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Un'immagine tratta dal film "Đavolja varoš"
Un regista serbo vince la 21ma edizione del Trieste Film Festival. Dopo una settimana di belle proiezioni e tanti ospiti di prestigio, la manifestazione triestina si è confermata come punto d’incontro per il cinema dell’Europa centrale e orientale. Più per gli stranieri che per l’Italia, il primo festival dell’anno solare continua a essere sottostimato dagli addetti ai lavori italiani
La giuria lungometraggi del Trieste Film Festival ha assegnato il “Premio Trieste”, come era nell’aria, a “Đavolja varoš” di Vladimir Paskaljević. L’esordiente belgradese, figlio del grande Goran (presente con il suo spietato “Honeymoons” che meriterebbe una distribuzione italiana, se non altro per, accostato al romeno “Francesca”, farci capire come dai vicini paesi a est ci guardano) ha portato un intreccio di storie molto attuali. Un po’ sulla struttura (tutto ruota attorno a una partita a tennis delle dive serbe della racchetta) della paterna “Polveriera” ma con meno precisione, amalgama e ferocia. Del resto quello del padre fu uno dei capolavori degli anni ’90, mentre Vladimir deve ancora mettere a punto un po’ la mira anche se promette bene e la sua opera prima ha vari pregi. “Đavolja varoš” è una black comedy premiata “per il coraggio e la chiarezza con le quali un giovane regista descrive, attraverso un montaggio puntuale e una regia eccellente, una città da cui gli Dei sono fuggiti”. Paskljević jr non è il “figlio di”, raccomandato: ha girato in digitale a basso budget (come del resto gli ultimi lavori del padre, per il quale aveva scritto la sceneggiatura di “Optimisti”) e come vantaggio ha avuto soprattutto due attori come Lazar Ristovsky e Slavko Stimac nel composito cast.
Menzione speciale all’altro serbo “Ordinary People” di Vladimir Perišić, già rivelato a Cannes e il più bello del concorso, duro come racconto di formazione di un giovane criminale di guerra e fiducioso (un ottimismo della volontà in mezzo al tracollo della ragione) buttando là una possibile redenzione intesa come inizio di presa di coscienza.
Menzione pure al greco “Kynòdontas” di Iorgos Lànthimos, la classica trappola per le giurie (c’è a quasi tutti i festival, all’ultima Mostra di Venezia è successo con il Leone d’oro “Lebanon”) che però ha rappresentato sul palco della premiazione una cinematografia che si sta risvegliando. Nel concorso era presente un altro titolo ellenico “Mikro egklima – Piccolo crimine” di Christos Georgiou e soprattutto ospite del festival era Teo Angelopoulos a coronare la seconda parte della retrospettiva “Cinema greco. Passione e utopia” che ha rivelato su tutti il quasi sconosciuto “Krystallines Nychtes – Notti di cristallo” (1991) di Tonia Marketaki. Il più noto dei registi greci ha portato “Taxidi sta Kythira – Viaggio a Citera” (1984, quasi inedito in Italia) ancora attualissimo e potente nella sua riflessione sulla storia, sul tempo che non passa e dell’eterno ritorno di un Ulisse ramingo tra nebbie e utopie della politica. E ancora la prima italiana del suo ultimo lavoro “I skoni tou chronou” con Willem Dafoe, Michel Piccoli, Bruno Ganz e Irène Jacob, al contrario involuto e manierato.
Fuori dai premi purtroppo l’ungherese “Nem vagyok a baratod – Non sono tuo amico” di Gyorgy Palfi (già autore del folle e potente “Taxidermia”). Una guerra dei sessi con nove personaggi e tutti incrociati tra loro, in legami troppo fragili e superficiali per durare e troppo vincolanti per non fare male, in un gioco al massacro che tiene avvinti fino in fondo. Molto buona la prova del cast che ha lavorato in soli venti giorni sulle improvvisazioni. La storia ha come prologo un cortometraggio in una scuola dell’infanzia dove i legami d’amicizia non sono facili (da qui il titolo): come se il destino degli adulti fosse già segnato.
Bello pure “Cea mai fericita fata din lume – La ragazza più felice del mondo” del romeno Radu Jude. Titolo ovviamente ironico per l’esordio dell’ennesimo talento di Bucarest, anche se nella nuova onda balcanica va riconosciuto il merito, oltre che di registi e attori, anche del direttore della fotografia Marius Panduru, che ha lavorato in quasi tutte le opere più significative. Jude racconta la giornata che dovrebbe cambiare la vita di una modesta famiglia di provincia. La diciottenne Delia ha vinto il concorso lanciato da una ditta produttrice di succhi di frutta e si è aggiudicata un’auto nuova. Dovrà girare uno spot (e recitare la frase del titolo) prima di ritirarla. I suoi genitori, che la accompagnano, vogliono rivenderla per investire il ricavato nella ristrutturazione di una casa e affittare le stanze, mentre nella testa della giovane si rafforza via via la voglia di tenersi la vettura per sentirsi finalmente all’altezza delle compagne di studi. La storia mette l’una contro l’altra più idee del paese e del futuro, era chi ha lavorato tanto per vivere con dignità e chi vuole godersi un piccolo benessere. Jude mette un po’ tutti alla berlina, compreso il rappresentante della ditta di succhi che non è mai soddisfatto delle riprese dello spot e all’ennesimo ciak invita il regista a scurire il succo perché “non è abbastanza invitante”.
Il pubblico ha premiato il tedesco “Sturm – Tempesta” di Hans-Christian Schmid sui processi dell’Aja, una pellicola sulla quale torneremo presto, come pure su “Crnci – I neri” dei croati Goran Devic e Zvonimir Juric. Il premio Cei 2010 “al film che meglio interpreta la realtà contemporanea e il dialogo tra le culture” è andato invece al bulgaro “Eastern Plays” di Kamen Kalev.
Tra i cortometraggi premio all’ungherese “Variációk” di Krisztina Esztergályos e menzioni speciali al georgiano “Felicità” di Salomé Aleksi e al greco-cipriota “Odigies Chriseos” di Costas Yiallourides. Gli spettatori hanno invece votato l’esilarante tedesco “Bob” di Jakob Frey e Harry Fast.
Ancora una volta di alto livello la selezione dei documentari, dove il primo premio è andato, all’unanimità” al tedesco-svizzero “Die frau mit den 5 Elefanten” di Vadim Jendreyko con menzioni a “17 Avgusta” del russo Aleksandr Gutman e al parzialmente autobiografico “Holka Ferrari Dino” del ceco Jan Němec, un grande nome del cinema europeo.
Per la sezione “Zone di cinema”, riservato a film girati in Friuli Venezia Giulia, il pubblico ha premiato l’originale “Velma” di Piero Tomaselli. Un esordio piccolo, tutto girato nella laguna di Marano con un cameo di Gianmarco Tognazzi, ma ambizioso nella sua ricerca visiva, con qualche difetto ma poco italiano nell’immaginario e nello spirito.
Infine l’interessante rassegna “Muri del suono” ha proposto vari documentari sulla musica in senso lato. Su tutti il potente e immaginifico “Komeda: Muzyczne sciezki zycia – Komeda: colonna sonora di una vita” di Claudia Buthenhoff-Duffy sul grande musicista Krzysztof Komeda che firmò colonne sonore memorabili per Roman Polanski (da “Il coltello nell’acqua” alla ninna-nanna di “Rosemary’s Baby), Jerzy Skolmowski, Andrzej Wajda e altri, si trasferì a Hollywood e morì a soli 38 anni in seguito a una banale caduta nel’68. Un lavoro dove musica e cinema hanno lo stesso, alto valore, dove si coglie il valore che i suoni giusti aggiungono ai film e ci si delizia con le opere di una stagione di arte libera (nonostante il regime) che oggi sembra lontana e dimenticata.