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Il campione di sci sloveno Bojan Križaj
La Slovenia arriva al 1989 girando progressivamente le spalle ai Balcani. Dall'architettura alla letteratura, dalla lingua allo sci. Un contributo al nostro dossier ''Il lungo '89''
Negli anni Ottanta in Slovenia la prospettiva del paese cambiò repentinamente. Fino a quel momento era stata orgogliosamente ancorata alla Jugoslavia ed ai Balcani. Lubiana del resto non aveva avuto alternative.
Per Taras Kermauner, un vecchio scrittore non organico al regime, gli sloveni per sopravvivere dal punto di vista nazionale avevano dovuto voltare le spalle all’Europa. Scegliendo la propria sovranità erano andati contro il centroeuropa e avevano guardato ad Oriente: alla Russia prima e alla Jugoslavia poi. Così si erano “deeuropeizzati”, ma avevano sfruttato la Jugoslavia per emanciparsi.
La tagliente valutazione era stata fatta nel 1985, nel corso di un incontro segreto tra intellettuali sloveni e serbi che il regime avrebbe potuto definire della “destra borghese”. Tra di essi c’era anche Dobrica Ćosić. Si trattava di uno degli esponenti più in vista dell’Accademia delle scienze serba, che aveva già iniziato la riflessione sulla “triste” sorte dei serbi in Jugoslavia.
Le aspettative di allora, le delusioni, ma anche vent'anni di cambiamenti.
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In quel periodo gli sloveni, però, si stavano sempre più rapidamente allontanando dai Balcani e cercavano di aggrapparsi a qualcos’altro. Nella repubblica, oramai, gli scrittori, che si consideravano i veri e propri custodi della nazione, stavano riflettendo sulla “dolce morte” del popolo sloveno ed in generale di tutto il centroeuropa. Non era altro che la prosecuzione del dibattito scatenato da Milan Kundera con le sue teorie sulla sparizione dell’Europa di mezzo.
Le chiacchiere da salotto, però, si collocavano in un mutato contesto sociale. In Slovenia, come in tutto il resto della federazione, la crisi economica si era fatta pesantemente sentire. Gli sloveni, vista la posizione geografica della repubblica, potevano meglio di altri paragonare lo standard di vita jugoslavo a quello del “decadente” occidente. Gli scaffali vuoti dei negozi della federazione si contrapponevano a quelli pieni di ogni ben di Dio di Trieste o Klagenfurt.
Nel paese erano, poi, successe altre cose. Lubiana stava riscoprendo Jože Plečnik. L’architetto aveva ridisegnato in chiave post-moderna la capitale ed aveva lasciato la sua impronta anche su Praga. Sino a quel momento il suo lavoro era stato considerato decadente. Ora, invece, si cominciavano a tirare paragoni tra le due città, che facevano parte di un mondo che era stato comune nel periodo austro-ungarico.
Riavvicinarsi alla Mitteleuropa voleva dire anche allontanarsi dai Balcani. Gli sloveni, del resto, parevano alquanto infastiditi dall’afflusso di lavoratori provenienti dalle altre repubbliche jugoslave. Quegli immigrati erano considerate persone senza cultura e portatori di valori diversi da quelli sloveni. Parlavano un'altra lingua (il serbocroato) e si pensava non avessero per nulla intenzione di imparare lo sloveno e di adattarsi allo stile di vita della repubblica. Per certi versi erano visti come uno strumento per “jugoslavizzare” la Slovenia.
I “fratelli del sud”, come venivano chiamati sprezzantemente, però, rappresentavano una minaccia effimera. In realtà si trattava di operai scarsamente specializzati, che andavano a svolgere mansioni che gli sloveni non volevano più fare. Trovavano lavoro in qualche catena di montaggio o nell’edilizia.
L’aumento dell’uso pubblico del serbocroato fece preoccupare molto gli sloveni. La leadership politica, infatti, sin dall’inizio degli anni ottanta precisò che in Slovenia l’unica lingua ufficiale era lo sloveno e che non era ipotizzabile istituzionalizzare qualsivoglia forma di bilinguismo.
Non poche critiche, infatti, erano piovute all’indirizzo della televisione pubblica, che a volte non provvedeva a sottotitolare dichiarazioni in serbocroato. Di mira erano stati presi anche i libri di testo universitari. Alcuni volumi specialistici, infatti, non erano disponibili in sloveno e gli studenti si trovavano costretti ad usare quelli stampati a Belgrado o Zagabria.
Tutta questa attenzione per la lingua si tramutò anche in un mutato atteggiamento dei politici, sempre più messi sotto accusa per la scarsa propensione ad usare lo sloveno negli organismi federali. Forse proprio per questo, nel maggio del 1988 - nel pieno della crisi jugoslava - Janez Drnovšek, quando divenne presidente della federazione, pronunciò il suo discorso d’investitura in sloveno. Prima non era mai successo.
A livello sociale il riposizionamento della Slovenia nel centroeuropea passò anche attraverso lo sport. Già negli anni Settanta iniziò a crescere la passione per lo sci. Si trattava di una disciplina che era molto popolare in Austria ed in Svizzera. Due paesi questi spesso presi a modello dagli sloveni.
Il campione svedese Ingemar Stenmark cominciò a vincere in coppa del mondo con degli sci prodotti in una piccola località slovena. Quel fatto inorgogliva l’industria nazionale, che poteva, così, competere e addirittura vincere il confronto con i migliori produttori occidentali. Sull’onda di quei successi nacque un’agguerrita pattuglia di sciatori.
Nel 1980 Bojan Križaj vinse la sua prima gara di slalom in coppa del mondo. In Slovenia l’avvenimento venne accolto con lo stesso entusiasmo di una vittoria ai mondiali di calcio. Lo sci diventò lo sport nazionale. Durante le gare tutti cercavano di stare attaccati al televisore e sui posti di lavoro spuntavano miriadi di radioline. Gli appuntamenti di coppa del mondo, che facevano tappa in Slovenia, divennero delle vere e proprie feste nazionali, accompagnate da fisarmoniche che suonavano polchette e dall’immancabile presenza dei Kurenti (le maschere tipiche di Ptuj).
Quegli atleti inorgoglivano gli sloveni. La squadra era composta da sloveni ed in essa si parlava sloveno. Certo correvano per la Jugoslavia, ma quelle vittorie erano percepite come successi esclusivamente sloveni. Ovviamente si gioiva anche per le vittorie della nazionale jugoslava di pallacanestro e si soffriva durante le partite della bizzosa rappresentativa calcistica della federazione, ma se vinceva uno sciatore si festeggiava di più. Proprio nello sci, però, emergeva meglio il rapporto tra la “patria allargata”, ovvero la Jugoslavia e quella propriamente detta, la Slovenia.
Un rapporto questo che si ruppe con l’inasprirsi delle tensioni nazionali nella federazione e che si dissolse (anche dal punto di vista sportivo) nel giugno del 1991. Quando la Slovenia proclamò l’indipendenza erano in pieno corso a Roma gli europei di pallacanestro. La Jugoslavia era la favorita indiscussa. In quella squadra c’era anche lo sloveno Jure Zdovc. La leadership politica slovena gli chiese di abbandonare la squadra quando iniziò l’intervento armato in Slovenia e lui se ne andò. La finale si disputò tra Italia e Jugoslavia. Nel palazzetto dello sport qualcuno si azzardò ad esporre uno striscione per nulla profetico: “Jugoslavia unita, Italia campione”. Gli azzurri persero quella partita e la federazione si dissolse.