Una tesi di laurea: 16 interviste ad operatori umanitari italiani in BiH. Significativi i dati sulla scarsa formazione.
Nicola Lux - Bosnia Erzegovina
Francesco Rigamonti
La guerra che ha insanguinato la Bosnia Erzegovina dal 1992 al 1995 ha assunto un valore storico, sociale e politico notevole. Insieme al conflitto ruandese è diventato il paradigma del conflitto etnico.
Le forme tragiche in cui si è manifestato questo conflitto, i massacri, la pulizia etnica, i lunghi e cruenti assedi, sono state considerate come le forme più drammatiche cui inevitabilmente porterebbe il nazionalismo etnico estremo. Al di là di questo, la guerra ha rappresentato un punto di svolta, se così si può dire, per l’opinione pubblica, ma anche per gli attori della politica internazionale. Secondo Zlatko Dizdarevic, noto giornalista e scrittore bosniaco, l’ONU stessa sarebbe addirittura morta a Sarajevo. E’ comunque certo che le vicende di questo conflitto hanno influenzato profondamente, nel bene e nel male, la concezione dei diritti umani e della loro tutela.
La guerra è stata rappresentata, in maniera molto sbrigativa e semplicistica, come una sorta di nuovo medioevo nel cuore dell’Europa e a questa immagine molto hanno contribuito una serie di pregiudizi negativi sulla zona dei Balcani e sulle popolazioni che vi abitano, tanto da far parlare di “primitivismo balcanico”.
Visioni più benevole e con una presunzione di storicità hanno invece parlato di una sorta di rinascita del demone balcanico del nazionalismo, dopo il letargo imposto dal regime di Tito ed hanno rispolverato vecchie teorie, arrivando a ricordare come la causa scatenante della prima guerra mondiale fosse stata la difficile situazione dei Balcani e il famoso omicidio di Sarajevo.
Quanto questa serie di “gabbie interpretative” hanno influito sulla visione e sul lavoro di quel grande numero di operatori, volontari e non, che hanno operato durante e dopo il conflitto di Bosnia?
Il tema della identità etnica è stato assunto dagli operatori umanitari come chiave di lettura e di spiegazione della realtà sulla quale intervenivano?
E’ possibile affiancare a questo modello monocausale un approccio esplicativo di più ampio respiro che preveda un intreccio di strategie identitarie?
E’ possibile che la linea di identificazione urbano/rurale abbia svolto un qualche ruolo all’interno del conflitto bosniaco?
Quanto conta la formazione dei volontari e, soprattutto, è possibile prefigurare un percorso di formazione ideale per i volontari e cooperanti che eviti l’assunzione dei pregiudizi negativi cui abbiamo accennato?
Questi sono gli interrogativi principali che hanno mosso la ricerca “L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani”.
Essa è stata presentata come tesi di laurea di Sociologia dello Sviluppo, relatore il Prof. Alberto Tarozzi, nell’ambito della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, durante la prima sessione dell’anno accademico 2001/2002.
Come punto di vista privilegiato per analizzare la vicenda bosniaca si è deciso di prendere in considerazione quello degli operatori umanitari che a vario titolo, volontario e non, hanno operato in Bosnia Erzegovina durante e dopo il conflitto.
Su questa scelta ha influito in maniera rilevante la considerazione della notevole dimensione che ha assunto l’intervento umanitario, professionale e volontario, nell’area dei Balcani. Dati dell’ ICS pubblicati di recente, ci fanno stimare in 20.000 il numero di civili italiani che si sono recati in ex-Jugoslavia per svolgere attività di cooperazione, di interposizione, di aiuto umanitario o semplicemente per portare la solidarietà umana e materiale alle popolazioni colpite dai conflitti.
Attraverso una serie di 16 interviste, in special modo ad operatori delle ONG, si sono approfondite le seguenti tematiche:
• La formazione e la sua influenza sulla percezione delle problematiche presenti in loco;
• La presenza di una specificità bosniaca dettata dal pluralismo e l’eventuale influenza di tale fattore sul lavoro concreto dei cooperanti e volontari;
• L’identità etnica, la sua ricaduta sul lavoro dei soggetti intervistati e la sua influenza sui problemi che oggi vive la Bosnia;
• La contrapposizione città-campagna, la presenza di un’identificazione secondo le linee città-campagna, le sue relative conseguenze sul lavoro di cooperazione o sull’attività di volontariato e sulla situazione bosniaca;
• L’eventuale interazione fra queste due differenti strategie di identificazione.
I risultati della ricerca dimostrano che presso gli operatori umanitari italiani prevale una visione della realtà bosniaca che rifiuta la “gabbia interpretativa” dell’etnicità e privilegia un’immagine complessa della realtà, caratterizzata dalla compresenza e dall’intreccio di diverse dimensioni e linee di identificazione. Tutto questo nonostante la pressoché totale mancanza di specifici e puntuali percorsi di formazione prima della partenza, vuoi per le ristrettezze economiche delle ONG o delle associazioni, vuoi per le necessità di intervento immediato di molti progetti nell’area. Questa visione non banale, costruita attraverso l’esperienza sul campo ed il rapporto quotidiano con i beneficiari, rappresenta un vero e proprio patrimonio di conoscenza, utile per tutti gli operatori della solidarietà internazionale, che rischia tuttavia di essere disperso, se non si è in grado di costruire opportuni momenti di riflessione e socializzazione dell’esperienze stesse.
Si tratta di una perdita tanto più grave dal momento che questa visione ha permesso di cogliere la sostanziale modernità delle vicende bosniache.
Esse costituiscono un monito per tutti noi: in un periodo in cui si afferma sempre di più la necessità di fare i conti con un’apertura del nostro modello alla multietnicità, la deriva bosniaca ci mostra il pericolo insito nella chiusura di fronte alla diversità.
Il rinascere del nazionalismo e le istanze di rafforzamento e chiusura della nostra identità non sono infatti solo un’amara eredità del crollo dei regimi dell’Est europeo, ma sono risposte sempre più comuni anche nella nostra società, di fronte allo spaesamento causato dalla crescente complessità sociale che, inevitabilmente, caratterizza il nostro presente.
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