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Eurovisa, l'Europa unita dei visti
Osservatorio Balcani Guide per Area Albania Albania Notizie
Data pubblicazione: 07.05.2009 10:00

Sulla scena albanese, come in altri paesi balcanici, vi è scarso dibattito sul significato di Europa e di Unione Europea. L'attenzione dell'opinione pubblica è concentrata sui visti e sulla libertà di movimento. Ma l'Europa dovrebbe essere una realtà da costruire nel proprio paese e non solo un luogo da raggiungere
Nell’immaginario collettivo albanese, l’Europa si è delineata sostanzialmente come uno spazio di libertà e di benessere. I primi tratti, molto probabilmente, sono stati abbozzati durante il periodo del totalitarismo, quando l’Europa veniva guardata dal buco della serratura, a forma di schermo televisivo, di uno dei paesi più chiusi al mondo. La claustrofobia degli albanesi trova i suoi inizi proprio nella costruzione di uno stato dittatoriale, che assomigliava per lo più ad una prigione, con tanto di muri, guardie, confini e filo spinato. All’epoca, l’Europa era vista in modo trascendentale, come una chimera da inseguire solo con l’immaginazione. D’altronde, com’è tristemente noto, il passaggio non autorizzato dei confini era illegale e fissato pesantemente nel codice penale.

Gli slogan che accompagnarono il crollo del regime totalitario all’inizio degli anni ’90 contenevano immancabilmente la parola Europa. Uno dei più noti “Ta bëjmë Shqipërinë si gjithë Evropa” (Facciamo diventare l’Albania come tutta Europa) denotava la voglia genuina di un intero paese di uscire dalla povertà estrema e di costruire una società più prospera. Il problema è che tale slogan rimase tale, cioè solo un motto conciso ad effetto, a causa di una serie di alchimie politiche e socioculturali, che non consentirono la sua trasformazione in un serio progetto collettivo. Gli stessi esodi biblici verso l’Italia dimostravano in sostanza che il mito di fuga – alimentato implicitamente dalla sindrome di accerchiamento coltivata dal regime – era fortissimo, almeno quanto la forza di attrazione dell’Occidente-Eden, anche questa foraggiata ad arte per mezzo dei media; e comunque il desiderio di fuggire era più forte dell’attesa che richiedeva la “costruzione dell’Europa”, cioè del benessere nel Paese.

Nella storia dei rapporti molteplici tra l’Europa e l’Albania c’è un momento chiave da sottolineare: ad un certo punto, nell’immaginario collettivo, l’Europa si è materializzata, per così dire, trasformandosi da un’idea di libertà e benessere, cioè da uno spazio ideale, in uno spazio geografico, ossia materiale. Ovviamente, il problema non sta nell’aggiunta dell’aspetto geografico dell’Europa, per di più reale ed evidente, ma nella prevalenza di questa geograficità del benessere a discapito degli ideali che la stessa Europa denotava e connotava agli occhi dei cittadini albanesi. L’emigrazione massiccia ha conseguentemente aumentato la fisicità dei contatti tra Europa e Albania, contatti che furono bruscamente interrotti con l’avvento della dittatura. Le prime merci di consumo spedite dagli emigrati albanesi nel Paese, hanno solo marcato la materialità di un’Europa concreta e tangibile, opulenta e felice, circoscrivendo ancora meglio il “paradiso in terra”.

In questo contesto di grande movimento, si è verificata nel discorso pubblico e privato albanese l’apoteosi del moto a/da luogo, che si è concretizzato in seguito nel visto sui passaporti. Il problema di avere un visto occidentale ha sempre primeggiato nelle preoccupazioni degli albanesi, ma in certi periodi storici questo ha preso le sembianze di una vera e propria ossessione. Ovviamente, si tratta di un’ossessione indotta, un po’ dalla recente storia di un’autarchia tanto ermetica quanto folle, in cui il passaporto non poteva neanche essere sognato, e un po’ dall’attualità tanto allettante quanto schizofrenica, dove i passaporti si sprecavano sì tra le mani dei cittadini, ma con pagine vuote, senza un visto d’ingresso in Europa. Ci sono molte differenze tra l’impossibilità di avere il passaporto e la possibilità di averlo senza visti; tra la possibilità di lasciare il paese di origine e l’impossibilità di raggiungere gli altri; tuttavia, l’essenza non cambia: si è accerchiati da muri divisori, e non ha importanza se siano muri della propria o dell’altrui fortezza.

Si capisce che in questo quadro piuttosto nevrotico, i visti hanno acquisito un potere enorme. La questione è proprio questa: come sono stati usati culturalmente i visti d’ingresso in Europa? Naturalmente, la complessità non manca, perché va esaminato innanzi tutto l’uso della classe dirigente albanese, ma anche quella delle cancellerie occidentali. Non è un mistero che molte rappresentanze diplomatiche in Albania, vengono viste spesso dalla gente come uffici di produzione di visti piuttosto che avamposti di politiche articolate di paesi amici. A torto o a ragione, nell’opinione pubblica, tali politiche, anche quando sono serie e lungimiranti, vengono percepite come una questione di visti. È legittimo usare i visti in qualità di carota, ad esempio per spingere il paese ad intraprendere le dovute riforme per integrarsi in Europa, ma è dannoso far passare il messaggio che tutto ruota intorno ai visti, anche perché il problema acquista talvolta toni ridicoli di fronte ad una comunità piccola come quella albanese.

La vistomania in Albania si è espressa in modo evidente durante le campagne elettorali. Le promesse di visti europei per la popolazione non sono mai mancate, anche perché, per motivi noti, tali promesse pagano elettoralmente. Ma il discorso è un altro. Culturalmente, è da più di 18 anni che l’Europa, veicolata dai visti, è percepita come un luogo da raggiungere, piuttosto che un luogo da costruire nel proprio paese. Anche l’ingresso in Europa viene identificato con la liberalizzazione dei visti, un’altra parola questa, da poteri veramente magici. La riduzione del discorso europeo, e di tutto ciò che l’Europa rappresenta, si nota facilmente anche nell’assenza di dibattiti sinceri, come succede altrove, tra euroscettici ed eurottimisti. In Albania nessuno è contrario all’ingresso in Europa. Una cosa fantastica se tale europeismo fosse di matrice meramente culturale, ossia derivante da un’elaborazione di lunghe riflessioni sui benefici della costruzione e dell’ingresso nell’UE. È più probabile che il 100% degli euroentusiasti sia dovuto all’assimilazione culturale del discorso Europa da parte del discorso visti. E chi vorrebbe stare in una prigione? Chiuso e sorvegliato? Nessuno, tutti vogliono avere un visto in mano e girare, almeno potenzialmente, il mondo. Quindi tutti d’accordo, come una volta.

Il visto è un atto amministrativo, freddo, distante. In questo senso, c’è il rischio che l’Europa vista dai visti, dovrebbe risultare poco più di un gioco di parole come quello appena costruito. Nel senso che appare svuotata dal significato reale. I visti sui passaporti contengono anche una certa dose implicita di imposizione. Infatti, vengono rilasciati dopo apposite verifiche e controllati scrupolosamente dalla polizia. Il timore che l’Europa sia percepita come un’entità intransigente, burocratica, fiscale, è più che fondato. Eppure, l’Europa è un progetto nel divenire, dunque agli antipodi della staticità trasmessa da un visto Schengen sul passaporto. Il quadro diventa ancora più pesante se si aggiungono le varie sigle tecniche di accordi e preaccordi con l’UE di difficile comprensione, che vengono sparati continuamente al pubblico ignaro, con l’intento, probabilmente sincero, di informarlo che “stiamo lavorando per voi”.

Le élite albanesi del postotalitarismo non hanno fatto molto per pulire il progetto Europa dagli equivoci e di conseguenza dalle strumentalizzazioni. Infatti, l’ingresso nell’UE per l’opinione pubblica attuale significa poco più di libertà di movimento, possibilità di emigrare. La classe dirigente albanese ha giocato in questi anni in difesa, ripetendo ad libitum a se stessi ed agli altri che l’Albania fa parte dell’Europa. Forse era inevitabile, tenendo presenti i pregiudizi imperanti contro gli albanesi e l’Albania, ma fossilizzarsi su una ovvietà non fa bene al futuro. Inoltre, dando per scontato l’appartenenza europea, si dimentica la cosa più importante: l’identità europea va costruita gradualmente e partecipata giorno per giorno.

Il dibattito pubblico sull’identità non ha fatto molti progressi in Albania. Ancora oggi, ad una parte dell’opinione pubblica, e non solo, risulta difficile accettare che l’identità sia un processo culturale e che non abbia niente a che fare con il sangue o con i geni. Una presa di coscienza, in questo senso, aiuterebbe gli albanesi nei loro sforzi per acquistare sul terreno l’appartenenza al progetto europeo, che non è solo politico ed economico. Nessuna persona di raziocinio potrebbe mai mettere in dubbio l’appartenenza europea dell’Albania, dal punto di vista storico, geografico e culturale. Ma per far parte dell’Europa di oggi servono altri requisiti, da soddisfare e raggiungere faticosamente e con costanza.

Nella costruzione dell’immagine dell’Europa ha influito indubbiamente anche la superesposizione del pubblico alle immagini e notizie sulle visite di delegazioni ufficiali. Infinite delegazioni da e verso Tirana, spesso veicolate per mezzo di dichiarazioni formali, affermazioni bilanciate, foto cerimoniali e raccomandazioni teoriche, hanno portato in Albania un’Europa incravattata, protocollare, lontana. Un’Europa così formale è più facile distillarla nell’immagine del timbro Schengen, mentre il processo dell’integrazione europea, complesso e articolato per eccellenza, finisce per diventare una semplice questione di visto. È difficile dire se questo utilizzo dell’Europa dei visti, sia voluto e pensato, oppure semplice prodotto di una cultura politica che alla complessità preferisce la semplificazione, alla sostanzialità predilige la superficialità, alla realtà privilegia l’immagine. Fatto sta che l’ingresso in Europa sta diventando una mera questione di visti d’ingresso.

I visti avevano prima una loro espressione visiva nelle fila lunghe e umilianti dinnanzi ai consolati esteri. Oggi le file continuano ad esistere, sebbene siano virtuali, perché gli appuntamenti vengono fissati per telefono. Anche se attualmente volatilizzate, le fila per ottenere i visti costituiscono ancora un sintomo evidente di un’Albania chiusa dall’esterno. E le rappresentanze occidentali, sorvegliate da instancabili videocamere e recintate con alti muri, sembrano paesi in miniatura alle prese con le orde migratorie. In un contesto del genere, proprio “da paura”, è difficile pensare a certe sottigliezze. Come al fatto che i visti sono individuali e generalmente promuovono la soluzione individuale e sbrigativa dei problemi. Se si dovesse tutti insieme remare verso uno spirito albanese di comunità più sentito, oppure verso una cultura del lavoro e della fatica per raggiungere i risultati, allora i visti sarebbero quelli che remano contro.

La libera circolazione è un diritto garantito per i cittadini dell'Unione Europea e gli albanesi avrebbero potuto (dovuto) averla da tempo. Anche perché l’Albania, bisogna riconoscerlo, ha fatto negli ultimi tempi passi in avanti. Ma così come sono andate le cose si rischia di percepire l’Europa come un club di privilegiati, dove bisogna entrare per forza con tutti i mezzi, anche “falsificando i visti”. Ecco, in Albania bisognerebbe evitare una visione strumentale dell’Europa. Quindi il classico “do ut des” va spogliato del pragmatismo machiavellico, per non trasformare lo scambio valorizzante in un complesso condizionato pavloviano. Le raccomandazioni europee vanno intese nella loro sostanza, non come ricette di pillole amare, e vanno eseguite per convinzione, non per necessità di visti e/o di prestiti. Insomma, bisogna imparare le lezioni dell’Europa per la loro validità, non “a memoria”, e quindi solo per passare l’esame di turno.

Se parole come democrazia, valori, pace, convivenza, tolleranza, fratellanza, diritti, doveri, comunità, benessere, solidarietà, ecc. vengono associate all’Europa, allora è sbagliato percepire il Vecchio Continente come un luogo da raggiungere e non come un progetto comunitario. L’idea strumentale dell’Europa, cioè lontana, a sé stante e chimerica, toglierebbe conseguentemente agli albanesi il diritto e il dovere di contribuire con i propri valori alla edificazione della casa comune europea. Un grave danno per l’Albania e l’Europa, di oggi e di domani.

In fin dei conti, la liberalizzazione dei visti dovrebbe essere l’effetto di un certo percorso, non l’obiettivo finale dell’integrazione europea. Le riforme democratiche vanno fatte “a prescindere”, così come i passaporti biometrici vanno preparati per sé e non per l’Europa, così come la corruzione va combattuta per sé e non per l’Europa, così come le elezioni vanno svolte democraticamente per sé e non per l’Europa. Altrimenti, un domani nell’Unione senza visti, gli albanesi saranno perseguitati da quella sgradevole sensazione di essere sopportati, ma non accettati a pieno titolo. È chiaro che gli albanesi saranno in Europa quando l’Europa (intesa come comunità di valori) sarà assorbita da loro. A quel punto faranno parte a pieno titolo, per meriti riconosciuti, e non per diritti geografici. Anche perché i valori realmente interiorizzati vivono più a lungo di quelli importati (o tanto peggio imposti) in modo artificiale dall’estero.