Dalla Bosnia al Kurdistan
28.10.2009
scrive Nicola Falcinella
Il Festival del cinema di Roma ha aperto la sua quarta edizione con ''Triage'' terzo film del premio Oscar bosniaco Danis Tanovic. Che questa volta non convince
Cambia il conflitto, ma Danis Tanovic continua a parlare di guerre, a raccontare l’uomo dentro e fuori i combattimenti. Soprattutto dopo il conflitto. “Triage”, terzo film del premio Oscar bosniaco, è stato presentato al 4° Festival di Roma come film d’apertura e nelle sale italiane il 27 novembre.
Stavolta però la pellicola, tratta dal romanzo del giornalista inglese Scott Anderson, non è all’altezza né di “No Man’s Land” né de “L’enfer”. Siamo nel 1988, Mark (Colin Farrell) è un fotografo di guerra inglese che va in “Kurdistan” (il Kurdistan iracheno, ma le riprese sono state fatte in Spagna, nei pressi di Alicante) con l’amico e collega David (Jamie Sives) per seguire gli scontri tra peshmerga e soldati di Saddam Hussein. A casa a Dublino lasciano le rispettive compagne, Elena (Paz Vega) e Diane (Kelly Reilly), la seconda delle quali incinta.
Mark conosce bene la situazione tra quelle montagne, dove si sente davvero vivo, ha un rapporto stretto con il medico kurdo Talzani che tiene in piedi un precarissimo ospedale da campo ma è molto ambizioso e non vuole perdersi l’offensiva che i ribelli stanno per scatenare. L’amico è invece distratto dalla paternità imminente e vuole rientrare a casa. Si separano, ma subito dopo avviene un’esplosione. Mark si ritrova sotto shock e ferito nell’ospedale: una volta rimessosi torna a casa, ma l’amico non è ancora giunto.
I giorni passano, le condizioni del fotografo peggiorano a vista d’occhio e del collega nessuna notizia. Una volta compreso che si tratta di una sindrome post-traumatica dei reduci di guerra, Elena fa venire dalla Spagna il nonno ex franchista e psichiatra Joaquin (Christoher Lee) per aiutare il marito e ricostruire l’accaduto.
Il film ha deluso le aspettative, rovinando alcune sequenze riuscite come quelle dell’ospedale, degli attacchi e delle esplosioni con troppe banalità: quanto la parte kurda funziona, quella londinese è all’insegna del deja vu e tende all’inverosimile. Per esempio Mark ha perso tutto ma non le chiavi di casa e fa rientro all’insaputa della moglie oppure Elena e il nonno parlano spagnolo al telefono e inglese tra di loro; alcune battute di Joaquin, che pure avrebbe un ruolo interessante, suonano involontariamente comiche. Così i discorsi sull’ossessione adrenalinica dei reporter di guerra, l’attesa dei parenti che restano a casa, il senso di colpa di chi sopravvive, il ruolo dell’Onu, la possibilità di “redimere” o “purificare” i criminali di guerra restano confusi e irrisolti dentro un melodramma di piccolo cabotaggio.
Alcuni momenti sono però bellissimi, come la sequenza dell’attacco dei guerriglieri kurdi al convoglio di soldati iracheni. La struttura del film ricorda un po’ il capolavoro di Micho Manchevski “Prima della pioggia” per il fotografo come protagonista e per i due piani di osservazione della guerra.
L’altra presenza balcanica, oltre al regista, è quella di Branko Djuric, il bosniaco sloveno d’adozione attore di “No Man’s Land” nonché regista e interprete di “Kajmak in marmelada” e “Traktor, ljubezen in Rock’n’Roll”, nei panni del dottor Talzani.
Resta nella memoria quando il medico spara ai malati troppo gravi che non può curare per potersi dedicare agli altri, come se potesse riportare alla vita ma anche consegnare alla morte. Parlando con i giornalisti Tanovic ha ripetuto il pessimismo sul ruolo dell’Onu che era già in “No Man’s Land”: “Durante la guerra di Bosnia ha imposto l’embargo sulle armi ai mussulmani e poi forniva loro cibo. È come se durante lo stupro di una donna arrivasse il vicino che anziché cacciare lo stupratore la lega perché non reagisca e insieme le metta cioccolato in bocca. L’Onu così com’è non serve, finirà come era finita la Società delle nazioni. Io non credo alla neutralità, perché la neutralità favorisce gli aggressori. Lo stesso vale per il Darfour. Non si può stare a guardare, bisogna intervenire, il punto è decidere chi e come deve intervenire”.
Il regista bosniaco ha aggiunto che “i media, i fotografi e i giornalisti influenzano le guerre con la loro presenza, se non ci fossero stati loro il conflitto in Bosnia sarebbe stato ancora più terribile”. “Ho grande rispetto per i reporter di guerra – ha concluso Tanovic – perché è un’esperienza che ti tocca. Io sono stato qualche giorno a Kabul per contribuire a riaprire un cinema, perché ci sembrava un contributo utile, e quando sono rientrato ho avuto bisogno di un paio di settimane per tornare alla vita normale. Oggi le persone ricevono tante informazioni, ma questo non vuol dire sapere più cose. Non credo nell’oggettività, i giornalisti sono necessariamente soggettivi, quello che si può chiedere è un atteggiamento morale. Preferisco un modo di fare informazione all’antica, uno che partiva, viaggiava, stava nei luoghi e raccontava ciò che aveva capito. Ora abbiamo tante notizie in tempo reale ma alla fine non si dice nulla”.