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Lamberto Zannier
Sostanzialmente positivo e improntato alla stabilità, nonostante le numerose questioni che rimangono aperte. E' questo, secondo il capo della missione Unmik Lamberto Zannier, che abbiamo intervistato a Bruxelles, il bilancio del primo anno di indipendenza del Kosovo
Ambasciatore Lamberto Zannier, sappiamo quale bilancio tirano serbi ed albanesi del primo anno di indipendenza del Kosovo. E la comunità internazionale?
Abbiamo dietro le spalle un anno generalmente positivo, se vediamo quali erano le sfide sul terreno. C’erano tutti i presupposti per una fase difficile: la comunità internazionale era divisa, il Consiglio di sicurezza spaccato, c’erano atteggiamenti ed interpretazioni diverse in relazione alla dichiarazione di indipendenza kosovara.
Quello che vediamo, ad un anno di distanza, è tutto sommato un contesto di perdurante stabilità, un atteggiamento essenzialmente di responsabilità dei governi, i quali ovviamente fanno ricorso a tutti gli strumenti politici e legali per mantenere e difendere le rispettive posizioni, ma con responsabilità per quanto riguarda la gestione della situazione sul terreno.
Il fatto che la situazione sia sotto controllo non significa peraltro che i problemi siano risolti. Il Consiglio di sicurezza ha approvato un rapporto del Segretario generale che indica quali saranno i prossimi passi per l’azione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale. Abbiamo dunque un programma di lavoro e una tabella di marcia per proseguire.
In Serbia la retorica è cambiata molto poco, anche se poi all’atto pratico gli atteggiamenti sono forse un po’ diversi. Qual è il suo messaggio per Belgrado?
E’ vero, la retorica non è cambiata e in questi giorni di anniversari abbiamo visto anche un acuirsi di certi toni. Il messaggio è che ora abbiamo, come dicevo, una pista segnata su cui procedere. Io mi auguro che tutte le parti vogliano aderire a questo programma di lavoro, essenzialmente improntato ad una apertura al dialogo. Il dialogo, in questa fase, è inevitabilmente mediato dall’ ONU e – io mi auguro in misura sempre crescente – dall’Unione europea, che sta acquisendo un ruolo sempre più importante - sia politicamente che operativamente - con il dispiegamento della sua missione.
Su alcune questioni “tecniche”, come la ricerca delle persone disperse, mi sembra che un primo abbozzo di dialogo ci sia. Il problema è quando si raggiunge la dimensione politica…
Questo processo dovrà essere, inevitabilmente, molto graduale. Ci sono degli inizi… dei contatti a livello tecnico su alcuni temi ben specifici. Il rapporto del Segretario generale indica una serie di aree su cui il dialogo potrebbe essere allargato. Il mio personale auspicio è che a livello tecnico si possa arrivare ad includere rappresentanti dei due Paesi, che si possa - con l’incoraggiamento e il supporto della comunità internazionale - coinvolgere direttamente le parti interessate. Tutto questo a livello tecnico, perché il dialogo politico è difficilmente separabile dalle posizioni su quello che riguarda lo status: questo dovrà seguire in un tempo successivo.
Bruxelles vorrebbe fare dei passi in avanti con la Serbia, ma l’avvicinamento di Belgrado all’UE dipende da una serie di fattori, primo fra tutti la collaborazione con il tribunale dell’Aja. Questo avvicinamento aiuterebbe il suo lavoro in Kosovo?
Certamente: questo più stretto collegamento, dalla mia prospettiva, è fortemente auspicabile. Ovviamente nella salvaguardia dei grandi principi e della loro attuazione, per quanto riguarda in particolare la collaborazione con il tribunale, ma non bisogna perdere di vista il quadro più ampio, che è quello di un processo che dovrà avvicinare l’intera regione all’ Europa; portare l’Europa nella regione e in questo modo contribuire in maniera ancor più incisiva alla risoluzione dei problemi che rimangono.