Sahib
14.01.2010
scrive Azra Nuhefendić
Nenad Veličković
L’incomprensione tra i bosniaci e la comunità internazionale è il soggetto dell'ultimo libro di Nenad Veličković. Le tragicomiche avventure di un inglese che lavora a Sarajevo per un'organizzazione umanitaria, l'ironia tagliente del suo autista
“Saragevo”. Così, in modo sbagliato, pronunciavano il nome della città quelli che per primi si sono recati a Sarajevo all’inizio della guerra: i giornalisti e i membri delle varie organizzazioni internazionali.
Molti, ancora prima che venissero là (o “giù”, perché per definizione quelli che sono diversi dal mondo civile sono sempre “giù”), si credevano “esperti” della situazione politica della Bosnia Erzegovina, della nostra storia, costumi, abitudini.
L'entourage delle guerre e dei conflitti è costituito da una fauna simile a quella dei vacanzieri che frequentano i villaggi turistici. In qualsiasi posto del mondo vadano, sanno che troveranno sempre le stesse condizioni, e che oltre il recinto ci saranno i locali, anch'essi sempre uguali.
Da un giorno all’altro anche noi bosniaci siamo diventati “locali”, “indigeni”. Presto ci siamo accorti che l'errore nella pronuncia del nome della città era la cosa più innocua.
Quello che non sopportavamo erano i pregiudizi e gli stereotipi con i quali gli altri venivano, e che rispedivano indietro: i giornalisti negli articoli, i politici e i diplomatici nei loro rapporti. Come una lunga, incurabile malattia, questo è quanto si trascina dietro il nome Bosnia e ci accompagna ancora oggi, quindici anni dopo la fine della guerra.
“Il vero cavaliere è colui che combatte per una causa già persa”. Lo afferma uno dei personaggi di “Sahib”, di Nenad Veličković. Credo esprima in modo accurato come si sente la maggior parte dei bosniaci oggi: stanno combattendo una battaglia persa in anticipo.
L’incomprensione tra i bosniaci e i membri dell’eterogeneo gruppo che rappresenta la comunità internazionale è il principale protagonista del libro “Sahib”. Tramite due personaggi, lo scrittore Nenad Veličković descrive la tragica e nello steso tempo comica attualità della Bosnia attuale.
“Qui chiamano mentalità quello che per noi è un disturbo mentale”, afferma un giovane inglese, Sahib, che è giunto in Bosnia per una missione umanitaria. Sahib è il suo soprannome, lo chiama cosi il suo nativo, Sakib (un comune nome musulmano) di Sarajevo, che gli fa da autista.
Già con i nomi dei personaggi principali l’autore comincia a costruire una storia fatta di contraddizioni tra la presunta superiorità occidentale e un paese conservatore. “Sahib”, ovvero “il padrone”, è infatti il titolo onorario assegnato dagli indiani ai dominatori inglesi.
I due personaggi, per il lavoro che fanno, trascorrono molto tempo insieme. Non c’è tanta stima tra di loro, non si capiscono bene, ma con il passare del tempo si crea un’amicizia particolare che renderà possibile una serie di situazioni comiche, fraintendimenti, incomprensioni e vittimismi.
Sahib, l’inglese, è cinico, ignorante e razzista. Gli scopi del suo soggiorno a Sarajevo sono tutto fuorché filantropici: “Ti ho già detto che la nostra missione qui non è aiutare le vittime di guerra in Bosnia, ma far tornare i rifugiati dalla Comunità Europea dove risiedono e vivono già da troppo tempo sfruttando gli aiuti sociali”, afferma Sahib. E poi: “I nostri governi si aspettano da noi rapporti completi, non risultati.”
Il suo autista, Sakib, bosniaco, cerca di esaudire i desideri del suo padrone. Talvolta esagerando, anche quando - tipicamente per i bosniaci - questo vuol dire farsi del male.
La satira di Veličković è tagliente, fa male, ma non è cattiva. La sua percezione è fantastica. Ridicolizza i falsi miti, dubita della politica, ci fa vedere l’assurdità dei cliché, svela pregiudizi e stereotipi nascosti. Veličković non giudica, ma non perdona neanche.
Senza pietà fa i conti con i propri connazionali, con la Bosnia stessa. Parla, tramite la bocca dell’inglese, di uno dei posti sacri di Sarajevo, il cuore della città vecchia: “La piazza dove oggi ho bevuto un tè, in una parte della città che si chiama Baščaršija, mi ha ricordato Venezia. Non per la grandezza, ma per la puzza dei piccioni.”
Per quelli che non conoscono la mentalità bosniaca, e specialmente quella della gente di Sarajevo, scrivere una cosa del genere potrebbe sembrare un sacrilegio. E’ sbagliatissimo, perché la Bosnia di Nenad Veličković può essere sporca e puzzolente, ma senza dubbio è da lui amatissima.
Veličković scherza sulla limitatezza di vedute della società occidentale, condanna la politica di colonizzazione che si nasconde dietro la retorica della liberazione e della democratizzazione dei popoli: “Come faccio ad allenarli? E' semplice, in inglese. Io non so le regole, loro non sanno l'inglese, e andiamo d’accordo una meraviglia. Loro giocano, io arbitro, ogni minuto soffio nel fischietto e mando fuori qualcuno. Se si oppone, gli tolgo la mazza. Così non si oppone nessuno.”
La trama del libro è semplice ma efficace, e finisce in thriller. Fino alla fine non capiamo la storia completa.
“Sahib” di Nenad Veličković è un libro molto divertente, istruttivo, scritto molto bene. Si legge facilmente e, tra una risata e l’altra, l’autore ci racconta “l’impressione dalla depressione”. Proprio così, infatti, è stato intitolato il suo libro in Croazia.
Autore: Nenad Veličković
Edizioni Controluce
Collana: Passage 11
Categoria: letteratura balcanica
Pagine: 164, € 15,00