnia no”.
Una cosa che colpisce è che negli incontri quasi non interviene.
“Ho sceltro di far respirare i testimoni e i luoghi attraverso il ritmo che avevo percepito in ciascuna situazione. Con la mia assenza ho cercato di far sentire le emozioni che provavo. Magari non ci riesco sempre, ma cerco di applicare la lezione di Kapuscinski in “Un cinico non è adatto a questo mestiere”. Cioè l’unico modo per rispettare le storie è sparire, fare un passo indietro”.
Come ha condotto le interviste?
“E’ difficile fare un’intervista. Anche nei documentari migliori si ha spesso la sensazione che l’intervistato sia strumentale alla struttura. Io ho cercato di fare il contrario. Pur sapendo che l’oggettività non esiste, ho cercato di far sì che il testimone sentisse che ero lì per lui. Deve avere la sensazione che hai voglia di ascoltarlo ma devi esserlo davvero. A ognuno ho lasciato il suo tempo, il suo ritmo”.
Dove nasce l’idea del documentario?
“E’ stato un work in progress, ma mi sono accorto che inconsciamente lo preparavo da 10 anni, dal mio primo viaggio in Bosnia nel ’98. Allora mi impressionarono le storie che mi raccontavano e ciò che vedevo. Poi nel 2007 è arrivata la proposta di farlo su un piccolo villaggio vicino Srebrenica, ma ho voluto alzare la sfida. È venuta una struttura in apparenza più semplice ma in realtà più difficile che ho pensato subito, non è nata al montaggio”.
Al centro dove ricompongono i resti umani a Tuzla come ha fatto?
“Sapevo dove stavo entrando e volutamente non ho fatto sopralluoghi, se no il documentario sarebbe stato diverso. Volevo essere impreparato e che il luogo mi aggredisse. Ma nella stanza dove ricompongono i resti dei cadaveri non riuscivo a entrare, qualcosa mi respingeva, provavo una sensazione strana e non riuscivo a camminare. Ho ripreso l’ingresso 3-4 volte e ho anche provato a montare queste scene ma non funzionavano, non restituivano quel che avevo provato. Le persone che ci lavorano ci mettono distanza, altrimenti non potrebbero farlo. Ti spiegano tutto in modo gentile, ma tu sai che non parlano di uomini preistorici ma di gente che oggi avrebbe la mia età. In montaggio non sopportavo più la voce della dottoressa canadese che spiegava e ho ricordato che mentre ero là davo più peso ai rumori, ai ventilatori, così ho variato i rapporti dei livelli audio”.
Ha usato pochissimo materiale di repertorio.
“Quella del repertorio è stata una delle prime questioni che mi son posto. Il tempo trascorso dai fatti è determinante nell’utilizzo o meno del repertorio. Se racconti fatti che stanno accadendo devi fare vedere le immagini. Perché ho capito che la moralità di un racconto è affidata in gran parte a chi ne fruisce. Ci sono momenti nel mio film in cui l’inserto del repertorio sarebbe stato naturale. Non l’ho fatto perché se riesci a fare immaginare qualcosa allo spettatore anziché farla vedere resta più forte nella sua memoria. Oggi far vedere il repertorio della guerra e dei massacri è rassicurante, è come metterlo tra parentesi. Uno le vede e si consola perché vede che è stato terribile ma è passato. Invece per quelle persone non è passato nulla. Ho usato piccoli spezzoni come se fossero ricordi in soggettiva. Della signora che percorre Srebrenica mi sono chiesto: quante volte le sono tornate alla mente queste cose? Se avessi messo le immagini di Karadzic anziché un cameracar per le strade mentre dice quelle cose terribili nessuno avrebbe ascoltato le sue parole. E così mentre Zoran racconta la strage del pane uno se la immagina mettendo ai morti i volti di persone che conosce”.
Zoran è la figura più forte, come l’ha trovato?
“E’ amico di ragazzi dell’associazione Nema Frontiera che mi han dato una mano. Conoscevo la sua storia ma non ho voluto conoscerlo prima e non c’è stata un’empatia immediata. Quando l’ultima sera dell’anno siamo andati nel locale per l’intervista è scattato qualcosa. Lui ha capito che ero là per lui. Man mano che raccontava era sempre più stravolto. Le due ore con lui sono state qualcosa di magico”.
Degli intervistati non ha messo i nomi.
“Mi sono chiesto se metterli, poi ho deciso per il no. Finché Zoran non dice di essere serbo, uno pensa che sia mussulmano da quello che racconta. Così come il ragazzino non m’importa che sia serbo o mussulmano, è un ragazzino e basta. Una delle cose più terribili di quella guerra è che ha creato le condizioni che erano state alibi per farla scoppiare. Oggi ci sono più di allora le condizioni di una guerra, c’è una divisione etnica. Se metti i nomi dele persone il potere ti schiaccia. Se Mohamed si presenta a Dragan già nascono i pregiudizi”.
Cosa ha detto agli intervistati per convincerli a parlare?
“Gli ho spiegato quel che volevo fare nel modo più semplice. Ho intervistato altre quattro persone ma sono rimaste fuori. Singolarmente funzionavano, ma insieme agli altri no. Ho sempre cercato di non forzare le situazioni, di intervenire il meno possibile, di non discutere con loro e di chiedere quello che avrei chiesto loro anche se non avessi avuto la videocamera. Ho voluto raccontare la Storia attraverso le storie personali. Non sarei capace di fare un documentario in cui spiego tutte le cose della Bosnia”.