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Si è chiuso lo scorso 21 novembre il Torino Film Festival. Il premio del pubblico è andato al film ''Medaglia d'onore'', di Calin Netzer. Un risultato che conferma il successo dello ''stile rumeno''
Un altro buon film romeno che conferma l’ottimo momento – almeno al cinema - di quel Paese d’Europa. “Medalia de onoare – Medaglia d’onore” di Calin Netzer (già noto per “Maria” del 2004) ha vinto il premio del pubblico al 27° Torino Film Festival.
Una manifestazione, diretta per la prima volta da Gianni Amelio, che ha anche ospitato nella sezione “Festa mobile” l’anteprima italiana dell’altro romeno, “Politist, Adjectiv” di Corneliu Porumboiu già premiato a Cannes: il regista di “A est di Bucarest” ha realizzato un’opera ancora migliore rispetto al suo esordio che si spera possa avere una circolazione da noi.
Il film di Netzer conferma (insieme a “Francesca” di Bobby Paunescu in questi giorni nelle sale) che si sta creando uno “stile romeno”, quasi un movimento a posteriori. Se le prime ondate di film da Bucarest e dintorni avevano elementi in comune ma non rispondevano a regole codificate o condivise, questi ultimi ricalcano un linguaggio simile. Per esempio le scene riprese in un’unica inquadratura, senza tagli, a ricomporre un tempo reale, poi i movimenti di macchina ridotti al minimo e la camera quasi sempre a mano, anche quando è fissa. Un metodo che richiede grandi capacità attoriali: non a caso ci sono quasi sempre gli stessi interpreti e tutti molto bravi.
“Medaglia d’onore” è la storia del settantacinquenne Ion (Victor Rebengiuc), che vive con la moglie Nina che non gli rivolge più la parola in un appartamento freddo (si ride fin dalla prima inquadratura) mentre il figlio Cornel è emigrato. La causa del rancore sta nell’aver denunciato alla polizia comunista la sua intenzione di lasciare il Paese.
L’anziano ha l’occasione di riabilitarsi quando riceve dal ministero della Difesa una medaglia al valor militare per le gesta eroiche durante la Seconda guerra mondiale, anche se non si sa per quale azione. Potrebbe essere il momento per riscattarsi e rimediare agli errori compiuti, se Ion non fosse così abituato a subire e farsi umiliare da continuare a chiedere informazioni all’ufficio ministeriale finché scopre che l’onorificenza non era per lui ma per un quasi omonimo. E quando moglie e figlio ricominciano a parlargli (e quest’ultimo torna dagli Usa con un nipotino che non parla la lingua madre) dovrà costruire un nuovo castello di bugie e offrirsi all’ennesima umiliazione. Si ride amaro per una vicenda tragicomica nella sua quotidianità, quasi una delle leggende metropolitane de “L’età dell’oro” di Cristian Mungiu e compagnia: però quelle erano per vivere nonostante tutto, qui al limite c’è la sopravvivenza, arrivando all’estremo della meschinità che è in noi.
Pregevole il turco “Hayat var – My only Sunshine”, quinto lungometraggio di Reha Erdem, già premio dei lettori del Tagesspiegel al Festival di Berlino 2009 e presentato fuori gara. È un ritratto di una quattordicenne di un quartiere periferico di Istanbul. Hayat vive lungo il Bosforo con un padre pescatore che non c’è mai e un nonno malato d’asma che vive attaccato al respiratore e dipende in tutto dalla nipote.
Istanbul è vista dal mare, bella e ostile, e anche l’acqua è continuamente percorsa da grandi navi e non c’è inquadratura che non ne comprenda almeno una. Del resto i traffici illeciti (alcool e prostitute) con i cargo di passaggio sono quelli che permettono al genitore di arrotondare, finché non viene scoperto e arrestato. Per Hayat (il titolo inglese riprende la celebre canzone che tiene sempre nelle cuffie e fa da controcampo) il destino sembra già segnato: “Sei bella, presto ci farai concorrenza”, le dice una ragazza che si prostituisce mentre la trucca. Il film è delicato e duro, con momenti di grande intensità e altri comici.