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Fatos Lubonja: una voce libera da premiare con il «Moravia»
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Data pubblicazione: 05.12.2002 00:00

E' lo scrittore albanese Fatos Lubonja il vincitore del premio Alberto Moravia 2002 per la narrativa straniera. Ha ricevuto il premio il 3 dicembre, presso il Teatro Sala Umberto a Roma.
Fatos Lubonja nasce a Tirana nel 1951 all’interno di una famiglia in vista nell’establishment comunista. Nel 1973 si laurea in fisica presso l’università della sua città. Nel 1974 viene arrestato per associazione e propaganda contro il regime, a causa del ritrovamento di alcuni scritti contro la dittatura comunista. Solo nel 1991, al crollo del regime comunista, verrà liberato. Il suo arresto, assieme a quello del padre, direttore a quel tempo della televisione albanese, fu fra i primi di una violentissima campagna scatenata da Enver Hoxha contro quelli che considerava i "liberali" all'interno del regime.
Segretario del Forum per i diritti dell'uomo a partire dal 1991, diventa l'intellettuale più lucido nell'analisi del periodo enverista dello stalinismo, e delle contraddizioni della nuova democrazia albanese. Nel 1997, durante la crisi delle finanziarie piramidali, è uno dei tre segretari del forum delle opposizioni al regime di Salih Berisha.
Dalle colonne del quotidiano Shekulli i suoi editoriali contro la corruzione e la mancanza di una concezione del bene pubblico nel sistema politico albanese rappresentano una delle poche voci autonome nel panorama intellettuale albanese.
È fondatore e direttore della rivista culturale Perpjekia (Impegno), con la quale ha iniziato un'opera di demistificazione dei miti nazionalisti della cultura albanese, che attraversano la storia contemporanea albanese dall'indipendenza ai giorni nostri, passando per il periodo del regime enverista, dove diventano forma del nazionalcomunismo. Il nazionalcomunismo è stato per Lubonja una simbiosi delle due ideologie – nazionalismo e comunismo – che faceva fuggire gli albanesi dalla miseria del presente verso un glorioso passato o verso un futuro felice, senza essere mai capaci di capire la loro realtà e la loro miseria, perché non sapevano da dove venissero realmente, dal momento che avevano solo dei miti ideologici come patrimonio culturale. Molto famosa è la polemica della rivista contro l'opera e la figura intellettuale di Ismail Kadaré, considerato un cantore del regime comunista ed un fautore, mediante la letteratura, della propaganda nazionalcomunista. Per Lubonja Enver Hoxha ha inventato il nazionalcomunismo per manipolare le coscienze e opprimere la popolazione, e Kadaré si è prestato alla diffusione del nazionalcomunismo con le sue opere letterarie.
Lubonja rivendica con orgoglio la decisione, presa giovanissimo a partire dalla fine degli anni Sessanta, di non scrivere più per il pubblico, una volta capita la vera natura del regime. Ed accusa Kadaré di non avere avuto lo stesso coraggio. Questa sua posizione ha isolato Lubonja all'interno del panorama intellettuale albanese, dove viene accusato di offendere una delle glorie nazionali. Kadaré per i più, in Albania, avrebbe il merito di fornire un orgoglio identitario al popolo albanese, perché la sua opera è famosa in Occidente. Questo conferma Lubonja nella sua idea che la cultura in Albania ancora non si è liberata dall'ossessione dell'emulazione dei grandi esempi, a tutto discapito dell'autonomia e della presa di coscienza della propria storia.
Fra le sue opere va ricordato il diario della prigionia, pubblicato anche in Italia dall'editore Costantino Marco, e "Ridenimi" (La ricondanna). E' autore di numerose altre opere e di innumerevoli saggi, in cui l'attenzione di Lubonja si concentra con implacabile lucidità sull'analisi del potere, in qualunque forma si possa presentare.
Considera la battaglia per i diritti dei migranti come delle più giuste e significative nel tempo della globalizzazione, così come a ripetuto a Firenze qualche settimana fa nel corso del Social Forum Europeo, invitato dall'Osservatorio sui Balcani di Rovereto e dal Consorzio Italiano di Solidarietà. In quell'occasione ha dichiarato di vedere l’Europa dopo l’11 settembre di fronte alla possibilità - per dirla con Husserl – di essere «un’Europa esausta», oppure «un’Europa dell’eroismo della ragione». Un’Europa esausta porterebbe nelle braccia delle destre nazionaliste. La sfida più grande dell’Europa in questo momento è per Lubonja l’atteggiamento verso i migranti, che dovrà essere il vero discrimine fra destra e sinistra. Si è detto preoccupato per una sinistra che sull'argomento attua dei compromessi, ha un atteggiamento ambiguo, per motivi di puro potere. Una sinistra con l’eroismo della ragione - ha affermato nel corso del suo intervento a Firenze - deve essere più coraggiosa per salvare l'Europa dalla barbarie nazionalista e xenofoba.
Lo abbiamo intervistato in occasione del suo soggiorno a Roma per il ritiro del premio.
OB: E’ direttore della rivista Perpjekia. Quale può definirsi il suo impegno culturale? Lubojna: Io sono uscito dalla prigione con alcuni punti di riferimento chiari, legati all’idea che la nostra cultura aveva bisogno di cambiare e di introdurre lo spirito critico. Avevamo bisogno di umanizzare e deideologizzare la cultura, di riscrivere la storia per capire meglio noi stessi. La rivista che ho fondato, Perpjekia, ha proprio lo scopo di riscrivere la storia albanese, smontando e demistificando i miti sui quali era stata costruita dallo spirito che io chiamo nazionalcomunista. Il nazionalcomunismo era una simbiosi delle due ideologie – nazionalismo e comunismo – che faceva fuggire gli albanesi dalla miseria del presente verso un glorioso passato o verso un futuro felice, senza essere mai capaci di capire la loro realtà e la loro miseria, perché non sapevano da dove venissero realmente, dal momento che avevano solo dei miti ideologici come patrimonio culturale. In questa opera di demistificazione ho avuto molti contatti con le letterature che spiegavano i nazionalismi del XIX secolo.
Io ho cominciato con la mia rivista a schierarmi contro il nazionalismo, in un periodo in cui professare la fede nazionalistica era un vanto in tutta l’Albania, soprattutto perché professarsi nazionalista significava definirsi anticomunisti. Inoltre in Albania non c’era consapevolezza di cosa fossero i vari nazionalismi europei, che ci poteva essere un nazionalismo progressivo come quello risorgimentale italiano mazziniano, o quello di Ataturk, e un nazionalismo razzista e violento come quello fascista e nazista. E soprattutto in Albania nessuno voleva ammettere che lo stesso Enver Hoxha era stato un grande nazionalista. Lui aveva usato il nazionalismo, aveva isolato l’Albania nel nome del nazionalismo. Aveva creato tutti i miti nazionalistici. È stato lui a mettere la statua di Skanderbeg sulla piazza principale di Tirana.

OB: La tua famosa polemica con Kadaré si basa proprio su questo… Sì, certo. In quella polemica io faccio una battaglia per introdurre lo spirito critico nella nostra cultura. Voglio che nella nostra cultura si introduca l’introspezione, la capacità di capire se sessi, l’individuo. Per fare in modo che l’individuo non si veda costretto a essere solo colui che deve emulare i modelli eroici della mitologia.

Tu scrivi che comunque Kadaré ha fatto fare il passo decisivo della letteratura albanese dal dilettantismo al professionalismo. Non si può negare che dal punto di vista della lingua e dello stile l’opera di Kadaré sia stato un passo importante per la letteratura albanese. Io contesto Kadaré per diversi motivi. Il nazionalismo è la più evidente. Non solo il nazionalismo, ma il nazionalcomunismo. È terribile che di cinquant’anni di comunismo Kadaré e altri come lui non abbiano scritto nulla. Questi sono testimoni della realtà albanese e su questa non hanno scritto nulla. Uno scrittore se non scrive quel che vede – aldilà dello stile più o meno realistico – che scrittore è? Nella nostra letteratura mancano i cinquant’anni di Enver Hoxha: ciò che sentiva le gente, la paura, il terrore. Tutto manca. Manca perché non si poteva scrivere. E allora Kadaré si rivolse al mito, alla Seconda Guerra Mondiale, e all’Impero Ottomano. Insomma, qual è il ruolo dello scrittore, se non quello di scrivere su una dittatura?
Possiamo dire che quello di Kadaré non è solo stato un rifugio letterario in attesa di tempi migliori, ma un vero e proprio sostegno al regime. Non è come per alcuni intellettuali italiani che durante il fascismo si sono ritirati a studiare aspetti della storia italiana non contemporanea, in modo da non interessare la censura del regime fascista. Kadaré fu un convinto sostenitore del regime.
Certo, è così. È stato parte attiva della vita del regime comunista. Ha seguito passo dopo passo con la sua opera la propaganda, con l’aggravante di averlo fatto in modo letterario, non solo con libercoli propagandistici. Insomma, Enver Hoxha ha inventato il nazionalcomunismo per maniopolare le coscienze e opprimere la gente, e Kadaré si è prestato alla diffusione del nazionalcomunismo con le sue opere letterarie. Tutto quello che faceva il partito trovava espressione nelle opere degli scrittori, ed anche di Kadaré. Tu mi chiedevi a proposito dello stile di Kadaré che comunque è stato importante per la letteratura albanese. Io allora penso: il fatto che lo stile di Kadré fosse letterariamente elevato, può farci dire che forse è stato il contributo migliore per il regime, non dozzinale propaganda.
Sai, qui io mi incazzo molto, perché mi sento molto solo. Quando io tratto la questione su cosa sarebbe successo se queste persone non avessero scritto per il regime, tutti fanno finta di non sentire nell’ambiente intellettuale e politico albanese. Io in fondo quando capii la vera natura del regime, decisi di non scrivere più, o comunque di scrivere solo per me stesso e pochi amici. Decisi di non voler più pubblicare, di non voler più sottostare ai dettami del partito per pubblicare cose gradite al regime, e vivere così dei privilegi accordati agli scrittori. Come potevo pretendere di scrivere una grande opera – così come è aspirazione di ogni scrittore – se non avessi potuto la verità, se avessi dovuto mentire quando scrivevo? Da questo punto di vista io mi sento solo. Adesso la gente si fa semplicemente questa domanda: sarebbe stato meglio avere o non avere Kadaré? E anzi mi dicono: come puoi osare di dire che sarebbe stato meglio non avere Kadaré, un grande autore che ci dà l’orgoglio identitario nei confronti dell’Occidente? Questo vuol dire che non sono importanti i compromessi che lui ha fatto, ma la sua fama di grande scrittore in Occidente.
La mia convinzione è che la dittatura senza quegli scrittore avrebbe avuto vita meno lunga, sarebbe stata cieca e senza voce, e come molti esseri ciechi e senza voce non sarebbe potuta sopravvivere a lungo. Io non perdono che tutti gli scrittori del periodo comunista, non solo Kadaré, invece di sentire la responsabilità per quello che hanno fatto e per non aver detto la verità, si dichiarano come se fossero stati dissidenti, come se fossero stati contro il regime. Questo fa parte della nostra cultura: di dare sempre la colpa all’altro, di non sentire mai le proprie responsabilità, di non analizzare se stessi in profondità. E Kadaré invece di scrivere il miglior libro della sua vita, dove scrivere i compromessi e le umiliazioni che ha subito, riporta solo qualche episodio in cui Enver Hoxha si è lamentato di alcuni suoi scritti, che è nulla in confronto ai privilegi di cui lui ha beneficiato come scrittore del regime. Tutti i maggiori scrittori erano dichiarati scrittori nella libera professione, potevano fare quello che volevano, avevano fra i migliori salari del regime solo per scrivere. Pensa che io adesso devo guadagnarmi da vivere, e ci riesco scrivendo editoriali per Shekulli. Kadaré inoltre aveva a disposizione un traduttore solo per lui in francese, e in più il governo fece di tutto perché fosse edito in Francia. E su queste cose in Albania non si parla, si addossa tutta la colpa a Enver Hoxha per quello che successe in quel periodo, nessuno vuole pensare alle proprie responsabilità.

Tu eri a Firenze al Forum Sociale Europeo. Hai parlato di Europa esausta…
Io vedo oggi l’Europa dopo l’11 settembre di fronte alla possibilità - per dirla con Husserl – di essere «un’Europa esausta», oppure «un’Europa dell’eroismo della ragione». Un’Europa esausta ti porta nelle braccia delle destre nazionaliste. Io credo che la sfida più grande dell’Europa in questo momento sia l’atteggiamento verso i migranti, che dovrà essere il vero discrimine fra destra e sinistra. E qui vedo una sinistra fin troppo ambigua, per motivi elettoralistici, di potere. Invece una sinistra con l’eroismo della ragione deve essere più coraggiosa per salvare l'Europa dalla xenofobia e dal razzismo. Sento che questa è la più grande sfida che abbiamo davanti.
Tu che sei stato un prigioniero politico, cosa hai pensato vedendo i prigionieri cosiddetti talebani imprigionati a Guantanamo, in quelle condizioni disumane e irrispettose di tutte le convenzioni di diritto internazionale a difesa dei prigionieri di guerra? E cosa pensi dei tribunali speciali americani contro il terrorismo, al di fuori di qualsiasi controllo pubblico?
L’Ovest per me, prigioniero politico albanese, è stato come un dio monolitico all’inizio, come un mito, come la terra promessa del salvatore, dopo le delusioni del comunismo. Poi c’è stata l’apertura, il contatto vero con questo mito, e questo contatto vero ha portato ad una frammentazione di questo mito. Si è cominciato a vedere per esempio che Italia, Germania, Grecia e Francia attuavano nei Balcani una politica di potenza così come era stato durante le guerre mondiali. Vedevi i tedeschi filocroati, i francesi filoserbi, insomma si stava tornando alla storia del passato. Abbiamo cominciato a capire che gli Stati Uniti e l’Europa non sono la stessa cosa, perché ci sono molte contraddizioni e interessi diversi. Si è cominciato a vedere che nell’Ovest c’è una destra e una sinistra, con sistemi di valore diversi.
Per arrivare alla tua domanda. Abbiamo visto che c’era anche un antiamericanismo da parte della sinistra occidentale, anche italiana. Con tale antiamericanismo io mi sono sempre confrontato con molte perplessità, perché avevo visto sempre nei Stati Uniti l’antipodo del male, il campione della democrazia e della libertà. Io difficilmente potrei diventare un antiamericano o un antieuropeo. Come uno di sinistra, mi sento vicino a quegli americani che sono sfilati dopo l’11 settembre con i cartelli “Not in my name”, contro la guerra in Afghanistan. Certo che come prigioniero politico la cosa che più mi fa orrore è vedere le condizioni dei prigionieri a Guantanamo. Mi fa orrore la mancanza di sensibilità per gli esseri umani in questa guerra e mi fa schifo la ipersensibilità degli americani per la loro sicurezza. Quando ho sentito questo Bush parlare di “giustizia infinita”, ho pensato all’arroganza di questo uomo, quasi come volesse identificarsi con dio. Sai, io non sono credente, ma c’è una parabola del vangelo che mi sembra bellissima. Parlo della parabola del contadino che voleva pulire il campo dall’oglio, che alla fine nella sua furia distrugge anche il grano. L’idea è che tu non puoi fare giustizia infinita, perché alla fine distruggerai tutto, e che solo dio può fare la giustizia infinita. Io poi non credo in dio e penso allora che il mondo dovrà emancipare i paesi dove regna la violenza e il terrore con l’umanesimo. Dal punto di vista della mia esperienza di prigioniero c’è un’altra cosa che mi colpisce fortemente. Secondo la mia filosofia, la vita è bella perché c’è anche il rischio. Io ho avuto tante sventure nella mia vita, e credo che cercare di vivere senza pericoli e senza rischi, è un po’ come cercare la giustizia infinita, come sentirsi dio. Mi colpisce poi la differenza del valore della vita, fra quella degli americani e quella degli altri, e questa cosa mi disgusta. Già avevamo visto questa differenza durante la guerra del Kosovo. Questa arroganza mi colpisce molto, la sento molto proprio anche da albanese, anche nei confronti degli altri europei che ci considerano spesso come inferiori.
a cura di Claudio Bazzocchi