Le donne bosniache violentate durante la guerra sono ostracizzate da una società che rifiuta di vederle come vittime. Un reportage scritto di Belma Becirbasic e Dzenana Secic pubblicato per IWPR. La traduzione è a cura dell’Osservatorio sui Balcani.
Edin, nove anni, è uno tra le centinaia di bambini che in Bosnia stanno crescendo senza un padre. Ma mentre altri hanno una tomba da visitare o fotografie da conservare, Edin non ha nulla. Sua madre Safeta ha un unico e terribile ricordo di suo padre. “Accese una candela o un accendino e fece la sua scelta”. “Era un serbo di Zemun. Anche tra 20 anni sarei in grado di riconoscerlo”.
Safeta è una “donna violentata”, per utilizzare l’etchetta con la quale vengono designate le vittime di sistematici abusi sessuali perpetrati durante il primo anno di guerra in Bosnia. Il padre di Edin è l’uomo che l’ha violentata.
Oggi, queste donne, sono le invisibili ferite della guerra, spesso evitate e scansate. Il destino dei loro bambini è persino più tragico. Edin appartiene a quella piccola minoranza che vive con la propria madre naturale mentre molte donne hanno abbandonato i loro bambini, ve ne sono alcune che li hanno pure uccisi.
Nell’estate del 1992, i rapporti sulle deportazioni di massa dalla Bosnia orientale e sui campi di detenzione nel nord-ovest del Paese erano accompagnati da dati sugli stupri di massa. Si erano sentite addirittura voci su di un piano per mettere in cinta migliaia di donne non-serbe per esacerbare l’odio etnico. Il numero esatto di donne che hanno subito violenza sessuale non sarà mai conosciuto, anche perché molte delle vittime sono state in seguito assassinate. Esperti dell’Unione europea hanno in passato affermato che il numero di donne che hanno subito violenza potrebbe attestarsi attorno alle 50.000.
Dietro alle statistiche vi sono persone come Safeta, tenuta prigioniera per tre giorni in una casa abbandonata nell’immediata periferia di Zvornik, nord-est della Bosnia. Lì è stata stuprata da un soldato proveniente dalla Serbia. Con lei erano tenute segregate due ragazze diciassettenni. “Una di loro, Amra, è stata violentata da 13 uomini”, afferma. Safeta, che allora aveva 29 anni, ha avuto “più fortuna” è stata violentata solo una volta.
Oggi Safeta ed Edin abitano assieme in una piccola casa a Zivince, vicino a Tuzla. Safeta lavora al
Vive Zena, associazione di donne con sede a Tuzla che assiste le vittime di questo crimine odioso e che tra le sue operatrici comprende anche donne che hanno subito questa violenza. Adesso parla quasi liberamente della sua esperienza, cambia discorso solo raramente. Ma Safeta rappresenta un’eccezione. Ostracizzate ed infangate dalla società molte donne cercano di rimuovere ciò che è successo loro. Anche questo è alla base della difficoltà di definire in modo almeno approssimativo il numero di violenze subite dalle donne bosniache durante la guerra. La storia di Safeta ha, se così si vuol dire, un finale lieto; non è così per la maggior parte delle altre donne.
Molte di queste furono tenute deliberatamente prigioniere sino a quando non avrebbero più potuto abortire il bambino concepito. Safeta era incinta di sei mesi quando è riuscita a raggiungere Tuzla e nessuno era disposto a procurarle un aborto a quello stadio di gravidanza. Edin nacque il 14 aprile del 1993. Incapace di prevenire la sua nascita sua madre si rifiutò inizialmente anche solo di guardarlo affermando che lo avrebbe strangolato. Edin venne lasciato in un orfanotrofio di Tuzla mentre Safeta iniziò una vita da rifugiata a Zivince.
Teufika Ibrahimefendic, psicologa presso il centro
Viva Zena, dove Safeta lavora, afferma, “le donne che hanno tenuto questo segreto per tutto questo tempo sono quelle che più hanno bisogno di sostegno psicologico e psichiatrico. Lo hanno fatto per provare a difendersi ma questo le ha sottoposte ad una terribile pressione. Una donna mi ha raccontato una volta che tutte le volte che si ricorda del momento della violenza deve mettersi sotto una doccia fredda sino a quando congela”.
Il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto come la violenza carnale sia stata utilizzata quale arma sistematica della pulizia etnica ed è quindi da inserirsi nei crimini di guerra. Per stupro, tra le altre cose, furono condannati ad esempio i tre membri del cosiddetto “Gruppo di Foca”, ai quali è stata inflitta una pena complessiva di 60 anni di galera per i crimini compiuti nella Bosnia orientale agli inizi degli anni ’90. Ante Furundzija, comandante di un’unità speciale dell’esercito bosniaco-croato attiva nella Bosnia centrale, è stato accusato di aver assistito allo stupro di una donna bosniaca e di non essere intervenuto e non aver punito gli autori del crimine. Anche i procedimenti contro Hazim Delic, in connessione ai crimini commessi nel campo di Celebici, inseriscono lo stupro nei crimini di guerra.
Ma, prescindendo dal diritto internazionale, il vero paradosso è che le donne violentate non sono riconosciute quali vittime all’interno della stessa Bosnia Erzegovina. Se va loro bene vengono riconosciute come donne macchiate nell’onore ma molti le guardano come donne “cadute”, che in qualche modo hanno contribuito alla loro sfortuna. Per anni Safeta ha affermato di sentirsi sulle spalle il sussurrare e le dita che l’indicavano delle altre donne che vivevano a Zivince. Il taboo in merito allo stupro si era allargato anche sulla sua stessa famiglia. Sua madre, sua sorella ed il cognato l’hanno sempre sostenuta ma questo non era accaduto con il padre e con il fratello più giovane. “Mio padre non mi ha mai chiesto cosa era successo e dove fosse mio figlio”, ricorda Safeta.
Safeta rimase in Bosnia per l’intera gravidanza ma molte delle donne violentate durante la permanenza in campi di prigionia nel nord-ovest della Bosnia furono evacuate in Paesi terzi. Il direttore del Centro di Zagabria per le donne vittime della guerra, Nela Pamukovic, ricorda di due donne incinte che trovarono rifugio presso la propria organizzazione, “Una di queste tenne il bambino ed emigrò negli Stati uniti, presso alcuni parenti. L’altra gettò il neonato nella Sava. Fu accusata di infanticidio ma non venne nemmeno processata dopo che le diagnosi dei dottori diminuirono la sua responsabilità”.
Come accaduto a Safeta molte madri rifiutarono i bambini non appena diedero loro luce. A Zagabria molti parti avvennero nell’ospedale Petrovo. Da lì, secondo il CWWW e l’ufficio Caritas della capitale croata, i bambini rifiutati vennero portati all’orfanotrofio Valdimir Nazor. Naturalmente sono registrati tutti ma è difficile per i responsabili del centro sapere quanto bambini sono stati portati da madri che avevano subito violenze.
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In generale i bambini subiscono la “stigmate” del crimine che ha loro dato luce. “Una volta ho partecipato ad una riunione dell’
Associazione delle donne bosniache a Zagabria, che adesso non esiste più” afferma Jelena Brasa, direttrice della Caritas a Zagabria “discutevano del destino dei propri bambini e vi era un generale consenso sul fatto che era meglio portarli il più lontano possibile dalla Bosnia”.
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Sei mesi dopo aver lasciato il proprio figlio nell’orfanotrofio di Tuzla Safeta ritornò da lui. Ricordi del figlio continuavano ad ossessionarla. “Per mesi non sono riuscita a dormire. La situazione è divenuta insostenibile. Solo il fatto di averlo ritrovato ha fatto si, probabilmente, che io ora sia ancora in vita”.
Fu un assistente sociale che rimise Safeta sulle tracce del figlio. Era stato portato in ospedale a causa di malnutrizione. Appena lo ritrovò lo abbracciò per una ventina di minuti. “Vidi che mi assomigliava e che stava abbastanza bene. Non so ancora come sono riuscita a ritornare a casa quel giorno”, ricorda.
Nonostante né lei né Edin lasciarono mai la Bosnia, Safeta è stata fortunata a ritrovare il figlio. Gli orfanotrofi erano strapieni e vi era molta confusione e quindi molte madri che ebbero un ripensamento non furono più in grado di ritrovare i figli. “Nel solo 1993 accettammo 700 bambini mentre l’orfanotrofio era stato pensato per 110 bambini” ricorda Advija Hercegovac, dell’orfanotrofio di Tuzla. “E’ probabile che molti di loro erano i bambini di donne che avevano subito violenze sessuali, ma c’era caos in quel periodo e vi erano cose più importanti che non tenere rapporti aggiornati della situazione”. Poi molti bambini sono stati adottati ed in questo caso si sono applicate le norme severe in merito alla segretezza sul passato del bambino e sull’identità dei genitori adottivi.
Ma la storia di Safeta non finì quando ritrovò Edin. Impiegò sette anni prima di portarlo a casa con lei. Prima di essere in grado di trovare il coraggio ed i mezzi economici per farlo. Le donne violentate che hanno deciso di tenere i loro bambini sono una minoranza, afferma Radila Memisevic, dell’
Associazione delle persone minacciate della Bosnia, “molte di più avrebbero voluto farlo ma sono state sottoposte a pressioni intollerabili”.
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Dopo un perido passato da sola e caratterizzato da uno stato di profondo alcolismo Safeta ha iniziato a ricostruire pian piano la propria vita, trovò un lavoro, comprò un pezzo di terra ed iniziò a costruire una casa. Visitava il figlio regolarmente e sopravviveva grazie alla volontà di condividere col figlio lo stesso tetto. “Vivevo per quello, sarebbe stato il momento nel quale il buio si sarebbe trasformato in luce. E se la gente disapprovava, non me ne importava nulla” afferma ora Safeta.
All’inizio di quest’anno Mirha Pojskic dell’associazione
Medica ha lanciato una campagna per far ottenere alle donne vittime di violenze durante la guerra lo status di “vittime civili”. Questo garantirebbe loro una serie di benefici. “Le aiuterebbe ad essere meglio assistite nel sistema sanitario-previdenziale, le aiuterebbe a trovare con più facilità un lavoro, le aiuterebbe ad uscire allo scoperto e questo ci permetterebbe anche di sapere con più precisione quante donne furono violentate in quei terribili anni”.
Attualmente solo chi fu detenuto in campi di prigionia è riconosciuto quale “vittima civile” di guerra. Si spera che estendendo questo status anche alle donne che hanno subito violenza sessuale vengano de-stigmatizzate. Il riconoscimento ufficiale del crimine subito forse contribuirà a cancellare la credenza – radicata soprattutto nelle cittadine e nei villaggi – che sono in parte responsabili per quanto accaduto loro.
Safeta intanto mostra con orgoglio foto di suo figlio. Occhi azzurri e capelli castano chiari, le assomiglia molto. Anche se tracce della sofferenza che madre e figlio hanno dovuto attraversare possono essere notate nel loro rapporto. “A volte sento un’urgenza di abbracciarlo, di baciarlo, ma lo faccio solo di notte, mentre dorme”. Anche Edin è molto discreto. Nascosto dietro ad una tenda gli piace attendere alla finestra il ritorno della madre dal lavoro. Non ha mai chiesto del padre.
Belma Becirbasic e Dzenana Secic - IWPR
Alcuni dei nomi presenti nel reportage sono stati inventati per proteggere la privacy dei protagonisti delle vicende riportate.