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Gjakova, storia di un anniversario
Osservatorio Balcani Guide per Area Kosovo Kosovo Notizie
Data pubblicazione: 24.03.2009 09:34

Fin dai primi giorni della campagna NATO, nel marzo del 1999, Gjakova, Kosovo occidentale, è divenuta una città sotto assedio e alle prese con le rappresaglie dell'esercito e della polizia serba. Il racconto dei suoi cittadini
Le prime bombe NATO hanno colpito Gjakova il 24 marzo 1999, stesso giorno in cui l'Alleanza atlantica ha avviato la sua campagna militare contro il regime di Milošević. L'azione della NATO era benvoluta e considerata dalla comunità albanese come ''fuoco amico'', gli attacchi alle caserme dell'esercito jugoslavo erano visti come parte delle iniziative per bloccare la violenza di Belgrado nei confronti degli albanesi.

Non ci volle molto per le prime rappresaglie e le forze serbe incendiarono l'intera Carshia e Madhe, quartiere nel cuore della città. Molti cittadini tentarono in vano di bloccare gli incendi; furono le prime vittime della campagna della NATO, anche se uccisi dalle truppe serbe. Questa è una storia di bombe, assedi, uccisioni, prigioni, misteri e di ferite che a volte non vengono sanate in un'intera vita.

Gjakova assediata

Gjakova è una città di 150.000 abitanti, nel Kosovo occidentale, ai confini con l'Albania. E' attualmente abitata in maggioranza da albanesi-kosovari mentre nessun serbo – prima della guerra qui ne viveva qualche migliaio – ha più fatto ritorno.

Tra le varie teorie in circolazone sull'origine del suo nome quella che si rifà alla parola albanese ''gjak'', sangue, è purtroppo la versione che crea più suggestioni rispetto ai fatti che poi si sono verificati nel 1999. Le autorità cittadine hanno stimato che durante la guerra 1998-1999 vennero distrutte 6500 abitazioni. 1870 dei suoi cittadini vennero uccisi. Dalla fine della guerra questo numero viene continuamente aggiornato, di pari passo diminuisce quello delle persone scomparse che, nel giugno del 1999, erano 600.

Dossier 1999-2009. Dopo le bombe
Oggi, a dieci anni dall'avvio della campagna della NATO, Nasibe Lluhani ricorda il dramma che coinvolse la sua famiglia. Nelle sue mani le fotografie del marito, del figlio e dei tre fratelli uccisi nel maggio del 1999.

Nasibe Lluhani - V. Kasapolli
“Le truppe serbe, assieme alla polizia e ad altre persone con uniformi militari hanno devastato il nostro quartiere il 7 maggio, uccidendo e bruciando”, Nasibe descrive così il giorno in cui ha visto il marito per l'ultima volta. La sua casa, nel quartiere di Carshia e Madhe, è situata nei pressi delle colline che scendono dal confine con l'Albania, luogo di feroci scontri tra l'Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e le truppe serbe. Furono in molti tra gli albanesi a ritrovarsi bloccati in città per tutta la durata della campagna NATO, sino al 12 giugno, con una libertà di movimento estremamente limitata. “Io e mia figlia siamo state cacciate di casa, mentre mio marito, un cugino e un vicino sono stati giustiziati sul posto”, spiega Nasibe tra le lacrime. Più tardi la casa è stata bruciata.

Pochi giorni dopo, dall'altra parte della città, altri lutti avrebbero colpito Nasibe. Si era messa d'accordo di incontrarsi con i fratelli per provare a fuggire. Ma prima di riuscire a farlo, ad un posto di blocco, suo figlio ventenne e i tre fratelli di Nasibe vennero separati dalle loro famiglie. E uccisi. Nasibe ormai sola venne lasciata a vagare per la strada principale della città, e poté rincontrare chi rimaneva della sua famiglia solo quando le truppe serbe lasciarono il Kosovo e il territorio iniziò ad essere amministrato dagli internazionali, la sicurezza dei suoi confini e del suo territorio garantito da truppe NATO.

Di quel 10 maggio rimangono molti in grado di testimoniare in merito ad arresti di massa di uomini tra i 16 e i 65 anni, poi inviati in vari luoghi della regione. 155 vennero portati nel carcere di Dubrava, principale penitenziario del Kosovo, e nove di loro giustiziati prima della fine, in giugno, dei bombardamenti NATO. Ma in quei giorni la guerra non finì per i prigionieri del cosiddetto “gruppo di Gjakova'' imprigionati a Niš, in Serbia. Solo tre tra loro vennero assolti e liberati, mentre ai restanti 143 vennero sentenziati 1632 anni di prigione, con l'accusa di terrorismo. Solo in seguito a forti pressioni internazionali le autorità serbe annullarono la sentenza. Il “gruppo di Gjakova'' ritornò in Kosovo il 25 aprile del 2001.

Lutti ritardati

Nel villaggio di Meja, alle porte di Gjakova, dopo la guerra vennero rinvenuti i corpi di 400 uomini, donne e bambini. Le notizie del continuo ritrovamento di fosse comuni inquietavano le famiglie alla continua ricerca di informazioni sui propri cari scomparsi. I corpi dei famigliari di Nasibe Lluhani vennero identificati e poterono essere infine seppelliti, anche se solo in seguito a lunghe procedure burocratiche. Il primo ad essere identificato fu il fratello maggiore, nel 2000, gli anni seguenti vennero identificati tutti gli altri, per concludere, nel 2004 con l'identificazione del marito e del figlio. “Temo che questi ritardi dipendano tutti dalla politica, ma è la cosa peggiore che a una madre possa capitare”, racconta Nasibe mentre ringrazia Dio che almeno li ha ritrovati tutti.

Ai primi di marzo “Thirrjet e Nenave”, associazione di madri di Gjakova che si occupa di persone scomparse, ha invitato le autorità kosovare a procedere all'identificazione dei circa 400 corpi conservati presso l'obitorio di Pristina. Vi sono ancora circa 2000 persone che risultano scomparse dopo la guerra del 1999.

Sempre a marzo Amnesty International ha fatto appello a Pristina e Belgrado affinché risolvano questo lascito dei crimini di guerra.

Secondo quest'ultima più di 3000 albanesi vennero fatti “sparire” da polizia, paramilitari e esercito serbo durante il conflitto. Circa 800 serbi, rom e appartenenti ad altre minoranze vennero invece sequestrati e poi mai più ritrovati da membri dell'UCK.

Beni culturali e crisi economica

Gjakova è in cima alla lista delle città del Kosovo per beni culturali. Tra i suoi monumenti il ponte in pietra d'epoca romana e il quartiere commerciale d'impronta ottomana. Quest'ultimo venne subito distrutto il 24 marzo come rappresaglia agli attacchi NATO.

Gjakova - V. Kasapolli
Secondo il sindaco della città, Pal Lekaj, era facile aspettarselo dal regime di Milošević. “Fu una vendetta per gli attacchi NATO, i serbi hanno bruciato il cuore di Gjakova e tutto ciò che nella municipalità era caro e prezioso agli albanesi, come ad esempio la Kulla (casa tipica albanese in pietra) del sedicesimo secolo”, ha dichiarato Lekaj in occasione dell'anniversario dei bombardamenti NATO.

Lekaj in quei giorni combatteva nelle file dell'UCK e afferma che era del tutto consapevole che i serbi avrebbero reagito in quel modo ai bombardamenti.

L'Istituto per la protezione dei monumenti culturali a Gjakova ha registrato, nella municipalità, danni per milioni di euro quali conseguenza della guerra. Ciononostante circa il 70% dei monumenti cittadini sono già stati restaurati a seguito di donazioni e fondi internazionali e locali. Due milioni di euro sono stati destinati alla risistemazione di edifici danneggiati nel quartiere Carshija e Madhe, tra questi numerose moschee e chiese. “Ma i soldi non potranno servire a recuperare il vero e proprio tesoro rappresentato da questo quartiere della città”, afferma Osman Gojanj, a capo dell'istituto, ricordando che sono state bruciate due biblioteche religiose che contenevano migliaia di libri e manoscritti. “Vi erano inoltre numerose case d'epoca con caratteristiche architettoniche molto particolari, sia negli esterni che negli interni, e che mostravano la vita della comunità albanese a partire dal XVIII secolo”, spiega Gojani “ e tutto questo è stato distrutto”.

Un restauro molto attento è stato realizzato della moschea Hadumi, risalente al XVI secolo, ritenuta una delle più belle nelle aree dei Balcani abitate dalla comunità albanese. Quest'ultima e il quartiere Carshija e Madhe sono stati restaurati secondo gli standard UNESCO, e secondo Gojani questo contribuirà a farli divenire in futuro siti culturali riconosciuti come “patrimonio dell'umanità”.

Un futuro migliore è un concetto che ancora non c'è nel vocabolario di Gjakova. Le prospettive economiche continuano ad essere tetre. In passato era una centro industriale, ritenuto il motore di produzione di tutto il Kosovo, sostenuto dalla presenza di esperti ed intellettuali. Ora tutto questo sembra solo una bella storia da ricordare. Il 20% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, ed era solo del 7% nel 2000. I cittadini di Gjakova hanno posto in vendita circa 3000 case ma non vi sono compratori all'orizzonte. Intanto 12.000 dei suoi cittadini hanno lasciato la città dopo la guerra, cercando una vita migliore lontano dal Kosovo. L'anniversario dei dieci anni dall'avvio della campagna aerea della NATO a Gjakova è solo sale sulle ferite ancora aperte di una città che cerca di ritrovarsi.