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La Storia fatta con i se
Osservatorio Balcani In libreria Recensioni
Data pubblicazione: 16.07.2009 08:58

Un giovane bosniaco vive da tempo in Italia. Torna a trovare i genitori e la vecchia nonna a Visegrad: sulle tracce del suo passato e di quello del suo paese. “E se Fuad avesse avuto la dinamite?”, secondo libro di Elvira Mujčić. Nostra recensione
Qualcuno potrebbe dire che la storia non si fa con i se, e nemmeno con i romanzi. Elvira Mujčić non sembra d’accordo. Il suo “E se Fuad avesse avuto la dinamite?” dimostra infatti che anche la narrativa può contribuire alla memoria storica, parlando di vicende che altrimenti non arriverebbero al grande pubblico. Sui fatti della primavera-estate 1992 a Višegrad, e in generale nella Bosnia orientale, ci sono molte testimonianze, racconti, documenti raccolti dal Tribunale Penale Internazionale de L’Aja o pubblicati da vari media. Eppure sono poco noti ai più. Delle guerre bosniache si ricordano in genere l’assedio di Sarajevo, la divisione di Mostar o il genocidio di Srebrenica. Per altri aspetti invece la copertura mediatica, è stata decisamente inferiore, e così oggi la memoria.

E’ il caso di quanto avvenuto a Višegrad, la cittadina celebre per il ponte narrato da Ivo Andrić, che attraversando la Drina congiunge Bosnia Erzegovina e Serbia. Lì all’inizio della guerra i paramilitari serbi hanno compiuto atti di ferocia brutale. Racconta una testimone a Svetlana Broz: “I carnefici se n’erano già andati e siamo riusciti ad attraversare il ponte. Camminavamo a malapena. Per terra il sangue ci arrivava fino alle caviglie. Si scivolava. Delle budella ci si sono attorcigliate in mezzo alle gambe”. E sempre in quell’area è stato organizzato uno dei campi di reclusione e stupro etnico più sistematico ai danni di donne musulmane. Dentro un hotel, ci ricorda la Mujčić, che oggi è tornato ad ospitare turisti come se nulla fosse accaduto.

Leggi la presentazione del libro 'E se Fuad avesse avuto la dinamite?' nella sezione Copertine
Le pagine del libro ruotano attorno a questi fatti, narrandoli in maniera appassionata ma insieme delicata. Non una semplice cronistoria, e nemmeno un elenco dettagliato dei crimini. Un racconto invece attraverso lo sguardo soggettivo e parziale di Zlatan, giovane sarajevita che dall’Italia torna a casa per l’estate. La curiosità, alcuni parenti e un rapporto irrisolto con la guerra, vissuta da adolescente, lo porteranno ad indagare sui fatti della Drina. E inevitabilmente sull’eterno, precario dopoguerra in cui è immersa la sua (ex?) terra. “Eppure erano passati quasi 15 anni dalla fine della guerra ma per la gente pare quasi si tratti di due mesi fa! Forse bisogna fare così per conservare la memoria. Ma a che prezzo! Tutta una vita spesa a conservare la memoria, rivivendo l’incubo. È possibile che sia questo l’unico modo? Non ce n’è un altro che non richieda di morire a ogni passo?” (pag. 96).

Un dubbio pesante, serio, che attraversa tutto il libro come attraversa spesso le menti di chi prova a lavorare con la materia fragile ed esplosiva della memoria storica. Quella miscela fatta di “oggettività” dei fatti, pluralità di sguardi e punti di vista su di essi e soggettività complessa dei sentimenti che generano. La Mujčić l’ha vissuto probabilmente di persona scrivendo il suo primo libro, “Al di là del caos”, sullo sfondo della vicenda di Srebrenica. Ma quello era un racconto autobiografico, che come tale la difendeva abbastanza dalle osservazioni dei lettori. Qui invece, anche se riecheggiano temi ed esperienze personali già affrontate, c’è più intenzionalità, più lavoro di costruzione, forse anche più coraggio. Ed è una riflessione dolorosa ma stimolante. “A che scopo ricordare? Per essere sicuro di non smettere di odiare mai o per far sì che non si ripeta? Che illusione infantile pensare che basti avere memoria perché le cose non si ripetano. A volte, forse, si ripetono proprio perché si ricorda troppo” (pag. 116).

Intervista video di giugno 2009 a Elvira Mujčić sul libro, realizzata da RadioAlzoZero.net


Nel libro incontriamo molte risposte alla domanda se e cosa ricordare, e così nella Bosnia di oggi. C’è chi sceglie semplicemente di dimenticare, o almeno ci prova finché i fantasmi notturni non tornano a svegliarlo. C’è chi si aggrappa al ricordo idilliaco del prima, di com’era bello (ma era bello?) il comunismo titino. Chi abbraccia la religione come nuova identità assoluta, e rilegge con quella anche i fatti passati. Chi infine si affida allo humour tradizionale per distruggere ogni verità, e sopravvivere al presente: “E allora resto qui a vivacchiare, a guardare il ponte e a fare a gara a chi invecchia prima” (pag. 126).

Nazim, lo zio di Zlatan, prova la via più difficile.Quella dell’inchiesta rigorosa sui fatti, della ricostruzione fedele al di là di semplificazioni e schieramenti. “Così sono rimasto solo! (…) I nazionalisti mi vedono troppo debole, percepiscono alcuni miei dubbi e la mia volontà di non farne una questione di nazionalismo. Gli altri mi guardano e pensano che io sia un nazionalista sfegatato” (pag. 103). È curioso, pare di sentire le parole di una persona reale, Mirsad Tokaca, che a Sarajevo con il Research and Documentation Center compie proprio questo sforzo. Ad esempio rintracciando e dando un nome a tutte le vittime della guerra, per sottrarle tanto all’oblio del tempo quanto alle opposte manipolazioni statistiche. E si trova anche lui sotto attacco.

La riflessione sulla memoria non esaurisce comunque la ricchezza del libro. Altri temi lo attraversano: il rapporto complesso tra i bosniaci all’estero e chi è rimasto nel paese; la relazione genitori-figli nel dopoguerra, con l’esigenza di sapere e i tabù sul passato; la condizione di chi si trova ancora extracomunitario in Italia nonostante abbia vissuto qui più di metà della sua vita. “Sono spaccato in due, sono a metà tra due vite, tra due terre, tra due lingue, tra due culture. C’è un prima e un poi e non s’incrociano, non possono farlo in nessun modo” (pag. 86). Toccante il racconto della fuga da Sarajevo di Zlatan sedicenne, e dell’ingresso da clandestino a Trieste. In tempi di respingimenti forzati, dove ai deportati non è concesso nemmeno di far sentire la propria voce, una storia inventata può forse riscattarne molte costrette al silenzio.

Questo è solo un esempio. La Mujčić mantiene in tutto il suo lavoro, come già nel primo libro, una grande capacità di narrare, intrecciando fatti esterni e introspezione personale. Una scrittura molto femminile, verrebbe da dire, nonostante i personaggi principali siano due uomini. È indubbio però che un po’ di lei sia in Zlatan, come un po’ di verità sta in ogni fiction. “Prima di prendere sonno pensai a Fuad: mi figurai per un attimo come sarebbe andata se lui avesse avuto davvero la dinamite o, comunque, avesse alla fine deciso di far brillare la diga. Come sarebbe stata la Bosnia? E la nostra vita? La Drina si sarebbe portata via tutto, sì, ma già così si è portata via tanto. La Drina avrebbe coperto quello che ora sono diventati paesaggi inquietanti costellati di templi religiosi. Chiese e moschee imponenti, ma non per essere più vicini a Dio (...) Per radicarci ancor più nel nostro incubo e non abbassare mai la guardia, per non smettere mai di nutrire l’odio” (pag. 146). La storia non si fa con i se, certo. Ma a volte è più efficace raccontarla così.

E se Fuad avesse avuto la dinamite?
di Elvira Mujčić
Infinito edizioni, 2009
pag. 160
prezzo 12 euro