Il teatro nelle situazioni di guerra e post conflitto
23.11.2002
Come può il teatro incrinare e sovvertire i rigidi rapporti tra ruoli che portano alla guerra? Come invece rischia di fornire il necessario supporto rituale? Un testo di Guglielmo Schininà, esperto di teatro sociale in situazioni di emergenza.
Pubblichiamo questo testo-saggio di Guglielmo Schininà come contributo preparatorio al convegno Abitare il conflitto: c'è pace senza riconciliazione?, che organizziamo il 6 e 7 dicembre prossimi a Trento. Il saggio uscirà a fine novembre all'interno del volume Bernardi, C., Dragone, M., Schinina', G.(eds): "Teatri di Guerra, Azioni di Pace, la drammaturgia comunitaria e la scena del conflitto", Euresis Edizioni, Milano. Il libro, che sarà pubblicato in italiano ed inglese, contiene interventi tra gli altri di Richard Schechner (NYU), James Thompson (UNICEF SRY LANKA), Marina Barham (Teatro INAD, Palestina), Patricia Ariza (Teatro la Candelaria di Bogotà), Maddalena Grechi (Alisei-Nuova frontiera), Marianella Sclavi (Università di Milano, pure presente al convegno) e Claudio Bernardi.
Comunità maledette, rituali di separazione e comunicazione come vendetta. Il caso del Kosovo.
Conflitto, guerra, “guerra umanitaria”
Io parlerò di guerra e non di conflitto. Non credo che conflitto e guerra siano due termini identici; un conflitto prevede la relazione tra due soggetti che riconoscono le proprie diverse identità. La guerra, in particolare quella etnica, è il limite più estremo e occorre quando il conflitto si fa comunitario e armato, la distruzione dell’identità dell’altra comunità diventa un obiettivo e quindi ogni forma di relazione è annullata.
La differenza non è solo simbolica o tecnica ma anche, molto più banalmente, logistica. Nel caso della guerra del Kosovo esiste un’altra implicazione. È stata la prima guerra ad essere “ufficialmente” definita umanitaria.
L’umanitarismo è un rapporto creativo di relazione, solidarietà e condivisione. Il concetto di guerra umanitaria è quindi ossimorico e ha condizionato fortemente il mio lavoro. Come si fa infatti a lavorare col teatro, arte umanitaria in sé, senza diventare funzionali a una guerra che vuole dirsi umanitaria, quando un imbarazzante rovesciamento di senso è internazionalmente in atto?
Il triangolo della solidarietà
In Kosovo, l’intervento umanitario ha risolto questa contraddizione con un preciso schema relazionale e simbolico, ben descritto da Natale Losi (1). Si è creato un triangolo che ha avuto nei tre vertici il Cattivo (il carnefice), il Buono (la vittima) e il Salvatore. Ci siamo sempre mossi su questo schema, a volte scambiandoci i ruoli, senza mai mutare il modello.
La versione dominante
La versione dominante di questo schema triangolare, più legata al supposto umanitarismo della guerra e al suo narrato internazionale, ha posto in un vertice la popolazione serba, compatta, nazionalista e criminale, in un altro quella albanese, vittima ingenua e senza risorse, nel terzo il salvatore internazionale, che ha, col suo intervento, risolto la situazione di ingiustizia.
Non è vero. Esistevano tra i serbi sacche di malcontento e forti movimenti d’opinione contro Milosevic almeno dal 1996, quando un milione di persone erano scese per un mese consecutivo in piazza. La comunità internazionale e l’opposizione politica interna si erano ben guardate dal supportare questi movimenti.
Il “salvatore internazionale” non ha avuto come interlocutore Ibrahim Rugova, capo carismatico degli albanesi del Kosovo e fautore della resistenza pacifica, ma gli estremisti armati dell’uck.
La narrazione dominante mostra però il suo limite più forte nei risultati dell’intervento umanitario. Dal giorno in cui le forze internazionali sono entrate in Kosovo, più di duecentosessantamila tra serbi, rom e membri di altre minoranze, sono fuggiti dalla provincia nei paesi limitrofi e non sono ancora tornati. Migliaia di cittadini di gruppi etnici minoritari sono stati uccisi o sono stati sequestrati a opera di estremisti albanesi, mentre le forze internazionali non riuscivano a proteggerli. Ancora oggi, in Kosovo circa centoventimila serbi e trentamila rom vivono blindati, non hanno libertà di movimento, conseguentemente non possono lavorare e avere una vita sociale allargata. Diverse migliaia di case sono illegalmente occupate.
È questa la situazione che si sta vivendo; questo è il portato di una guerra umanitaria. Anche il processo a Milosevic, più che cercare di analizzare le di lui evidenti colpe, ha cercato di accreditare questo triangolo su tutta la linea, rischiando di uscire dal suo campo di azione e di non raggiungere il suo obiettivo.
La versione degli operatori
I “salvatori” si sono così ritrovati spiazzati, in quanto le vittime si sono trasformate in carnefici e i carnefici in vittime. Ecco che quindi un’altra narrazione comincia a pietrificarsi nel piccolo mondo degli operatori internazionali che operano sul campo. Non riuscendo comunque ad andare oltre la struttura triangolare che li aveva portati a impegnarsi attivamente, ne hanno cambiato i vertici, ponendo nel ruolo della vittima una popolazione serba da sempre contraria a Milosevic e ingiustamente perseguitata, in quello dell’oppressore una popolazione albanese scaltra, che ha preparato e promosso la guerra con agganci mafiosi e ora si dedica ad annientare gli altri gruppi etnici kosovari, grazie a una comunità internazionale impreparata se non connivente, e mantengono se stessi nel vertice dei salvatori.
Inutile dire che questa narrazione è superficiale e politicamente e simbolicamente tanto imbarazzante quanto la prima.
Semplicemente il triangolo relazionale di questa guerra è improprio come il concetto di guerra umanitaria e ne è una conseguenza diretta. Pochi sono riusciti a uscire da questo schema, che ha fortemente condizionato il costruirsi delle identità dei vari soggetti in campo: gli albanesi, i serbi, i rom e gli internazionali, nelle loro interazioni.
Il trauma e le categorie vulnerabili
Due altri concetti strettamente funzionali alla visione “salvifica” dell’intervento internazionale sono quello di trauma e quello dell’individuazione delle categorie più vulnerabili a cui i progetti di tipo psico-sociale e creativo si rivolgono.
Il trauma viene internazionalmente misurato con i rilevatori del ptsd (Post Traumatic Stress Disorder). Quella del ptsd è una sindrome disegnata per i veterani della guerra del Vietnam, quindi in un contesto sociale, culturale ed economico molto specifico. Viene invece applicata come un pacchetto che va dalla misurazione dei sintomi al trattamento, alle più diverse situazioni, dall’Angola, allo Sri Lanka, al Kosovo. Nel caso del ptsd applicato a una guerra, esiste la pretesa di “patologizzare” problemi le cui cause sono principalmente politiche e sociali e quindi di “neutralizzare” la situazione traumatica attraverso la “patologizzazione” dei suoi effetti. Nel caso del Kosovo, il ptsd è stato funzionale al meccanismo salvatore/vittima/carnefice: ha dimostrato la necessità dell’intervento armato e del successivo intervento umanitario. C’è stata conseguentemente la pretesa di misurare una reazione post traumatica allorquando le condizioni all’origine del trauma erano ancora presenti, come nei campi profughi durante i bombardamenti della NATO.
Inoltre, in una situazione in cui le identità personali e di gruppo erano condizionate nelle loro interrelazioni dallo schema suddetto, non può essere considerato neutrale il valore di questionari che i “salvatori” sottoponevano alle “vittime”, per capire se i torti subiti avevano toccato il trauma, in un contesto in cui l’essere il più “vittima” possibile era una richiesta più o meno esplicita che veniva dai “salvatori” e il motivo dell’intervento armato e umanitario della comunità internazionale in favore della “loro” parte. Si noti che a lungo nessun test ptsd è stato svolto tra le comunità serbe o rom.
Infine, il ptsd presuppone una definizione e una risposta standardizzate al trauma, mentre esse sono fortemente condizionate dal sistema di valori e di credenze. Questo però rappresenta una complicazione. Nella comunità albanese, ad esempio, tradizionalmente, la risposta al trauma culturalmente più incisiva è la vendetta, come del resto nella comunità siciliana dalla quale provengo. Il dolore per un lutto violento o un danno subito per secoli si è vinto, a livello sociale ma anche interfamiliare e personale, con la vendetta verso i membri della famiglia dell’uccisore. Questa pratica, ancora presente solo in alcuni ambienti rurali e nazionalisti, è tuttavia simbolicamente viva nella cultura albanese. È questa una risposta al trauma molto significativa dal punto di vista culturale, che il “salvatore” internazionale può accettare? No, e quindi meglio una risposta medica a un problema patologico che affrontare problemi che mettono in discussione tutto il meccanismo dell’intervento umanitario.
Io temo che il fatto che molti degli interventi psicosociali nell’emergenza considerino come categoria più vulnerabile i bambini, abbia lo stesso tipo di motivazione: è più facile lavorare con loro perché sono politicamente “neutri” e quindi delle “vittime”, o perché appartengono al gruppo delle “vittime” o perché pagano colpe non loro. Nei campi rifugiati spesso i bambini mostrano delle grandi risorse di resilienza, perché si ritrovano in una situazione che, paradossalmente, trovano interessante e divertente. Le donne, soprattutto nelle società patriarcali, possono in un campo profughi mantenere e rafforzare il loro ruolo nella famiglia, nella cura domestica. Un maschio adulto che non combatte, non lavora, non è riuscito a proteggere la sua famiglia e a garantirle una situazione più confortevole di quella di un campo, è probabilmente la persona più vulnerabile. I maschi adulti sono stati praticamente ignorati dalla maggior parte degli interventi psico-sociali e creativi nei campi. Perché è più difficile agire con loro secondo modelli prestabiliti e secondo il triangolo simbolico relazionale.
Il cerchio del teatro
Lo schema triangolare, in cui ogni vertice costruisce il suo stare con gli altri due soggetti per massimizzazioni e categorie, in un rapporto che è più vouyeristico che di relazione, è estremamente lontano dal modello del cerchio di scambi e baratti, che è lo spazio rituale della relazione teatrale. Questo è ciò a cui il teatro deve mirare in queste situazioni: rompere il triangolo e costruire il cerchio. Ma come?
In una situazione in cui molti legami sono stati distrutti, da quelli affettivi interpersonali, a quelli comunitari e istituzionali, la ricostruzione del ruolo individuale e di gruppo e fra gruppi diventa fondamentale. Il teatro è l’arte che lavora sul ruolo, sulla relazione e sulla comunicazione e in cui l’interrelazione tra queste componenti è più forte.
Inoltre il teatro ha dalla sua, rispetto ad altre arti creative e modelli comunicativi, il valore performativo. Non parlo dello spettacolo, del prodotto estetico; parlo della possibilità che il teatro offre di comunicare all’esterno un processo interno al gruppo. Questo è particolarmente importante in situazioni di guerra, perché la mancanza di una struttura e la necessità di ricostruirla hanno almeno un effetto positivo: anche il livello istituzionale è inesistente o si sta formando, quindi un vero processo democratico può, in linea del tutto teorica, essere attivato. Intendo un processo etico che dall’individuo arriva, con la pluralizzazione creativa, al gruppo che, attraverso la comunicazione sociale, può trasmettere i suoi contenuti alla sfera istituzionale, in un allargamento progressivo del cerchio rituale della comunicazione teatrale.
Quindi più che di teatro forse parlerei di una logica di comunicazione e di relazione, ispirata al gioco del teatro, che può essere usata nella ricostruzione delle comunità a partire dal valore dell’individuo. Questo gioco può essere applicato a diversi media, non necessariamente teatrali, ma è teatrale in sé e quindi può rendere creative e performative anche attività che non lo sarebbero.
Questo è già un modo di rompere il triangolo. Quando arrivo in una comunità non impongo il teatro. Porto la mia esperienza e la mia competenza, che sono l’uso del teatro nella costruzione di comunità e nell’empowerment delle differenze, rispettando però le competenze e gli obiettivi esistenti. Cerchiamo, io e gli attivisti, di adattare le nostre diverse competenze, i loro interessi e questa logica teatrale. Il teatro è quindi per me una logica comunicativa e il modo che io ho di passarla nei training interattivi con le comunità.
Un esempio
Ho impostato nel 1999 un progetto che si rivolgeva ai rifugiati serbi di Bosnia e Croazia, che vivono, chi da nove, chi da sei anni in Serbia e Montenegro in centri collettivi. Tra i quattrocentonovantamila rifugiati, a cui si sono aggiunti circa duecentosessantamila displaced dal Kosovo, circa quarantamila vivono ancora in “non luoghi”: baracche, cantieri, hotel abbandonati, scuole di piccoli e remoti villaggi, colonie, in genere molto decentrati, in cui ogni famiglia ha in dotazione una piccola stanza. Nei centri, caratterizzati da povertà e abbandono, il senso comunitario non esiste a tal punto che chi vi abita non riesce a rivendicare i suoi diritti essenziali in maniera organizzata. All’inizio visitavo i centri spesso e chiedevo ai bambini e ai ragazzi quale attività sarebbe loro piaciuto svolgere e loro non capivano la domanda. Per quanto usassi metafore non mi capivano, perché in situazioni in cui i desideri mai si avverano anche il poter decidere diventa un concetto sconosciuto.
La problematica dei centri era quindi complessa. Esisteva un diffuso malessere individuale (depressione, alcolismo). I centri non si riconoscevano come comunità al loro interno. Le comunità locali non hanno mai veramente accolto i rifugiati, anche perché gli ultimi dieci anni, accompagnati da grandi trasformazioni, crisi economiche, politiche, due guerre e bombardamenti nato, le hanno rese estremamente chiuse. I centri nel sud della Serbia inoltre sorgono in zone remote e disagiate da sempre. Esisteva anche un fattore istituzionale: il governo Milosevic, che pure aveva fatto un gran uso mediatico in senso nazionalistico dei rifugiati durante gli esodi, nascondeva le condizioni di vita di queste persone, perché avrebbero puntato il riflettore sulle sue sconfitte e sulla sua incoerenza politica.
A livello internazionale quanti conoscevano questa situazione? Pochissimi. È difficile contemplare, nella solidarietà internazionale, le vittime tra i carnefici.
Bisognava quindi lavorare sul cerchio dell’incontro teatrale tra gli individui nei gruppi creativi interni ai centri, su quello tra i gruppi, sul cerchio di incontri fra i centri, ma anche amplificare questo percorso fino a creare un cerchio di incontri tra i centri e il mondo associazionistico, creativo, politico e culturale serbo, perché i loro contenuti fossero conosciuti e diventassero incisivi per il cambiamento. Altrimenti si sarebbe lavorato solo sul coping mechanism, diventando funzionali all’ingiustizia e non cambiando niente in termini di ruolo.
Descrivo solo uno tra i progetti di questo programma, perché tra i più direttamente legati al teatro e alla performance. Il progetto si intitolava “Memoria” o “Prelo Poselo”. In alcuni centri collettivi, durante le attività di ricamo in gruppo o di scacchi per anziani, dei facilitatori locali con competenze psicologiche, animative e attorali, svolgevano laboratori raccogliendo le storie dei partecipanti, non relative alla guerra o alla loro sofferenza del momento, ma quelle del passato, della loro comunità d’origine. C’erano delle giornate dedicate all’amore, piuttosto che alla famiglia e altri temi. Emergeva una componente luttuosa in molte di queste storie, e per questo vi erano anche degli psicologi. Le storie venivano poi rielaborate in monologhi o racconti, che venivano donati al narratore. La persona poteva decidere di tenere il racconto per sé, come un regalo, o raccontarlo alle altre persone del centro collettivo. In questo secondo caso noi organizzavamo una serata in cui il protagonista poteva narrare la sua storia, oppure farla raccontare a un attore in terza persona. Una volta al mese, in un centro comunitario di Nis, la città più grande del circondario, le storie venivano narrate e venivano invitati a partecipare i protagonisti, molti abitanti dei centri collettivi, la televisione, la stampa, le autorità. Questo è solo un esempio di quei cerchi concentrici di scambi che abbiamo cercato di creare.
Il teatro e la guerra. Tre questioni aperte
Quando si lavora col teatro in situazioni, non di disagio, non di conflitto, ma di guerra, bisogna stare molto attenti. Alcuni meccanismi di costruzione della guerra, infatti, ci riguardano da vicino, perché sono strettamente legati all’antropologia, alla cultura, alla performance e al rito. Bisogna quindi usare grande cautela, se non ridefinire il valore di certe parole chiave del nostro lavoro. Nella mia analisi, che riguarda l’esperienza fatta in Kosovo e in Macedonia, tratterò alcuni meccanismi che la comunità albanese ha attivato già dai primi anni Ottanta per arrivare al conflitto. La mia è una provocazione: il mio racconto di questa guerra è esattamente l’opposto di quello dominante in Italia e nei paesi occidentali. Avrei potuto fare esattamente l’inverso, parlando dei meccanismi comunitari, rituali e performativi attivati dalla classe dominante serba per fortificare e creare un alibi al nazionalismo violento; però ho deciso di agire così, proprio per smentire non una versione del meccanismo triangolare rispetto a un’altra, ma il meccanismo stesso, nella sua versione più accreditata.
Comunicazione?
Il ruolo giocato dalla comunicazione massmediatica nella guerra kosovara ha fortemente condizionato tutto il regime comunicativo. Non potendo approfondire questo argomento come vorrei, mi limiterò a ribadire quanto sia stata influenzata la comunicazione dal triangolo simbolico, ma anche da un altro aspetto, più culturale e sociologico. Scrive Anton Berishaj (3), docente di Sociologia all’università di Pristina, che a un certo punto degli anni Novanta, nella comunità albanese kosovara, avviene qualcosa:
“…within a short time, the political scene would witness the evolution of opposition to the regime, from a reliance on the rigid principles of the Kanun, with its eye per eye philosophy, to a highly sophisticated strategy where violence was made politically advantageous through the lens of media… The practice of consulting with the male head of a wronged family to elaborate a means of taking revenge against the perpetrators of violence committed within the circle of the close family (traditional mediation) proved ineffective and antiquated in the new circumstances… For the first time in history, the long-violent Kosovar Albanian shamlessy sought and attained revenge by means of cameras journalists, photo reporters, foreign humanitarian workers, ecc”.
Quindi a lungo, dopo la guerra, la comunicazione, anche quando era creativa e soprattutto se aveva un esito sociale, non è stata neutra, ma direzionata alla violenza subita, con un obiettivo non tanto di giustizia quanto di vendetta, seppure antropologicamente motivata. È stata quindi una comunicazione, anche involontariamente, strumentalizzata da tutte le parti e la creatività è stata solo un altro modo di declinare la vendetta.
Comunità?
La comunità kosovara è multietnica. La guerra “umanitaria” in principio avrebbe dovuto non scegliere una parte, ma garantire questa multietnicità.
Per lavorare sulla relazione in situazioni di conflitto etnico non ancora sfociato in una guerra, ho usato una metodologia precisa, che io chiamo interculturale: non tanto lavorare sull’elemento unificante, “globale”, ma portare ogni comunità al suo limite creativo e rituale per fargli, su quello, incontrare l’altra comunità.
In Macedonia, in alcuni centri comunitari situati a Tetovo e Gostivar, abbiamo sviluppato un progetto di attività interculturali tra bambini rom e albanesi. Artisti e pedagoghi delle due comunità svolgevano laboratori centrati sulle tradizioni e i riti: danza e ricamo tradizionale, teatro, musica popolare e altre attività. I centri erano su due piani collegati tra loro. Le attività si svolgevano nella stessa ora, rom al piano superiore, albanesi al piano inferiore e ogni settimana avevano un tema comune. Abbiamo cominciato coi diritti dei bambini, per poi approdare a feste o rituali specifici di ogni comunità (matrimonio, feste religiose e altri).
Tutti i laboratori lavoravano su quel tema e a fine settimana mostravano i risultati in una performance. I bambini dell’altro piano venivano invitati. Dopo un po’ la passione specifica e il limite creativo di ognuna delle due comunità, unite dallo spazio sicuro delle presentazioni, avevano fatto sì che i bambini cominciassero a mischiarsi, semplicemente perché curiosi di uno strumento che loro non avevano, di un passo di danza più interessante e diverso, di una tecnica di ricamo che a loro mancava. Erano pure cominciati dei corsi di albanese per macedoni, ma poi proprio a Tetovo e a Gostivar è scoppiata la guerra armata e tutto è stato bloccato. Oggi, dopo che la situazione è rientrata, sarebbe impossibile, per motivi logistici e di sicurezza, ma anche simbolici, riprendere un progetto del genere.Perché con la guerra le comunità hanno già raggiunto il loro limite, ma applicando un meccanismo antirelazionale. È quindi troppo tardi per riaggiustare il percorso. Lavorare in profondità sui valori specifici delle diverse comunità, a questo punto, accentua la divisione, perché l’incontro con l’altra comunità non è possibile. Innanzitutto praticamente: i serbi e gli albanesi del Kosovo post-guerra, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto incontrarsi per via degli estremisti, dei check point, dei cordoni di sicurezza che dividevano le zone. Poi simbolicamente.
Vi faccio un esempio. In un campo profughi in Macedonia ho lavorato sul passare le competenze alla comunità. Ho individuato delle persone che avevano delle competenze creative, ho fatto con loro un training di tipo teatrale, ognuno di loro ha portato avanti le sue attività con questo tipo di modello; siamo arrivati alla comunicazione sociale (4). Loro hanno chiesto: “Possiamo fare qualcosa per tutta la comunità del campo, mettendo insieme le nostre attività?”. La prima volta che abbiamo fatto uno spettacolo, avevamo circa duemila spettatori, dopo i primi venti minuti c’è stata una dimostrazione a favore dell’esercito di liberazione kosovara. A favore di un esercito!
Questo per dire che durante o dopo una guerra la comunità spesso si riconosce in un unico narrato, non c’è dialogo e vale solo l’appartenenza a un sistema di valori/disvalori nazionalisti che deve essere condiviso.
Questo è deleterio non solo per la prospettiva interculturale, ma anche per gli individui all’interno di ogni comunità etnica, perché individualità e libertà d’espressione subiscono una specie di auto-censura. Nei laboratori creativi svolti dopo la guerra, il trainer metteva in relazione il suo corpo individuale, ma riceveva la risposta di un corpo collettivo. Se lavorava sulla specificità culturale, si ritrovava a facilitare manifestazioni in favore di eserciti. Quindi nuovamente emerge la necessità di lavorare sulle differenze interne, sul cerchio di incontri.
Ma come si fa ad applicare il cerchio della relazione teatrale in queste circostanze?
In Kosovo si sono praticate due vie.
Individui che facevano una differenza nelle rispettive comunità, aperti al dialogo, sono stati coinvolti in training, seminari, workshop comuni, svolti in luoghi isolati e protetti, per creare un gruppo. Anch’io l’ho fatto, ma con dei problemi. La sostenibilità: il gruppo esiste, ma solo in un non luogo-non tempo, non può resistere concretamente nella vita di tutti i giorni, perché le comunità sono fisicamente divise e molte enclaves, fino a qualche mese fa, non avevano né telefono, né internet, né sistema postale. L’incisività: questi processi non hanno potuto riguardare, se non molto recentemente, la comunicazione sociale. Dare visibilità a queste operazioni avrebbe infatti messo a rischio la vita dei partecipanti, condannandoli all’emarginazione nelle proprie comunità una volta tornati.
Queste esperienze quindi perdono il valore liminale di rimessa in discussione delle comunità esclusioniste del post-conflitto, per chiudersi in esperienze monastiche, in uno spazio-tempo extra-ordinario che lascia poche tracce nell’ordinario. Un’esperienza che gli esiti di un certo teatro di ricerca ci hanno insegnato essere inutile alle società.
Io quindi cerco un altro percorso. Applico il modello del cerchio teatrale di incontro delle differenze, non già tra etnie ma all’interno di una stessa etnia, in modo da rompere questa comunione e dare spazio agli individui, attivando un processo di comunicazione e relazione tra diversità che, sul lungo periodo, potrà portare all’integrazione etnica nell’ordinario.
Faccio un altro esempio. Sono stato responsabile per l’IOM di un master annuale per counsellors psicosociali all’università di Pristina, che comprendeva un modulo trimestrale dedicato al teatro per le attività comunitarie(5). Gli studenti erano solo albanesi, perché le istituzioni universitarie sono aperte solo a loro. Oltre che soddisfare obiettivi formativi e metodologici, abbiamo lavorato molto sulle differenze interne alla loro comunità. Un gruppo di nostri counsellors in formazione ha lavorato insieme (non “per”, ma insieme) a un gruppo di bambini sordi e non sordi, in un laboratorio pensato da me nelle sue linee generali e svolto da Soledad Nicolazzi e Andrea Bertoni. Convivevano nel gruppo differenze fisiche, sensoriali, di lingua e generazionali, interne allo stesso gruppo etnico. Il lavoro è stato estremamente stimolante, nonostante le grandi differenze. Ha lavorato sulla formazione di un cerchio di incontri teatrali e ha fatto capire ai counsellors come si fa a lavorare nella formazione del gruppo a partire da differenze e non da similitudini. Abbiamo poi allargato il cerchio alla comunicazione sociale, attraverso una parata di maschere che si è svolta nel centro di Pristina e a cui hanno assistito diverse centinaia di persone, andando contro i fortissimi pregiudizi che caratterizzano la percezione dell’handicap nella società kosovara e sensibilizzando le autorità che avevano potere decisionale sulla situazione dei bambini sordi.
A distanza di un anno, una dei counsellors è responsabile delle attività extra-curriculari per bambini con bisogni speciali al Ministero dell’educazione; i bambini, sordi e non sordi insieme, continuano la loro esperienza teatrale ma soprattutto molti di quei counsellors partecipano in questi giorni a un training multietnico, con partecipanti serbi, rom e albanesi, che si tiene nel centro culturale di una delle enclaves serbe più grandi. Segnano insomma una differenza, coronando un processo nato con quel training e svoltosi tutto all’interno dell’ordinario. Un training basato sulle divisioni interne dei singoli gruppi, un processo quindi opposto a quello che pratico di solito in situazioni di conflitto.
Rito?
Quando mai succede che lavorando con un gruppo di bambini, chiedi loro “che danza vuoi fare?” e ti rispondono “voglio fare la danza tradizionale”. Mai da noi. Sempre in situazioni di guerra etnica, perché le tradizioni rituali sono un’affermazione di identità, ma di identità in negativo, di identità contro.
Durante tutti gli anni Novanta in Kosovo c’è stato un movimento rituale di riconciliazione. I rapporti tradizionali tra famiglie nelle zone albanesi dell’Europa sono stati basati per secoli sul principio dell’occhio per occhio, quindi le offese e gli assassini vengono, ancora oggi in alcune aree, puniti col sangue, oppure, secondo un codice riconosciuto di pratiche di mediazione, con rituali performativi che possono cancellare la necessità della vendetta. Questi ultimi erano caduti in disuso da diversi decenni.
Dalla fine degli anni Ottanta, con il crescere della pressione serba, hanno invece ripreso vita. Le famiglie, con l’avallo delle autorità religiose albanesi (preti cattolici, capi dervisci, sufi e hoxa islamici), si incontravano per pulire le rispettive offese attraverso questi rituali. È stato un movimento rituale massivo, che ha coinvolto sempre di più villaggi e popolazioni fino a sedute a cui hanno assistito centocinquantamila persone. È chiaro il valore che il rituale assume in queste situazioni: rende più coesa la comunità, cancellando i dissidi interni, ma ne rafforza anche l’identità contro un’altra comunità. Non a caso questo movimento rituale si è, nei fatti, dissolto quando la guerra è finita (6).
La sfera rituale religiosa non è avulsa da implicazioni politiche. Il rituale di primavera delle celebrazioni del “Sultan Nevruz” si svolge, ogni anno, per il solstizio di primavera, a marzo. La famiglia derviscia dei Rufa’i (una delle undici esistenti in Kosovo) si incontra nella scuola teologica di Rahovac, i maschi pregano, mentre le donne stanno sul ballatoio e possono solo assistere. Dopo diverse ore di preghiera (ma altre famiglie pregano anche per diversi giorni e diverse notti), secondo la tradizione sufi sciita, si trafiggono, in bocca, sul collo, in pancia, con spade e strumenti musicali acuminati e sacri. Anche i bambini vengono iniziati trafiggendoli da guancia a guancia. Io ho partecipato a questo rituale e vi garantisco che è un rituale gioioso e potente. Quello che voglio qui analizzare è un altro aspetto.
Questi rituali, già poco diffusi prima del comunismo e praticamente annullati durante il periodo di Tito, sono stati rivitalizzati all’inizio degli anni Ottanta, in chiave nazionalistica, perché segnano la differenza tra la tradizione islamica albanese e quella degli ulema bosniaci (7). A quel tempo differenziarsi dagli ulema bosniaci voleva dire comunque andare contro la tradizione islamica dominante in Yugoslavia, mettendo al primo posto la tradizione albanese, in un rafforzamento di identità etnica che poi è andato avanti e che perdura. Anche questo è un esempio di rituale di coesione interna e di ostilità esterna.
Conclusioni
Concludo con una riflessione fondamentale sulla guerra. La cosa più importante sarebbe agire sulla prevenzione quando un conflitto è in atto, piuttosto che essere gli umanitari del giorno dopo. Per prevenire bisogna agire sull’empowerement della società civile, supportando forme di dialogo e di costruzione di relazione, attraverso la messa in cerchio delle diversità.
Questo processo umanitario e creativo è secondo me riferibile alla logica comunicativa del teatro. Il teatro come laboratorio, processo creativo e performance può inoltre esserne uno strumento. Quando agiamo in situazioni in cui tutto questo non è successo e si è giunti al limite estremo della guerra, non possiamo però pretendere di arrivare con il nostro pacchetto di parole e di azioni – comunità, rito, comunicazione ma anche trauma – perché esse hanno ormai assunto significati e valori diversi.
L’esperienza del teatro ci insegna che è sul limite che ci incontriamo, proviamo e quindi ridefiniamo le relazioni e le cognizioni. Portando il teatro sociale a provarsi sul limite più estremo, quello della guerra, ci ritroviamo nella necessità di riconsiderare alcuni suoi capisaldi. Ma questa riconsiderazione, come tutte le scoperte fatte sul limite, porta a una ridefinizione dello stesso teatro sociale.
Guglielmo Schininà*
Note
(1) N. Losi, “Beyond the Archives of Memory”, in Psychosocial Notebook, II, iom, Geneve, October 2001, pp. 5-14.
(2) Vi rimando ad articoli che ho precedentemente scritto e oggi porto solo un esempio pratico. Cfr. G. Schininà, “Così lontano, così vicino…”, in Comunicazioni Sociali, XXIII, 3, Vita e Pensiero, Milano, 2001, pp. 234-54 and G. Schininà, “A Circle of Barters and Encounters…”, in Psychosocial Notebook, III, iom, Geneve, May 2002.
(3) A. Berishaj, “Violence Following Violence”, in Psychosocial Notebook, II, iom, Geneve, October 2001, pp. 79-86. Il Kanun di Leke Dugagijni è il codice di norme che hanno regolato dal quattordicesimo secolo la vita sociale e la legge tra famiglie albanesi, che è sempre rimasto attivo qualunque fosse il codice civile ufficiale ed esterno alla comunità. Esso è basato sul principio della vendetta ed è ancora in uso solo in settori limitati della società. Traduzione: “in breve tempo, la scena politica avrebbe testimoniato l’evoluzione dell’opposizione al regime a partire da una fede nei rigidi principi del Kanun, con la sua filosofia dell’occhio per occhio, fino a una sofisticatissima strategia, in base alla quale la violenza era resa politicamente vantaggiosa grazie alla lente dei mass media... La pratica di consultarsi con il ‘patriarca’ della famiglia ‘offesa’ per elaborare un mezzo per vendicarsi (mediazione tradizionale) della violenza commessa all’interno della cerchia familiare, appare inefficace e antiquata alla luce delle nuove circostanze. Per la prima volta nella storia, gli albanesi del Kosovo, abituati da lungo tempo alla violenza, hanno impunelemte cercato e ottenuto vendetta grazie alle telecamere, ai giornalisti, ai fotoreporter e ai volontari stranieri”.
(4) G. Schininà, “Gli arrabbiatissimi adolescenti di Senokos”, in Catarsi, V, 13-14, 2000, pp. 53-5.
(5) G. Schininà, “A Circle of Barters and Encounters…”, cit.
(6) Meeting with the Leader of the Rufai’s Theological School in Rahoevac, iom, 2001 (video).
(7) G. Duijzindgs, Religion and Politics of Identity in Kosovo, Hurst and Company, London, 2000.
* Guglielmo Schininà, esperto di teatro sociale in situazioni di emergenza e disagio sociale, ha lavorato in diversi paesi dell’Africa, dei Balcani e dell’Est Europa gestendo progetti psicosociali improntati all’uso di creativita’ e performance. Attualmente e’ Program Officer per lo psicosociale e l’integrazione culturale di IOM in Kosovo e collabora con ICS e l’Universita’ Cattolica di Milano.