Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/10920/1/45>
Di Matteo Tacconi*
Un anno fa, il 17 febbraio 2008, il Parlamento di Pristina proclamava unilateralmente l'indipendenza da Belgrado. Quell'atto suscitò enormi polemiche, spaccando in due l'Europa e il mondo. Una nutrita pattuglia di nazioni, guidata dalla Federazione russa, bollò l'operazione come priva di fondamenti giuridici. Dall'altra parte della barricata si schierò invece chi nel Kosovo vide un “caso unico”, non in grado di costituire un precedente capace di alimentare spinte centrifughe nei vari angoli di mondo.
Secondo questa corrente di pensiero, di ispirazione euro-atlantica, lo smembramento della Georgia a opera di Mosca, arrivato l'agosto scorso, non è quindi in alcun modo ricollegabile alla secessione di Pristina da Belgrado.
La discussione sulla natura dell'indipendenza di Pristina, a un anno di distanza, resta sostanzialmente invariata. Ma il punto non è questo. Il 17 febbraio, strappo alle regole di diritto internazionale o caso unico che sia, c'è stato. Indietro, a meno di clamorosi colpi di scena, non si può tornare.
Discutere sulla legittimità dell'indipendenza kosovara rischia pertanto di essere un esercizio sterile. Anche per la Serbia, la cui battaglia in seno alle Nazioni Unite – Belgrado è riuscita a deferire alla Corte internazionale di giustizia la questione e attende fiduciosa una pronuncia dei togati dell'Onu contraria all'indipendenza della sua ex provincia meridionale – può al massimo portare in dote una vittoria di Pirro.
Il dato politico su cui ragionare è che nel cuore dei Balcani c'è un soggetto statale che prova a vivere e svilupparsi, tra mille difficoltà. Conviene pertanto sgomberare il campo dalle opposte visioni che continuano a contraddistinguere il dibattito di natura giuridica sul 17 febbraio.
Così come risulta poco fruttuoso valutare il diritto a esistere del Kosovo sulla base dei riconoscimento internazionali (poco più che 50) ottenuti fin qui da Pristina. È utile, piuttosto, concentrarsi sulla realtà. Ponendosi una precisa domanda: quanto è “stato”, il settimo paese sorto sulle ceneri della Jugoslavia?
Un'economia fragile
A un anno dall'indipendenza il Kosovo appare una nazione molto traballante. A livello economico, tanto per cominciare. La Banca centrale di Pristina, giusto qualche giorno fa, ha comunicato che nel 2008 il flusso degli investimenti dall'estero, quantificabile in 355 milioni di euro, è stato inferiore rispetto all'anno precedente di circa 80 milioni.
Questo dato è assai preoccupante, dal momento che i capitali esteri costituiscono l'irrinunciabile vettore per lo sviluppo, in un paese la cui impalcatura economica appare al momento del tutto inadeguata a garantire progresso economico.
I numeri la dicono lunga. Oltre il 90% delle aziende dà lavoro a non più di nove persone e in moltissimi casi le ditte sono individuali. Quasi la metà di esse ricade nella categoria del commercio al dettaglio e cinque su cento – incredibile ma vero – sono "auto larje", autolavaggi.
Per sintetizzare: senza investimenti dall'estero il Kosovo, la cui situazione è aggravata da un tasso di disoccupazione che lambisce il 50%, è spacciato. E rischia inoltre di consegnarsi nelle mani delle mafie locali, le uniche holding che vantano fatturati significativi.
Una mafia onnipotente
È risaputo: il Kosovo è una terra in cui la criminalità organizzata è fortemente radicata. Basta pensare che i due terzi dell'eroina proveniente dall'Afghanistan e diretta nell'Europa occidentale circolano proprio attraverso il più giovane dei paesi balcanici. Ma il traffico di droga non è l'unico business in mano alle mafie.
Le cupole locali gestiscono anche il mercato del contrabbando, dei falsi – sono innumerevoli le
fake city kosovare – e del riciclaggio di denaro. Appesantisce poi la situazione il livello di collusione tra criminalità e politica, che risulta altissimo.
Il Kosovo può pagare a caro prezzo questo intreccio perverso. Può trasformarsi definitivamente in narcostato. A quel punto dovrà dire addio ai sogni di gloria, perché l'Occidente, che per ora ha chiuso un occhio su queste vicende privilegiando la geopolitica e gli interessi strategici, si stancherà di proteggere Pristina.
Il primo ministro Hashim Thaci e Ramush Haradinaj, il politico più influente dell'opposizione, hanno una grande responsabilità sulle spalle: devono una volta per tutte disinfestare il Kosovo dalla presenza delle cosche.
Non solo: devono loro stessi affrancarsi da quelle mafie con le quali, dai tempi della guerra di liberazione (Thaci era capo politico dell'Uck, Haradinaj era uno dei comandanti più in vista), collaborano senza porsi troppi scrupoli di coscienza, almeno a giudicare dai tanti rapporti che le
intelligence europee hanno dedicato al delicato tema del corto cirtuito tra istituzioni pubbliche e criminalità kosovare.
Mitrovica, questione aperta
Il Kosovo è un paese a sovranità limitata. Fino a quando non verrà risolta la questione di Mitrovica nord e delle municipalità settentrionali a maggioranza serba, dove Belgrado continua a governare attraverso le sue strutture parallele (istituzioni, scuole, tribunali) e l'utilizzo del dinaro come valuta di riferimento, il Kosovo rimarrà uno stato mutilato, incapace di disporre di una porzione del suo territorio.
Come risolvere questo rebus? La sicurezza serve, eccome. Ma è necessario soprattutto concentrarsi sull'integrazione e sull'economia. Incidenti come quelli del marzo del 2004 - quando il grande pogrom antiserbo partito proprio dalla “Berlino dei Balcani” portò alla distruzione di case, monasteri ortodossi e alla morte di numerose persone, serbi e albanesi - sono difficilmente ripetibili. Gli albanesi del Kosovo, in presenza di una nuova caccia pubblica al nemico serbo, perderebbero ogni credibilità.
Risulta allo stesso tempo improbabile – meglio dire impossibile – che Belgrado possa utilizzare la carta militare. C'è l'infelice precedente miloseviciano che invita a non prendere più in considerazione tale opzione.
Per Mitrovica e il nord del Kosovo serve soprattutto un'iniezione di prosperità. Del resto – e l'esperienza positiva della località sciistica di Brezovica lo conferma – quando l'economia funziona serbi e albanesi sono disposti a dialogare e cooperare.
In passato, un politico lungimirante come Oliver Ivanovic ha proposto la creazione, a Mitrovica, di una sorta di zona economica speciale. L'ipotesi è stata rigettata. Ma è solo insistendo su questo fronte, quello dell'economia, che si potrà favorire in futuro una distensione tra albanesi e serbi.
A che serve l'Europa
Contribuire al processo di
nation building in Kosovo, certo. Investire in Eulex (la missione civile dell'Ue in Kosovo) cercando di farle giocare un ruolo più incisivo rispetto a quello, marginale, che ha finora avuto. Evitare che la missione venga bloccata dai possibili conflitti di competenza con quella dell'Onu (Unmik) e dai veti incrociati, a livello politico, tra serbi e albanesi. Prendere in mano il pallino del gioco, con decisione e coraggio.
Ma l'Unione europea deve non solo dedicarsi alle questioni tecniche. Deve fare molto di più. Servono tanta politica e scelte lungimiranti.
Punto primo: non isolare la Serbia. Il gruppo comunitario deve tenere aperta la porta a Belgrado. Da un paio di anni si sta agendo nella giusta direzione e la prospettiva europea per la Serbia, fino a qualche tempo fa un miraggio, è diventata più concreta.
Ciò ha comportato ricadute positive, nello spettro politico serbo in primo luogo. Vojislav Kostunica, che aveva fatto del Kosovo il cavallo di battaglia nella tornata elettorale del 2008, è scomparso dalla scena. Nell'ultranazionalista Partito radicale si è registrata la defezione di Tomislav Nikolic, che ha rotto con Vojislav Seselj sulla firma degli Accordi di associazione stabilizzazione con Bruxelles, giudicati indispensabili dal primo.
Infine, il Partito democratico di Boris Tadic, motore dell'attuale esecutivo, pur continuando a insistere sulla doppia opzione “Europa e Kosovo” sta lentamente privilegiando – così pare – la prospettiva comunitaria alla battaglia per conservare l'indifendibile sovranità su Pristina.
Ma tutto questo non è sufficiente. La prospettiva europea per la Serbia deve essere solida. L'Europa deve cooptare Belgrado evitando di restare sul solito piano delle promesse. Se non lo farà, i Balcani rimarranno una “terra di mezzo”, un buco nero.
Continueranno a far bruciare soldi agli stati membri dell'Ue, a essere un covo per il narcotraffico e le mafie (che proliferano non soltanto in Kosovo), a configurarsi come un'accozzaglia di stati falliti o a sovranità limitata, con il rischio che la presenza internazionale diventi un fattore di lungo termine. E sempre meno stabilizzante.
La salvezza del Kosovo e dei Balcani nel loro complesso passa necessariamente per Belgrado. Ma insieme a Belgrado devono essere integrate tutte le altre nazioni dell'ex Jugoslavia. Meglio se tutte insieme, in un'unica data. Il pericolo, infatti, è che chi si ritroverà dentro farà di tutto per impedire l'ingresso di chi per un po' più di tempo rimarrà fuori.
Sta accadendo ora tra Slovenia e Croazia, figuriamoci che cosa potrà succedere se Belgrado entrasse nell'Ue prima di Pristina. Bosnia, Croazia, Serbia, Kosovo, Montenegro e Macedonia: tutti in Europa, tutti lo stesso giorno. La soluzione – suggerita anche da un bravo studioso come Christophe Solioz e dall'ambasciatore austriaco Wolfgang Petritsch, profondo conoscitore dei Balcani – non può essere che questa.
Attualmente a Bruxelles manca però la volontà politica di procedere con ulteriori allargamenti. Si avverte, in generale, un sentimento da
over-enlargement e l'attenzione è rivolta alla crisi economica e ai rimedi, protezionistici o meno, per contenerla. Ma la crisi, che certo assorbirà energie e risorse, non deve in alcun modo diventare il grande alibi dell'Unione.
Includere i Balcani nell'area comunitaria è un'operazione non così costosa e non così difficile. Se l'Europa vuole essere grande deve prendersi seriamente le proprie responsabilità. Sui Balcani non l'ha mai fatto con convinzione. Il tempo sta per scadere.
*Matteo Tacconi, giornalista, è autore di "Kosovo: la storia, la guerra, il futuro" (Castelvecchi)