Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/12156/1/66>
L’Europa ha appena festeggiato il ventesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino, evento che ha segnato la fine dell’epoca del socialismo reale. Il 1989 rappresenta un momento di svolta anche per la società jugoslava e post-jugoslava oppure la Jugoslavia costituisce un’eccezione nel contesto globale?
Ad una prima rapida analisi degli eventi e dei protagonisti del processo di transizione post-1989, la Jugoslavia pare davvero essere un’eccezione rispetto a quanto verificatosi in altri stati. In Jugoslavia non c’è stata infatti nessuna “rivoluzione pacifica”, né nel 1989 né negli anni seguenti. Non ci sono state manifestazioni di massa per deporre i rappresentanti del regime, i cittadini non si sono riuniti in
demos, non è stata l'azione di un’opposizione democratica alla nomenclatura comunista a scardinare dall’interno l’ormai paralizzato regime ufficiale. In Jugoslavia, semplicemente, le istituzioni statali centralizzate sono state inghiottite dalle lotte intestine verificatesi all’interno dell’apparato partitico di stato, tra i rappresentanti dei vari soggetti federali. In alcuni casi, i regimi sono riusciti a rimanere in piedi mutando la componente etnica dei propri rappresentanti, mentre in altri casi l’incapacità di gestire i conflitti etnici interni ha effettivamente generato cambiamenti significativi all’interno della struttura stessa dei regimi. Tali mutamenti si sono tuttavia verificati in contesti in cui la “classe operaia” si era già tramutata in
ethnos e non in
demos.
Tuttavia, se si tralasciano i singoli protagonisti e i singoli eventi e si analizzano a un livello più profondo le cause politiche e sociali della dissoluzione della Jugoslavia socialista, risulta evidente che la fine della Jugoslavia è un processo inscrivibile soltanto nel contesto, unico nel suo genere, venutosi a creare su scala globale nel 1989. Così come accadde per le società impostate sul modello sovietico di socialismo, la crisi jugoslava degli anni ’80 non fu semplicemente frutto di un disagio passeggero, bensì la manifestazione di un problema strutturale ben più profondamente radicato.
La crisi economica che colpì l’Europa dell’Est fu infatti soltanto il risultato di un lungo processo, alla fine del quale divenne evidente che le economie socialiste non erano in grado di competere con quelle di mercato. Già nei primi anni ’70 la nomenclatura jugoslava aveva rinunciato a mettere in atto qualsiasi serio tentativo di creare un sistema economico basato sull’autogestione, preferendo rafforzare gli equilibri di potere esistenti e cercando ad ogni costo di nascondere le contraddizioni di base presenti nel sistema economico attraverso l'applicazione di metodi basati sulla pura teoria, spesso in chiara contraddizione con i principi del socialismo. Tali iniziative riuscirono per un certo periodo a bilanciare l’irrazionalità delle politiche economiche intraprese, ma non furono sufficienti ad evitare il crollo finale dell’economia jugoslava. Inoltre, il diffondersi di rapporti di tipo informale e semi-formale all’interno delle istituzioni ufficiali ha lentamente eroso, nel corso di oltre un ventennio, l‘autorevolezza dello stato e delle istituzioni sociali, che alla fine degli anni ’80 avevano ormai perso ogni tipo di credibilità. L’ideologia ufficiale ha finito per subire lo stesso destino.
La Jugoslavia e gli altri paesi dell’Europa dell’Est hanno dunque una caratteristica in comune: i sistemi socialisti erano già stati scardinati dall’interno, ben prima che entrassero in scena i cosiddetti “fautori del cambiamento”.
Quali sono stati i principali fattori di cambiamento negli ultimi vent’anni e come definirebbe il processo di “transizione” nei paesi dell’Europa sud-orientale (incompleto, lungo, fallito…)?
Le aspettative di allora, le delusioni, ma anche vent'anni di cambiamenti.
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Mentre i paesi dell’ex blocco comunista si sono avviati verso il benessere economico generato dall’adesione a sistemi economici di stampo occidentale, le dinamiche del cambiamento hanno invece trascinato la società jugoslava in un tragico vortice fatto di esasperazione delle differenze etniche, disgregazione e guerra che ha finito per distruggere totalmente la società. Nell’ex stato jugoslavo ormai in via di dissoluzione, i mutamenti politici e sociali avvenuti negli anni ’90 hanno assunto carattere contraddittorio: da una parte, si cercava di instaurare strutture legislative e istituzionali in linea con quelle adottate nelle democrazie occidentali, dall’altra si faceva di tutto per esasperare i conflitti etnici.
I mutamenti sociali e politici verificatisi negli anni ’90 hanno avuto risultati senza ombra di dubbio negativi. L’etnicizzazione forzata della società ha favorito il protrarsi di una tradizione politica improntata all’autoritarismo sotto spoglie solo formalmente pluraliste: ha continuato a prosperare un modello basato su amicizie private e su rapporti di natura informale e semi-formale e su reti chiuse formate da singole élites politiche ed economiche che, a lungo termine, hanno contribuito ad intaccare ulteriormente la credibilità delle istituzioni statali e, in ultima istanza, l’autorità statale stessa. L’omogeneizzazione etnica e ideologica e un diffuso senso di legittimazione sociale della violenza hanno agito da collante naturale per le nuove comunità etniche ma, allo stesso tempo, hanno contribuito a sciogliere i legami di solidarietà profonda che costituiscono i fondamenti di ogni società. La messa in atto dei meccanismi della democrazia parlamentare e del principio di legalità e l’applicazione dei principi dell’economia di mercato in un contesto del genere ha contribuito a svilire i valori della democrazia agli occhi della popolazione, arrecando danno a tutte le parti coinvolte, dai rappresentanti del regime a quelli dell’opposizione. Ecco perché si può parlare di una trasformazione in negativo, che rende gli stati dell’Europa sud-orientale diversi da altri paesi dell’Europa dell’Est.
Cosa ne pensa dei nuovi processi di frammentazione nazionale? Come si rapporta ai processi di costruzione dello stato e della nazione messi in atto negli ultimi vent’anni?
Il sorgere del nazionalismo di stampo etnico nei Balcani ha disorientato il mondo, che si aspettava di veder sorgere “la fine della storia” dalle ceneri del comunismo. Nonostante lo shock causato dal riproporsi di guerre e violenze di massa nel cuore stesso dell’Europa alla fine del XX secolo abbia indotto molti a rifugiarsi nella rassicurante idea di un problema esclusivamente “balcanico”, le radici profonde della dissoluzione del socialismo reale sono da ricercarsi nel concetto stesso di “nazione”. All’epoca infatti molti ebbero la sensazione di avere fatto un balzo all’indietro nel XIX secolo: le personalità politiche, i partiti e altre realtà collettive della società civile alla ricerca di una propria identità rivolgevano sempre più lo sguardo all’era pre-comunista; allo stesso tempo, l’opinione pubblica mondiale e gli esperti di sociologia iniziavano a parlare sempre più spesso di un ritorno all’era del nazionalismo e del concetto di stato-nazione.
Il denominatore comune dell’epoca è il modo in cui i protagonisti del processo di transizione, gli analisti e l’opinione pubblica hanno deliberatamente ignorato il semplice dato di fatto che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo sono emerse relazioni sociali totalmente nuove. Queste relazioni sociali furono invece interpretate in base a parametri ormai obsoleti, venendo in questo modo scambiate per una manifestazione della continuità delle tradizioni nazionali e culturali. La scelta di applicare tali parametri si è rivelata di fatto del tutto arbitraria, poiché i fenomeni di modernizzazione e l’abbandono delle tradizioni verificatisi nella seconda metà del XX secolo avevano già minato le basi stesse dei concetti di identità nazionale, territoriale e culturale (i quali avevano già attraversato una profonda crisi alla fine del XIX secolo) e messo in discussione le relazioni sociali di stampo tradizionale (improntate sul senso d’identità religiosa e culturale).
Tuttavia, questi concetti non hanno perso il proprio fascino, e la possibilità di invocarli in maniera del tutto arbitraria rende ancora più facile applicarli a qualsiasi contesto su scala globale. È proprio questa arbitrarietà ad innescare un meccanismo sociale di autocoscienza collettiva basata su alcuni termini-chiave come “identità”, “tradizione”, “cultura”, “religione” e così via. Il fatto che questi concetti si siano rivelati ancora estremamente potenti dopo il 1989 si spiega con la funzione conservativa che essi ricoprono all’interno di una società. I dibattiti pubblici incentrati sull’identità collettiva sono in realtà modi di nascondere la testa sotto la sabbia: il senso profondo di questi discorsi deve essere cercato non tanto nei contenuti concreti (di tipo ideologico), quanto piuttosto nella funzione sociale che essi svolgono, giacché parlare di “identità collettiva” distoglie l’attenzione dai veri problemi che possono sorgere quando si tenta concretamente di costruire una società. Al tempo stesso, i concetti di “tradizione” e “identità” offrono un tenue senso di appartenenza e valori ideali a chi vi si riconosce, e permettono di esprimere il proprio dissenso sociale senza realmente obbligare nessuno ad offrire un’alternativa allo status quo. Nel caso delle società che uscivano da un modello politico di stampo socialista, fare appello a questi concetti per interpretare ciò che stava avvenendo aiutava infine ad affrontare un futuro che si faceva sempre più incerto nel caos generato dalla crisi e dal disfacimento del vecchio sistema socio-economico.
Mentre il fascino esercitato dal tema dell’autocoscienza collettiva sembra avere le stesse caratteristiche ovunque, gli effetti sociali e politici che genera variano da società a società. È infatti indubbio che l’argomento del “ritorno alla nazione” abbia avuto un effetto di emancipazione sia nella ex DDR che in altri paesi del Patto di Varsavia, innescando un processo di profonda trasformazione economica e politica. Le società post-jugoslave si sono invece trovate ad affrontare processi di trasformazione totalmente nuovi, che implicavano processi di etnicizzazione forzata in tutte le sfere; l’intera società post-jugoslava si è trovata letteralmente impantanata in una palude di autoritarismo, violenza e stragi di massa. Le cause per cui la Jugoslavia si è trovata a compiere questo tipo di percorso dovrebbero essere cercate, piuttosto che nella storia pre-comunista dell’Europa sud-orientale, nella trasformazione di dispute sorte tra diverse categorie sociali in conflitti territoriali, avvenuta in seguito al processo di decentralizzazione autoritaria, nonché nel carattere quasi formale con cui la questione etnica è stata istituzionalizzata, che ha reso il socialismo jugoslavo diverso da quello sovietico.
Che ruolo svolge il fenomeno dell’etnicizzazione nell’ambito dei processi di democratizzazione e integrazione europea? Fino a che punto l’etnicizzazione è compatibile con questi processi?
Il rapporto tra il nazionalismo di stampo etnico nell’Europa sud-orientale e i processi di democratizzazione e integrazione europea resta decisamente ambivalente. Gli avvenimenti politici verificatisi in Croazia e in Serbia nel ’99 e nel 2000 in seguito alla caduta dei regimi al potere rappresentano una prova lampante di tale ambiguità. Questi eventi sono stati salutati come “rivoluzioni pacifiche” paragonabili a quelle avvenute nel 1989, ma presentano alcune sostanziali differenze. Verso la fine degli anni ’90 infatti le critiche dell’opposizione ai regimi al potere erano rivolte soprattutto all’autoritarismo e alla corruzione dilagante, ma la base ideologica su cui tali regimi fondavano il proprio consenso, come, ad esempio, il nazionalismo di stampo etnico, non venne mai messa radicalmente in discussione, né sembra tuttora aver perso del tutto la propria legittimità. Un altro fattore-chiave è il diverso ruolo svolto dal conformismo sociale: mentre questo fenomeno ha indubbiamente avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione dei sistemi politici basati sul socialismo reale avvenuta nei paesi dell’Europa centrale e orientale, nei Balcani il conformismo ha finito per fungere da giustificazione psicologica e sociale di svolte autoritaristiche e fenomeni di regressione sociale.
Tuttavia, la manifestazione più evidente dell'ambiguo rapporto che intercorre tra i processi di integrazione europea e il nazionalismo di stampo etnico è il caso della Croazia, vale a dire il paese balcanico in cui gli sforzi di integrazione e trasformazione hanno avuto maggior successo ma anche quello in cui tali processi sono stati deliberatamente posticipati e rallentati. In Croazia infatti il consenso nazionale (nazionalista) si è fuso con il consenso all’integrazione europea soltanto verso la metà del decennio in corso, diventando il motore di un processo di integrazione e di riforme ben più avanzato rispetto a quanto avvenuto nei paesi vicini. Tuttavia, già si pone il problema del rapporto tra riforme sostanziali e riforme di facciata: quanto può essere considerato credibile un processo di riforma democratica basato su un consenso che fino a pochi anni fa era coinvolto in processi anti-democratici e appoggiava la violenza di massa? Il problema è reso ancora più spinoso dal fatto che i paesi dell’area balcanica occidentale devono affrontare ben due eredità difficili da gestire: quella socialista e quella post-socialista, foriera di ulteriori problemi come, appunto, il nazionalismo di stampo etnico. Inoltre, sorge spontaneo chiedersi fino a che punto possa essere effettivamente messo in atto un processo di transizione simile, da realizzarsi all’ombra dell’integrazione europea, in altri stati dell’Europa sud-orientale (Serbia, Bosnia Erzegovina), dove tale commistione di nazionalismo e supporto all’integrazione europea è soltanto in parte realizzabile.
In tale contesto si fanno sempre più evidenti i motivi per cui le sorti del processo di riforma democratica nella regione sono ancora incerte; appare inoltre comprensibile la difficoltà lamentata dagli esperti nel fornire una valutazione degli sviluppi socio-politici che caratterizzano il processo di transizione, definito di volta in volta eccessivamente lungo, ambiguo, incompleto o addirittura fallito.
L’Europa è diventata un attore politico più forte nei 20 anni che hanno seguito la caduta del Muro di Berlino?
L’Europa è uscita decisamente rafforzata da questi due decenni. L’Unione Europea ha visto aumentare sia il numero degli stati membri che la propria influenza nell’area europea; inoltre, ha iniziato a plasmare una politica estera e di sicurezza comune, un enorme passo avanti rispetto al sostanziale fallimento registrato negli anni ’90 durante il conflitto dei Balcani. Tuttavia, questi progressi poggiano ancora su basi fragili, così come i processi di trasformazione avvenuti nell’Europa sud-orientale. Ci sono ancora conflitti irrisolti legati allo status di regioni come il Kosovo e la Bosnia, che minacciano di innescare nuovamente dinamiche di regresso sociale ed etnicizzazione, mettendo a repentaglio i progressi avvenuti nel processo di trasformazione. L’Europa non ha ancora affrontato tali tematiche in modo sufficientemente deciso. In Kosovo la UE continua ad agire in maniera esitante, invece di rimanere unita e ferma sulle proprie posizioni. In Bosnia, invece di aiutare il paese a raggiungere la stabilità politica e di incoraggiare iniziative che garantiscano l’efficace funzionamento dell’apparato statale, la mancanza di volontà, l’ignoranza e la cocciutaggine burocratica della UE rischiano di far degenerare la situazione politica, scatenando nuovi violenti conflitti etnici che trascinerebbero nuovamente l’intera regione nella violenza. L’Europa deve dimostrare di sapere approcciarsi all’area balcanica con impegno e serietà se vuole continuare ad accrescere la propria forza ed autorevolezza.