Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/11918/1/48>
Una casetta bifamiliare non lontana dalla Gara de Nord, la principale stazione ferroviaria di Bucarest. Cancello basso, nel giardino dei vicini si intravedono gli attrezzi per l'orto. La galleria d'arte «Andreiana Mihail» si stringe in quattro stanze, pareti bianche e pavimento in parquet. Fuori bambini che giocano per strada, qualche passante torna a casa dal lavoro con le borse della spesa.
Mihai ci accoglie sulle scale, movimenti leggermente dinoccolati, barba di qualche giorno, felpa con cappuccio e mani in tasca. Dopo aver studiato arte ha trovato lavoro in questa piccola galleria, che dà spazio alle opere di artisti rumeni contemporanei, e che ora espone una mostra monografica sui venti anni dal 1989, anno del crollo del Muro e della fine sanguinosa del regime comunista di Nicolae Ceausescu.
Le aspettative di allora, le delusioni, ma anche vent'anni di cambiamenti.
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“Avevo quattro anni quando è scoppiata la rivoluzione. Se il comunismo non fosse finito, o se la rivoluzione avesse tardato di qualche anno, sarei stato come uno di questi bambini, anch'io un piccolo pioniere di regime. E' un pensiero che mi spaventa”, racconta Mihai mostrando una foto dai toni ingialliti, inserita in uno dei pannelli in esposizione. La gatta dei vicini gli si strofina sorniona contro le scarpe, Mihai accenna appena un sorriso e si avvicina al pannello successivo.
“Questo è di Ion Grigorescu. Artista e calciatore. Portiere, per essere precisi. Anche tra i pali, a modo suo, un dissidente: stava sempre lì ad allacciarsi gli scarpini e prendeva dei goal assurdi”. Una lunga successione di foto. Volti assorti, ritratti di famiglia, tutto immerso in un silenzio profondo e innaturale. Il tutto ornato di cartelli stradali, divieti soprattutto. “Era il suo modo di dire che la censura arrivava in casa di ognuno, anche nei luoghi più intimi”.
Di pannello in pannello, l'arte lascia lentamente spazio all'esperienza personale. “Io sono guidato dai principi del capitalismo, penso che ognuno debba avere a seconda di quanto lavora. Mio padre è una via di mezzo, scherza sul passato, ma in fondo ha nostalgia. Con lui non parliamo quasi mai del periodo comunista, o della rivoluzione, perché alla fine finiamo sempre per litigare”.
In Romania, a vent'anni di distanza, gli eventi del 1989 continuano a far parlare, a dividere la società e le generazioni. Il cambio di regime, a Bucarest, fu il più cruento di tutta l'Europa orientale. Iniziò con le proteste di piazza di Timisoara, nella regione occidentale del paese, il 16 dicembre 1989. Il 22 Ceaucescu e sua moglie fuggirono da una Bucarest già scossa da pesanti scontri nelle strade della città. Tre giorni dopo, le immagini della loro esecuzione, arrivata dopo un processo sommario, fecero il giro del mondo. Neanche l'uscita di scena di Ceausescu, però, riuscì ad evitare la morte di centinaia di persone, vittime di scontri la cui reale natura è rimasta fino ad oggi avvolta nel dubbio, tanto che sono molti a sostenere che piuttosto che di rivoluzione (o parallelamente a questa) bisognerebbe parlare di colpo di stato interno allo stesso regime comunista.
“C'era senza dubbio una gioia diffusa e visibile. Poi, naturalmente, arrivò la confusione legata alla comparsa dei misteriosi 'terroristi', le sparatorie e i morti, la 'piccola guerra civile' per le strade della città, ancora oggi circondata da un alone di mistero”. Mircea Vasilescu, uno dei più stimati intellettuali e analisti politici rumeni, caporedattore della rivista 'Dilema veche', racconta quei giorni con voce misurata, pesando ogni parola. “Chi provocò gli oltre mille morti che segnarono la rivoluzione? Chi erano i terroristi? Perché nessuno di loro è mai stato individuato? Non c'è nessuna conclusione o verità ufficiale su quanto accaduto allora”, ricorda Vasilescu.
Il problema, secondo il caporedattore di “Dilema Veche”, ma anche molti altri intellettuali, è che oggi la società rumena ha accantonato e rimosso gran parte delle domande relative ai convulsi giorni del dicembre 1989. Nel paese non si è arrivati a nessuna interpretazione veramente condivisa, e restano visioni polarizzate e distanti su quegli eventi. Tutto questo, naturalmente, si riflette nella difficoltà delle istituzioni nell'elaborare e raccontare ai giovani quegli avvenimenti e l' esperienza complessiva del regime comunista.
Una ricerca condotta nel 2006 dalla storica Mirela Murgescu tra gli studenti delle scuole superiori, ha evidenziato due dati importanti: i giovani hanno conoscenze frammentarie e imprecise di quanto accaduto nell'89 e la fonte primaria di informazione non è la scuola, e nemmeno i mass media, ma le storie ascoltate in famiglia.
“Nessuno è mai venuto a dirci: bene, ora vi racconto cos'era il comunismo e cos'è successo nel 1989. Quello che so non lo devo certo alla scuola, ma ai miei genitori”. Capelli lunghi raccolti a coda, pizzetto e sguardo intenso, Adrian si è dato appuntamento con i suoi colleghi della facoltà di Architettura dell'università di Bucarest nell'enorme parco Herastrau, polmone verde nel cuore della capitale.
Davanti a lui, un cavalletto e un album, su cui ha segnato con la matita alcuni schizzi a mano libera. Un laboratorio estemporaneo per progettare in modo diverso la città e in particolare i suoi spazi pubblici. “A volte penso che per riprogettare alcuni quartieri di Bucarest non resti che fare tabula rasa”, dice con un sorriso reso spavaldo dall'età. Il suo rapporto con l'eredità urbanistica del comunismo è di rifiuto. Quando racconta del folle disegno di Ceausescu, che ordinò di abbattere il quartiere più elegante di Bucarest per far posto al mostruoso Palazzo del Popolo, che domina con la sua figura ottusa il panorama della città, gli occhi gli si riempiono di una luce strana, quasi incredula.
Anche il rapporto di Adrian con il presente però è critico e sfaccettato: “Oggi, a Bucarest, più che pensare allo spazio pubblico i progetti hanno l'unico scopo di fare ancora più spazio alle automobili”. E se guarda al futuro, l'obiettivo è uno e uno soltanto: realizzare i propri sogni e le proprie potenzialità, a qualunque costo, qui o altrove. “Potrebbe sembrare un delirio di onnipotenza, ma credo che solo così posso dare qualcosa di importante anche agli altri”.
Presente, passato e futuro. «Niente è più prezioso del tempo» recita il Faust di Goehte. La frase, incisa su una larga insegna grigia, campeggiava nel mezzo di una delle pareti della galleria «Andreiana Mihail». “Ne erano pieni gli uffici pubblici - ci ha spiegato assorto Mihai - un modo per glorificare i grandi del passato, e inserire naturalmente Ceausescu tra le loro fila. In qualche modo però ora la mia generazione sta girando le spalle alla storia, a quella storia. Non vogliamo vedere grandi leader da nessuna parte”.
Al passato comunista sembrano interessati soprattutto i trentenni, chi ha vissuto parte della propria vita sotto il regime, e che ne conserva ricordi diretti, anche se vissuti con gli occhi dell'infanzia. Per la «generazione '89», invece, per i giovani dai 15 ai 24 anni che rappresentano oggi il 17 per cento della popolazione rumena, quel periodo sembra lontano, un passato remoto che non li tocca e su cui sentono di non aver molto da dire.
Elena, è nata il 14 dicembre 1989, due giorni prima dell'inizio degli scontri di Timisoara, che diedero l'avvio alla rivoluzione. Sia lei che sua madre erano ancora in ospedale quando nelle strade della capitale si iniziò a sparare. Il padre veniva a far loro visita portando in tasca una pistola calibro 22. Elena oggi è all'ultimo anno delle superiori. “Se sono orgogliosa di essere nata nell'anno della rivoluzione? Non credo, per me è un anno come gli altri. Chi era Ceausescu? Un leader politico, nient'altro. In fondo, erano altri che decidevano per lui”.
Il «Conducator», come amava farsi chiamare il leader della Romania comunista, per i più giovani fa parte di un mondo lontano, incomprensibile e in qualche modo grottesco. “Mio figlio, che ha 16 anni, ride quando vede i filmati di Ceausescu. “Ma è ridicolo, come poteva quest'uomo essere un dittatore?”, mi chiede tra l'incredulo e il divertito”, racconta l'analista Vasilescu.
I giovani rumeni della generazione '89, pur esprimendo un interesse a volte nebuloso per il passato sono concentrati sul proprio futuro. Da un lungo dossier curato nel 2005 da un gruppo di associazioni che si occupano di disagio giovanile in Romania, è emerso che nonostante manchino specifiche politiche dedicate a questa fascia d'età, la loro percezione del futuro rimane positiva. «I giovani rumeni sono pro-globalizzazione, anche perché non hanno idee chiare su cosa sia questa globalizzazione. Amano la Coca cola e McDonald's perché sono americani e percepiscono l'ambiente globale come un luogo da cui culturalmente, economicamente e socialmente ci sia più da guadagnare che da perdere», afferma Antonio Ciocian, uno dei ricercatori coinvolti nella ricerca.
“Dopo il dicembre 1989 il nostro paese è stato in continua transizione” scrive Marian Rujoiu, curatore del dossier. “Per i giovani è molto difficile, devono abituarsi ad un contesto, assumerne i valori, ma quando lo fanno questi valori sono già mutati, perché tutto cambia in modo estremamente veloce. Ciononostante, esprimono posizioni ottimiste per quanto riguarda sia il lavoro sia il loro futuro ruolo sociale”.
Per rendersene conto, basta parlare con Andrei, anche lui nato nell'autunno del 1989. Andrei ha un blog, che è anche la sua grande passione. Quando ci incontriamo tira fuori un biglietto da visita su cui, sotto il suo nome, campeggia il titolo «blogger». L'ultimo commento postato è su un concorso di gaming, giochi di ruolo. Va in giro con una maglietta dai colori vivi, su cui è stampato a grandi lettere scure l'indirizzo del suo sito. “E' una passione, ma la mia famiglia mi sostiene, e non è detto che non ne salti fuori un lavoro. Tra vent'anni, dove mi vedo? A casa mia, con una grande famiglia e un business ben avviato. In Romania oppure all'estero, dipenderà dalle occasioni che mi si presenteranno”.
Intanto nel parco Herastrau si ripiegano i cavalletti e si raccolgono matite e squadre dalle panchine. Ilie sino ad allora in disparte, concentrato sul proprio progetto, alza lo sguardo e risponde dopo aver riflettuto con calma. “Vuoi sapere se è ancora vivo il comunismo? Di certo è vivo nell'amministrazione, nella mentalità sclerotica della burocrazia. Solo per poter disegnare in strada abbiamo dovuto chiedere tre autorizzazioni scritte a tre istituzioni diverse”. “A volte penso che non ci sia una differenza così sostanziale tra comunismo e capitalismo”, continua Ilie, seguendo il filo profondo dei propri pensieri, “oggi di certo stiamo meglio che sotto il regime, siamo liberi, ma se chiedi in giro cosa significhi davvero libertà, sono davvero in pochi quelli in grado di darti una risposta”.
«In fondo potremmo passare anni ed anni a chiacchierare del passato, dei nostri genitori, del comunismo”, lo interrompe, con un moto di impazienza Mircea, occhi chiarissimi e un ciuffo ribelle a incorniciare un viso giovanissimo, quasi adolescente: “Oggi però siamo qui per parlare di spazio pubblico”. Cerca un foglio pulito, rovista nella sua borsa di tela e ne estrae un pennarello nero. Schizza convinto la sezione di una strada, sui due lati due stretti marciapiedi e due persone che sembrano avere a malapena spazio per passeggiare. In mezzo un mare di automobili. “Questa è Bucarest oggi. Non c'è un'agorà, le persone non hanno spazi per parlare. Dobbiamo tornare a scambiare idee”. Poi, però, quando gli si chiede cosa cambiare concretamente, i suoi occhi chiarissimi tradiscono un sottile imbarazzo, un leggero senso di spaesamento.
Forse è lo spaesamento dei vent'anni, e non è diverso dai giovani volti che guardano muti dalle lapidi del cimitero monumentale di piazza Eroii Revolutiei, dove sono raccolte le spoglie di chi è rimasto ucciso nelle convulse giornate del dicembre 1989. Su ogni lapide un drappo di stoffa dai colori sbiaditi, quelli della bandiera rumena. Tanti fiori. Alcune donne si spostano silenziose tra le tombe. Schiene quotidianamente ricurve sul ricordo di mariti ma anche di figlie e figli. Quali fossero i sogni di quei giovani, Claudia, vent'anni appena compiuti, non sa dirlo con precisione: “Non credo però che siano morti invano. Hanno provato a cambiare le cose, anche se il cambiamento è avvenuto solo in parte, ma non è colpa loro. Non so nemmeno cosa ci sia nei cuori dei parenti delle vittime. In questi anni hanno posto molte domande, senza ottenere risposte. Ma devono continuare a domandare”.