Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/12508/1/41>
Nel 2009 il Dipartimento di Stato Usa guidato da Hillary Clinton ha premiato Vera Lesko come “eroe” della lotta al traffico di esseri umani, e dal 5 febbraio 2010 è anche “ambasciatrice onoraria” dell’Albania nel mondo. Col suo stile diretto, Vera Lesko ha indicato ai governi, a partire da quello di Tirana, i provvedimenti mancati e le nuove sfide in materia di
trafficking, anche firmando con lo staff di “Vatra” importanti ricerche annuali.
Vera Lesko
Signora Lesko, che opinione si è fatta delle dichiarazioni del premier Berlusconi al suo omologo Berisha, sulla moratoria al divieto d’ingresso in Italia per “le belle ragazze albanesi”?
Ancora provo dolore se penso a quell’invito. Ha detto “belle ragazze albanesi” ma intendeva ben altro. E il nostro premier neppure ha reagito! Non ricordo nulla di simile con altri capi di governo Ue. Quando un personaggio pubblico si rende conto delle conseguenze delle sue parole, dovrebbe scusarsi.
Balcani e Caucaso, poco applicate le leggi contro i trafficanti
Sono quasi tutti nella fascia 2 o in quella “2 a rischio” gli Stati dei Balcani e del Caucaso monitorati dal rapporto Usa Trafficking in Persons Report 2009, edito dal Dipartimento di Stato Usa. Nell’Europa spaccata in due, a ovest il mercato e ad est la merce, Albania, Armenia, Bosnia, Bulgaria, Bielorussia, Grecia, Kosovo, Romania, Serbia, Turchia sono tra i Paesi che “non adempiono agli standard minimi di lotta al trafficking ma registrano significativi passi avanti”. Nella fascia migliore (la 1, dei “Paesi che soddisfano i livelli minimi di contrasto e proteggono le vittime”, dov’è inclusa l’Italia) ci sono solo Croazia, Georgia, Macedonia e Slovenia. Sono invece nella “fascia 2 a rischio” Azerbaijan, Moldova, Montenegro. A quest’ultima categoria appartengono anche Russia, Bielorussia e Ucraina, nuovi terreni di caccia dei trafficanti. Nessun Paese balcanico o caucasico è più nella fascia 3, l’inferno degli Stati che “non adempiono ai requisiti minimi né fanno passi avanti”. Il Rapporto Usa conta 800 mila uomini, donne e bambini tenuti in schiavitù per la prostituzione, il lavoro o il traffico di organi. La tratta dà guadagni rapidi, con le vittime - al contrario della droga - rivendibili più volte, e con rischi giudiziari contenuti. E’ il business criminale più remunerativo al mondo dopo il narcotraffico e al pari delle armi leggere. Il trauma sulle donne è imparagonabile: “anni di stupri”, “come precipitare dal VI piano”, sono le analogie usate nel Report. L.D.
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Lei ha cominciato tredici anni fa a Valona, all’epoca hub della tratta da tutti i Balcani verso Italia e Ue.
A Valona c’era un clima da guerra civile, creato dalle bande criminali con il business dei clandestini. Io arrivavo da Tirana per uno studio sul campo, avevo 500 schede da compilare: e per farlo interpellai polizia, scafisti, abitanti, amministrazione. Tutti sapevano: chi erano i capi, quali erano le case e gli hotel usati prima del trasbordo in Italia. Di motoscafi ne partivano 10-20 al giorno, con 40 persone a scafo, di cui 10 donne. Tariffa: 1 milione di vecchie lire per gli uomini, 2 per le ragazze. A Valona si diceva che i trafficanti e il governo fossero soci. E anche in Italia senza troppi ostacoli gli scafisti riuscivano a sbarcare fino a 800 persone al giorno. Per me quello studio fu una presa di coscienza fondamentale.
Tra le donne trafficate che cosa scoprì?
Che non erano informate di niente: venivano da regioni povere e in famiglia erano stati ben felici di farle sposare con uno sconosciuto. Quando parlavo loro della sorte che le aspettava in Italia, non mi credevano.
Se ne ricorda qualcuna in particolare?
Sì, una sedicenne, coi genitori malati, era del nord dell’Albania. Riuscii a parlarle per un’ora nella casa dove il trafficante l’aveva chiusa: ma lei credette a suo “marito”. Allora lo denunciai io alla polizia. Rientrata a casa, trovai tutti i vetri rotti e i miei familiari terrorizzati dal raid che mi aveva preceduto. Il messaggio era: “Ritira la denuncia o tocca alla tua figlia”. Misi lei al sicuro in Italia, e io rientrai a Tirana. Ero scomoda per i trafficanti, con troppe informazioni. Ci misi un anno per tornare a Valona.
Cambiò strategia?
Non avevo mezzi, né una sede. Da 1997 al 1999 lavorai sulla strada, tra le vittime. Con la guerra del Kosovo, il business della prostituzione esplose: proprio per soccorrere le vittime kosovare della tratta, ebbi i primi fondi dall’estero e aprii il centro psicosociale “Vatra”. Oggi, con 22 operatori, abbiamo anche un ufficio, diamo consulenza legale e formazione professionale, per il pieno reinserimento delle donne liberate dai trafficanti.
Come le aiutate?
Il training psicologico è lungo. Dove possibile coinvolgiamo anche le loro famiglie che, per la prevalente mentalità patriarcale, le respingerebbero come un disonore. Viaggiamo fino al villaggio di ognuna: con il lavoro psicologico possiamo restituire a ogni donna un’identità nuova, ma il senso di dignità e autostima dipende in gran parte dalla famiglia che la riaccoglie. A “Vatra” le seguiamo nella denuncia dei trafficanti, e poi nel reinserimento sociale, con i nostri corsi di informatica, inglese, artigianato, estetica, sartoria. Molte lavorano. E per me è felicità pura quando mi mandano notizie di matrimoni, della nascita dei figli e della loro vita.
Come ha fatto a resistere alle minacce dei trafficanti in questi anni?
Pensando che quelle ragazze potevano essere mie figlie. E poi con la fede in Dio. Anche quando volevo mollare continuavano a cercarmi, e non potevo rispondere di no.
Al “Vatra” fate anche prevenzione. La crisi economica influisce sui numeri della tratta?
Sì, la crisi aumenta il rischio. Senza lavoro c’è un’escalation della violenza domestica: negli ultimi due anni sono raddoppiate le donne violentate dai mariti o dai familiari, secondo i nostri report. E senza più casa né mezzi, diventano facile preda dei trafficanti. Per questo facciamo prevenzione sul campo, nel centro e nel sud dell’Albania: sia alle scuole superiori, sia nei villaggi. E lo stesso tra le minoranze rom e egiziane, che contano il 50% dei trafficati in Albania, di cui il 70% minori. E’ fondamentale informare, perché dove ci sono miseria, analfabetismo, dispersione scolastica, mancanza di speranza occupazionale, o minori soli, figli di emigrati, i trafficanti possono fare razzie. Allo stesso modo nelle scuole, non è normale registrare – come in un sondaggio di “Vatra” tra gli adolescenti - che l’87% di loro accetta il fenomeno della prostituzione, il 57% conosce casi concreti e il 50% sa indicare in quali hotel. Addirittura il 69% degli interpellati tollera che le più colpite dalla tratta siano ragazze tra i 15 e i 20 anni. C’è un enorme lavoro da fare per spezzare questa mentalità.
Inez e le altre, parlano le donne del Centro “Vatra”
Segni particolari: vendute più volte. Eva, Arjeta, Uksana. Migliaia al mese vengono trafficate dall’Est all’Ovest dell’Europa. Età media di arrivo al centro “Vatra”, dopo anni di prostituzione all’estero: 21% tra 14-18 anni, 47% tra 18-25, 32% tra 25-30. Testimonianze di donne di “Vatra” sono pubblicate in diversi volumi. Come quella di Inez, riferita da Siddharth Kara, nel suo Sex trafficking: inside the business of modern slavery (Columbia University Press, 2009), non ancora tradotto in Italia. “Sono stata rapita a 13 anni da tre uomini in auto. Ad Argirocastro in un hotel abusarono di me per 2 settimane. Poi in taxi entrammo in Grecia, pagando i doganieri. Sul bus per Corinto, uno mi disse: ‘abbiamo un lavoro per te’. Era un bar di prostitute. Provai a protestare ma lui mi portò in bagno e mi stuprò finché non svenni. Ci lavorai 4 mesi. Per lo più gli uomini erano molto crudeli, e mi picchiavano se mi rifiutavo. Un albanese era più gentile, diventammo amici. Ma il trafficante se ne accorse e mi cambiò di club. Ci rimasi 2 anni. Dormivo nelle stanze sul retro, dove venivano i clienti. Dio non mi lascerà qui per sempre, pensavo, un giorno sarò libera. Dopo 2 anni, il protettore mi ha portato a fare shopping. Ho visto un poliziotto e sono corsa a chiedergli aiuto. Rimasi in cella 17 giorni e mi rimpatriarono. Ma a casa mio padre non mi credeva, per lui ero stata io a volermi prostituire. Dovetti andarmene, piansi per giorni. Dormivo per strada da una settimana, quando uno del nostro villaggio mi promise un lavoro. Mi portò a Valona, e la notte stessa mi spedì in motoscafo in Italia. Avremmo dovuto fare le pulizie in hotel, ma a Torino in un appartamento mi violentarono, poi arrivarono i clienti. Quindi mi portarono in Belgio per tre mesi. Poi di nuovo a Firenze, dove fui venduta a un protettore ancora più violento. Per questo ho la cicatrice sulla nuca (la mostra). Pensavo mi avrebbe ucciso, così provai a scappare. Ma mi riprese e mi cavò un dente per punizione (lo mostra). Mi portò ad Amsterdam, dove ho lavorato chiusa in un bordello per 8 mesi. Un giorno c’è stato un raid della polizia, e arrestarono noi ragazze perché avevamo documenti falsi. Dopo 2 mesi in cella, gli albanesi di Valona erano fuori dalla stazione di polizia ad aspettarmi. Volevo scappare, ma gli stessi agenti mi costrinsero ad andare con quegli uomini. Mi portarono a Utrecht, in un altro bordello chiuso. Lì rimasi incinta. Uno dei protettori mi disse che avrei dovuto dare a lui il bambino quando fosse nato, per poi tornare nel bordello. Ma non volevo lasciargli mio figlio. Così scappai e mi rifugiai fino alla sua nascita in una casa per donne abusate e le suore mi aiutarono ad avere i documenti. Sono tornata in Albania, per far vedere il bambino a mio padre. Ma lui non ne vuole sapere. Vorrei dimenticare, ma continuo a vedere in sogno le facce di quegli uomini. Temo sempre che mi trovino e mi rimandino per strada. Non voglio che mi uccidano ancora”. L.D.
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Oggi l’Albania ha leggi anti-tratta adeguate?
Con il governo c’è una guerra su questo punto: la legge sulla violenza domestica è in vigore dal 2007, ma mancano le strutture per proteggere le vittime. Oltre a noi, ce n’è una ad Elbasan e una a Tirana, con cui non riusciamo a entrare neppure in contatto. Per non parlare del Nord dell’Albania, tradizionalmente chiuso, e oggi ancora senza presidi. Certo, abbiamo fatto passi avanti, il nostro Paese è passato dal livello 3 al 2 della classifica del Dipartimento di Stato Usa, cioè da inerte contro il
trafficking a Stato che ha attivato nuovi provvedimenti.
Le organizzazioni internazionali, Usaid in testa, sono i vostri unici finanziatori?
Sì, i nostri fondi vengono soprattutto da istituzioni Usa, britanniche e dall’Osce. Inoltre l’ambasciata Usa a Tirana è stata determinante per far approvare nuove leggi antitratta e far concludere i processi ai trafficanti.
Dall’Italia ricevete fondi?
No, non ne abbiamo mai ricevuti.
Com’è cambiato oggi il traffickingin Albania?
E’ diminuito. Per la dilagante criminalità albanese, Tirana ha ricevuto pressioni da parte di Paesi come Italia, Stati Uniti e Gran Bretagna, che l’hanno obbligata ad agire contro la tratta. Ma oggi le leggi restano sulla carta: con la corruzione del sistema giudiziario - attestata anche dal Report Antitrafficking 2009 del Dipartimento di Stato Usa sull’Albania - difficilmente si arriva alla condanna. Per esempio, su 102 denunce partite in un anno solo dal Centro Vatra, solo 5 processi si sono conclusi. E non c’è alcuna empatia dei giudici verso le vittime, trattate per lo più con estrema indifferenza.
Quali sono oggi le nuove rotte della tratta?
Fino al 2005 l’Albania aveva il record europeo di trafficati. Ma oggi il passaggio migliore per la Ue è su strada, via Grecia, Kosovo, Macedonia, risalendo l’ex Jugoslavia fino alla Slovenia, senza più frontiera con l’Italia. O dalla Romania, dove convogliano ucraine, russe e moldave. Valona non è più “l’autostrada per la Ue”.
Quante donne sono state trafficate in Albania dall’indipendenza ad oggi?
Se parliamo solo di albanesi vanno ridimensionate le 150.000 stimate dall’Unicef: significherebbe una in ogni famiglia albanese, e non è così. Sui loro dati può aver influito il fatto che per ostacolare il rimpatrio, molte donne fermate in Europa si dichiaravano albanesi, anche se non lo erano. Ma per noi, se a Valona – che era “l’autostrada” - abbiamo salvato 2.016 vittime, ipotizzando cifre analoghe nelle altre teste di ponte per l’Ovest, che erano Durazzo, l’aeroporto di Tirana, Kakavij al confine greco, e la frontiera Kosovo-Macedonia, non superiamo le 10.000. Oggi il
traffickingnon è finito, ma il governo non ama si parli della tratta, e minimizza il fenomeno.
E’ vero che il centro “Vatra” non è protetto dalla polizia albanese e dovete affidarvi a vigilantes privati?
È così. La polizia ci è stata tolta nel 2005 e questo ci ha creato non pochi problemi. I protettori non rinunciano alle ragazze, le aspettano fuori. Ma per quanto siano spregiudicati, i vigilantes fanno da deterrente.
Quale sarà il vostro prossimo obiettivo?
Vogliamo aprire un presidio nel nord dell’Albania, da dove ci arrivano richieste e dove la frontiera aperta con il Kosovo rende pericolosissime le organizzazioni criminali. E’ difficile perfino sapere quanti trafficati passino di là.
Che cosa dovrebbero fare i Paesi Ue per le vittime delle tratta, dai Balcani in particolare?
In genere bisogna mettere fine al ping-pong delle giovani arrestate nella Ue e rimpatriate in Albania, perché all’arrivo quasi tutte vengono ritrafficate. La via più sicura è il recupero direttamente nell’Unione. L’Italia ad esempio riconosce questo diritto solo alle maggiorenni, e il rimpatrio per le minori non ha mai funzionato.
Vera Lesko e Hillary Clinton
Che cosa ha provato alla notizia del premio del Dipartimento di Stato Usa come “eroe” anti-tratta?
Ho pianto. Ho lavorato 13 anni per il mio Paese, aiutando migliaia di donne, senza avere mai un grazie dal nostro governo, se non dalle vittime stesse. Per il resto è successo tutto improvvisamente: per il premio dovevo essere a Washington in 48 ore. L’ambasciatore Usa mi ha detto: “Sei la prima al mondo che ha preso il visto in 10 minuti…”.
Che cosa le ha detto Hillary Clinton?
E’ stata informale, abbiamo parlato circa mezz’ora prima della premiazione. “So tutto di lei e non vedevo l’ora di incontrarla – mi ha detto - Siamo donne forti e il mondo lo deve sapere”.
In questi anni neppure la battaglia contro il cancro l’ha fermata.
Dentro di me, sono sicura di essermi ammalata per tutto il dolore che ho visto. Ora per curarmi ho lasciato la guida del Centro. Ma combatterò sempre perché per le vittime ci sia una porta aperta, come a “Vatra”. Quando sono lontana, le ragazze mi mancano. Il mio cuore è sempre lì con loro.