Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/11406/1/42>
Solo dopo che ci raggiunse la notizia che Suljo e Mujo erano morti, abbiamo capito che la guerra si sarebbe fatta sul serio.
Suljo e Mujo sono i personaggi principali della maggior parte delle barzellette che si raccontavano in ex Jugoslavia. Si tratta di due bosniaci, due scemi proverbiali.
I bosniaci, come Suljo e Mujo, erano infatti considerati buoni ma stupidi. Non ci sono prove che l’immagine corrispondesse alla veritŕ, ma questa reputazione non ci disturbava per niente. Eravamo noi per primi a raccontare e spesso inventare le battute su noi stessi.
L'ultima su Suljo e Mujo, prima che si spargesse la voce che
erano morti, diceva che mentre i due attraversavano una strada di Sarajevo erano stati colpiti da una granata. Mujo aveva perso un orecchio, ed era tornato indietro a cercarlo. Suljo lo sollecitava a lasciar stare, “comunque ne hai un altro”, gli diceva. Ma Mujo insisteva, perché dietro l'orecchio aveva appoggiato una sigaretta.
Sin dal Medioevo, da noi, i padroni mandavano le spie tra il popolo per esaminare la situazione. Se la gente raccontava barzellette, voleva dire che la situazione non aveva toccato il fondo. Se invece il popolo taceva, era un segnale che i tempi si facevano davvero duri.
Coerentemente con queste misure
scientifiche avevamo capito, verso la fine del 1992, che la situazione in Bosnia Erzegovina non andava per niente bene. Non si raccontavano piů barzellette, e la gente concluse che Suljo e Mujo erano morti.
La veritŕ č che anche molto prima avevamo ragioni per preoccuparci. Ad esempio il 27 maggio 1992.
Era una giornata di primavera bellissima, calda e solare. In piů, importante per la Sarajevo d’allora, pareva che sarebbe stata una giornata tranquilla. Nel centro della cittŕ, in via Vase Miškina, un posto protetto dai palazzi, la gente si era messa in fila per comprare il pane. Poco dopo le nove di mattina, dalla colina Borije, i serbi che assediavano la cittŕ hanno lanciato una sola granata: 26 persone vennero uccise sul colpo, 108 furono i feriti.
Dall’inizio della guerra i nazionalisti serbi sparavano su Sarajevo una media di 350 granate al giorno. Il 22 luglio 1992 scaricarono sulla cittŕ piů di 3.500 granate. Gli assedianti non rinunciavano alla firma sui proiettili sparati, tranne su quelli che provocavano la reazione del mondo.
L’opinione pubblica mondiale fu indignata dal massacro, perciň i nazionalisti serbi dichiararono che la bomba sulla gente in fila per comprare il pane era stata gettata dagli stessi sarajevesi.
Quello che non si poteva accertare subito fu documentato poi dal Tribunale dell'Aja. Il generale serbo Stanislav Galić fu condannato all’ergastolo, nel 2003, perché colpevole per i bombardamenti di Sarajevo, compreso quello della
fila per il pane.
In quella fila si trovava anche il mio amico Maša.
Era un uomo alto, bello, robusto, sorridente, instancabile ottimista, faceva il docente universitario. Nessuna di queste sue caratteristiche, perň, lo contraddistingueva. Quello che gli aveva procurato la popolaritŕ tra gli amici, i colleghi e i conoscenti era il fatto che Maša conosceva centinaia di barzellette. Le raccontava sempre, sapeva esattamente quale era quella nuova, quale vecchia, identificava quelle aggiustate o “riscaldate”, le spargeva tra gli amici, ci aggiornava quotidianamente.
Nella
fila per il pane Maša perse tutte e due le gambe. Quella tragedia gli procurň una notorietŕ mondiale. Le immagini del massacro ripetutamente trasmesse alla Tv e sui media di tutto il mondo lo mostravano in primo piano mentre, insanguinato fino alle ginocchia, si trascinava per terra cercando qualcuno che lo aiutasse.
"Godetevi questa vita qui, io ci sono stato sotto, non c'č niente, tranne il buio", ci assicurň Maša appena riuscě a varcare il confine tra la vita e la morte.
Gli ospedali di Sarajevo erano zeppi di feriti e morenti, non solo musulmani ovviamente. Ma molti di questi, per disperazione o stupiditŕ, credevano che tutti i serbi fossero colpevoli. I conti li volevano fare subito, e gli unici serbi “disponibili” erano quelli che stavano in ospedale, feriti, nel letto accanto.
Maša appena poteva li difendeva, faceva vedere agli altri com'era stupida la loro logica, animava o tranquillizzava la gente. E quando il morale dei feriti cadeva, Maša raccontava le barzellette, li faceva ridere.
Del suo dono si erano accorti anche i medici e le infermiere. Nei casi di "emergenza", quando l’umore precipitava e la speranza scompariva, le infermiere trascinavano Maša, disteso sul letto e con la bottiglia di flebo accanto, da una stanza all'altra, perché raccontasse le barzellette e aiutasse a superare la crisi.
Maša si č salvato grazie alla trasfusione di sangue mandato alla Bosnia dall’Europa. Sarebbe impreciso, perň, dire che si č salvato. Il sangue era infetto da epatite C. Di questo si sono accorti circa quarantamila bosniaci che, durante la guerra, ricevettero le trasfusioni donate, o dannate.
Il sangue infetto non era l’unico dono dubbio che ci mandava il mondo civile. La gente giocava: l’avversario doveva scoprire se i biscotti distribuiti con gli aiuti umanitari erano del 1962, del 1965 oppure di un'altra data. Il vincitore poteva usare il bagno per primo, cosa di non poco conto, dato che le epidemie di colite erano frequenti.
Vorrei fare questa storia su Maša piů breve. Ma purtroppo non finisce con il sangue infetto.
Maša si č ammalato di epatite C. Si cura da anni, prendendo anche medicine non ancora completamente sperimentate e approvate. Tra una terapia e l'altra ci aggiorna, non sulla sua cartella medica ma sulle battute. Ci manda regolarmente le nuove, ci loda se ricambiamo con una che lui, il grande conoscitore, non sa, e dal suo letto, talvolta dal Canada, talvolta da Sarajevo, talvolta da Londra, ci fa ridere, noi suoi amici sparpagliati in tutto il mondo. E
giŕ-che-ci-siamo ci informa che il suo fegato non regge piů, che č arrivato il momento per il trapianto, ma non sarŕ facile perché nel frattempo sono apparsi anche due tumori.
L’altro giorno, dal Canada, č arrivato un nuovo messaggio da Maša. “E' l'ultimo messaggio…”. Leggo le prime parole e mi congelo. Si č arreso, penso, č la fine. Maša ha rinunciato a combattere, non ce la fa piů.
“Ma non č come state pensando”, scrive “non sto morendo”. Ci avvisa che sta per cambiare l’indirizzo di posta elettronica e, fedele a se stesso, ci manda l'ultima su Mujo e Suljo.
Dopo la guerra, Mujo incontra a Belgrado una persona che si presenta come Radovan Karadžić. Incredulo, Mujo dice: "Karadžić? Non č possibile..." Allora Karadžić chiede a Mujo: "E lei, chi č?". "Sono Mujo, da Srebrenica". E Karadžić: "Mujo? Non č possibile..."