Un reportage da Ljublja, cittadina mineraria nel nord della Bosnia. Vittima del crollo della Jugoslavia e del suo sistema produttivo. Vittima della guerra e della tragedia di sfollati e rifugiati.
La facciata di una casa a Ljublja
Gli uffici delle miniere sono nel centro città di Prijedor, nord della Bosnia, affacciati sulla via principale. Di fronte la sede della polizia, al fianco il municipio. Sulle vetrate dell'entrata due grandi martelli incrociati su sfondo verde e marrone. Dietro l'implacabile "alt" di tre portinai, che controllano chi entra e chi esce. Nonostante le attività delle miniere siano da anni sospese c'è un certo via vai. Molti degli uffici dell'edificio sono stati infatti affittati a privati: scuole guida, sevizi internet, qualche avvocato.
Nell'atrio una teca in vetro contiene una stele romana. "La zona di Prijedor è stata sfruttata dal punto di vista minerario sin da epoca romana e questi ritrovamenti archeologici lo stanno a dimostrare" narra con orgoglio Darko, ingegnere, "fin all'inizio della guerra siamo stati attivi in tre luoghi: Ljublja, Omarska e Tomasica". Su questi nomi passa veloce per poi soffermarsi sulle caratteristiche degli impianti estrattivi in ciascun sito. Ma oramai questi luoghi non traspirano più solo gigantismo socialista in disuso ma sono direttamente legati alle vicende di pulizia etnica subite nell'area di Prijedor da bosniaco-musulmani e croato-bosniaci. Ljublja, i tunnel delle miniere sono stati utilizzati quali fosse comuni, le riesumazioni sono iniziate nell'ottobre del 2001; Omarska, vi è stato costruito dai serbo-bosniaci un campo di concentramento e di smistamento.
Poi la Lada Niva, bianca con i due martelli incrociati sulle portiere, i venti chilometri che dividono Prijedor da Ljubja e la strada sterrata dove il fango si mescola alla neve caduta abbondante la settimana prima. Arriviamo a metà di una collina. Le due vie che si incrociano ad elle, asse portante dell'abitato di Ljublja, rimangono nascoste nel fondovalle. Con loro il decadente degenerare della linearità delle abitazioni dei minatori costruite nel periodo austro-ungarico e socialista, oramai lasciate a se stesse. Il minerale di ferro veniva estratto dal ventre della collina per poi subire una progressiva ripulitura in enormi edifici di cemento-armato e metallo che pesano, con la loro mole, sul degradare della collina. Le prospettive arrugginite cadono tra i rovi. Ed in fondo si congiungono con una linea di binari. "Questa catena produttiva è stata costruita negli anni '60, ed ha permesso un incremento sostanziale della produzione " ci dice l'ingegnere mentre ci guida tra i meandri di quest'archeologia industriale. Un portellone in metallo si riesce ad aprire anche dall'esterno e rivela un paesaggio desolato. Il tono dominante è il marrone: del fango, della ruggine e dei resti ferrosi di lavorazione. L'unico elemento di colore che si differenzia è sulla parete opposta, distante almeno un centinaio di metri, dove vetrate blu filtrano la luce. Quasi una cattedrale. Dove negli anni passati dominava il frastuono, ora si sentono le gocce precipitare nel vuoto. "Nelle miniere erano impiegate circa 5.000 persone, ora, almeno formalmente, ne sono impiegate ancora 1200, la maggior parte delle quali però sono in una sorta di cassa integrazione". "Prospettive per un acquisto di qualche azienda straniera? Certamente" afferma sicuro l'ingegnere, più per partito preso che per intima convinzione. La maggior parte della gente di Ljublja la pensa diversamente e si rende sempre più conto che la privatizzazione e gli investimenti stranieri in questi colossi statali è forse solo un'illusione. O un modo per formalizzare il licenziamento di quei 1200 quasi-lavoratori.
"Ljublja era una cittadina modello. Ho lavorato nelle miniere per più di trent'anni come meccanico specializzato" ci dice Bogdan, incontrato in un centro ricreativo per anziani risistemato da poco da un'associazione italiana "sono andato in pensione giusto in tempo, nel 1991. Poi si sono interrotti i rapporti di fornitura con le acciaierie di Zenica nella Bosnia centrale, di Sisak in Croazia, di Smederevo in Serbia. Di conseguenza anche il processo di estrazione del minerale è stato bloccato". "Alla fine degli anni '80? Prendevo il corrispondente attuale di 1500 marchi convertibili, ma allora si stava bene. Oggi sono però tra i fortunati, seppure con molti mesi di ritardo prendo una pensione di 370 marchi convertibili". Da un tavolo vicino dove alcuni anziani sono intenti a giocare a domino si alza una voce di dissenso. "Dì la verità Bogdan, non vergognarti, prendiamo molto meno" gli dicono. Ma lui fa finta di niente e continua a raccontare con la voce resa roca dal fumo.
"Quando ero giovane ho giocato a pallamano. A Ljublja vi erano due squadre molto forti di pallamano e ginnastica artistica". I suoi occhi si spostano su Sanela che ha, fino a poco tempo fa, gestito un centro giovanile in città. "Si sa se gli italiani hanno deciso di risistemare il palazzetto dello sport?". Chiede per poi rivolgersi nuovamente a me. "Sarebbe importante, ci si potrebbero organizzare eventi di vario tipo e poi questi ragazzi hanno bisogno di muoversi, di fare qualcosa". Sanela dice che ancora non sa. Anche il centro giovanile che dirigeva ha dovuto per il momento chiudere. Aveva sede in uno dei tanti edifici di proprietà delle miniere. "Ma il direttore ha voluto che pagassimo un affitto maggiore rispetto all'anno precedente. Non possiamo permettercelo e per questo abbiamo dovuto bloccare le nostre attività". Assurdo che le miniere, il cui fallimento ha causato lo stato di prostrazione di un'intera cittadina, faccia fallire anche le uniche iniziative che possano dare, seppur solo in parte, respiro alla gente delusa e depressa.
Lasciamo la stanza piena di fumo del circolo degli anziani. L'atmosfera invernale qui a Ljublja è pesante. Le luci arancione dei lampioni riverberano sulla neve ed una leggera e fredda foschia si è alzata. Ljublja, vittima di una monoproduzione attorno alla quale girava la vita dell'intera città. Vittima della disgregazione della ex-Jugoslavia della quale porta ancora profonde le ferite: non solo i capannoni industriali ed i tunnel nelle montagne con i loro pesanti segreti ma anche le vite dei molti sfollati e rifugiati arrivati a vivere in quest'area da altre parti della Bosnia e dalla Croazia. "Non è per me, oramai sono vecchia, ma è per i miei figli che vorrei potessero rientrare nelle loro case o quanto meno trovare una sistemazione decente qui" ci diceva una donna in un campo collettivo in centro città. Ed intanto continuava a lavorare a maglia controllando se il caffè lasciato sulla stufa a legna fosse pronto.