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giovedì 08 settembre 2022 13:06

 

… e siamo partite! Migrazione, tratta e prostituzione straniera in Italia

01.04.2003   

Un libro di interviste a prostitute straniere in Italia. Luisa Chiodi, collaboratirce dell'Osservatorio, ha intervistato una delle due autrici.
La copertina del libro
Abbiamo intervistato Ada Trifirò autrice con Carla Corso, presidente del Comitato per i diritti delle Prostitute, del libro: ‘... e siamo partite! Migrazione, tratta e prostituzione straniera in Italia’ appena pubblicato da Giunti. Si tratta di un testo di grande interesse per chi intende avvicinarsi alla questione del traffico di persone, di cui come sottolineano le autrici, quello a scopo di prostituzione è solo una parte. L’idea centrale del libro è quella di mettere al centro dell’indagine le donne e le loro storie di vita e in questo modo mostrare l’ “altra faccia” della prostituzione straniera in Italia, smontando lo stereotipo della vittima passiva. Le storie raccolte nel libro parlano per lo più di coraggio e determinazione, di donne vincenti e non vinte, di persone che cercano autonomia e emancipazione. Il messaggio del libro è duplice: non ci si può avvicinare al traffico di persone senza partire dalla volontà di attuare il progetto migratorio che si conclude nello sfruttamento. D’altro canto il traffico di persone è frutto del nostro modello di sviluppo e delle barriere che imponiamo alla libertà di circolazione delle persone.

D. Quale è il filo che lega la tua esperienza a quella delle donne che hai intervistato? Come nasce un libro come questo?
R. Il libro si inserisce pienamente nella mia esperienza di cooperante donna e di femminista. Ho iniziato a lavorare nella cooperazione internazionale con le donne nei Balcani quando della tratta di esseri umani si iniziava solo a parlare. E’ stata una prima marginale conoscenza del fenomeno, basata per lo più sull’immagine che ne davano i mezzi di comunicazione e gli stereotipi che andavano diffondendosi nella regione così come in Italia.
Nel nostro paese si è iniziato a conoscere la realtà della tratta proprio a partire dal caso delle donne albanesi. Lo stereotipo dominante della donna trafficata, per una certo periodo, è stato proprio quello della ragazza albanese venduta dal proprio fidanzato o marito, portata in Italia con l’inganno e costretta a prostituirsi. Il fatto che molte donne albanesi abbiano dovuto subire questa esperienza è certo e tuttavia questo stereotipo ha spostato troppo l’attenzione sulla semplice condanna del fenomeno criminale facendoci distogliere lo sguardo dalle persone che ne sono state coinvolte. La tratta di minori e di esseri umani è sempre esistita nella storia ma oggi assume caratteristiche diverse innanzitutto in termini quantitativi. Gli uomini, le donne e i bambini che vengono trafficati sono certamente più numerosi adesso che in passato, soprattutto a partire dal crollo del muro di Berlino. L’inizio degli anni ’90 ha segnato in questo senso un cambiamento considerevole a livello globale e ancora di più rispetto all’Europa dell’Est.
Da quel momento hanno iniziato ad arrivare da noi tutti coloro che finalmente non avevano più restrizioni ad uscire dai loro paesi e che hanno sempre guardato all’Europa occidentale come ad un simbolo di democrazia, di cultura e di progresso, anche economico. Parallelamente gli anni ’90 hanno visto affermarsi un po’ ovunque a livello mondiale le politiche neoliberiste con il risultato dell’aumento generalizzato della sperequazione economica, dell’acuirsi del divario fra ricchi e poveri, dello scoppio di nuove guerre. Le grandi multinazionali si sono affrettate a sfruttare le risorse naturali di questi paesi e vi hanno trasferito gran parte delle proprie produzioni, come quelle alimentari e di confezioni ad esempio. Il fenomeno della migrazione si è accresciuto ed ha assunto proporzioni spaventose: si è comincia allora a parlare della tratta di esseri umani.
In Italia i mezzi di informazione hanno iniziato ad interessarsi del fenomeno intorno agli anni ’97 – ’98: in questo periodo le donne coinvolte nella tratta sono state in maggioranza albanesi, considerando anche che a partire dalla metà degli anni ‘90 fra le prostitute presenti in Italia il 40% circa erano albanesi.
Oggi invece la maggioranza delle donne vittime della tratta è costituita da moldave, ucraine e donne dell’ex Unione Sovietica. A quel tempo erano albanesi e arrivavano secondo una modalità abbastanza atipica cioè attraverso il marito, il fratello, il cugino, erano gli stessi clan famigliari che portavano le donne in Italia per avviarle alla prostituzione e questo fu un fenomeno che colpì molto l’opinione pubblica perché un marito che vendeva la moglie o un fidanzato che vendeva la propria ragazza veniva visto come un segno di grande inciviltà. In quel periodo si stavano anche sviluppando, sul nostro territorio, le mafie albanesi per cui nacque un discorso pubblico che tendeva a criminalizzare i clan albanesi ritenuti responsabili ma a vedere poco, a mio avviso, la condizione nella quale si trovavano le donne. Il numero degli arrivi in Italia aumentò a partire dalla crisi albanese del ’97 mettendo ancora più in chiaro il collegamento tra questo fenomeno migratorio e gli avvenimenti nel paese di origine. Come racconta una donna intervistata nel libro quello fu per molti un periodo di grande incertezza per il futuro: in patria i pochi settori vitali dell’economia vennero monopolizzati dalle multinazionali e dal capitale straniero mentre l’idea che, dopo la caduta del muro di Berlino finalmente non esistessero più barriere alla possibilità di emigrare in cerca di migliori condizioni di vita, si scontrò con una realtà molto diversa. Gli albanesi che giunsero in Italia negli anni ’92 – ’93 si accorsero che migrare non voleva dire semplicemente riuscire ad attraversare l’Adriatico con un’imbarcazione per essere accolti a braccia aperte in Italia ma invece scontrarsi con il rifiuto, essere respinti a forza, rimandati indietro. Gli albanesi, e con loro i migranti dai paesi dell’Est europeo, si resero conto che il “passaggio ad occidente” rappresentava un lungo e complicato processo attraverso cui bisognava passare con grandi rischi e molta fatica. A questo proposito credo che dovremmo interrogarci su quale modello di società e di sviluppo abbiamo esportato in paesi come l’Albania, anche attraverso le immagini televisive ed altri mezzi di comunicazione, dobbiamo chiederci come è possibile che un marito arrivi ad essere disposto a portare la moglie in Italia e a spingerla su una strada per ottenere quel tenore di vita, quegli oggetti che desidera e che non potrebbe raggiungere in altri modi. Il punto non è quello di giustificare scelte di questo tipo ma di cercare di comprendere la profonda complessità di questo fenomeno. Non possiamo limitarci all’aspetto criminale ma cercare di comprendere le ragioni individuali che nascono da un contesto sociale ed economico di grande povertà e deprivazione che non possiamo dimenticare. Il problema oggi è che spesso ci riempiamo la bocca del termine globalizzazione economica senza averne però la minima comprensione: globalizzazione significa innanzitutto interdipendenza dei fenomeni, significa che non possiamo mettere da parte la questione della tratta perché parliamo di prostituzione come di un tabù legato alla sessualità, relegandola così tra i temi minori. La guerra, il potere delle multinazionali, lo sfruttamento delle risorse dei paesi più poveri sono temi che si collegano a quello della migrazione e della tratta degli esseri umani all’interno di un sistema complesso di fattori legati gli uni agli altri, questo dobbiamo sempre tenerlo ben presente.
D. Uno degli aspetti che emerge dal titolo del libro è quello della “volontarietà” del partire, del migrare. Nella presentazione avete definito la prostituta non solo come vittima ma anche come attore non unicamente passivo: ritieni che questa immagine si applichi anche alla prostituta albanese, alla sua storia di frequente sopraffazione?

R. Credo che si debba fare chiarezza sul termine “volontarietà” per non incorrere in fraintendimenti. Per me e anche per Carla, volontarietà non significa mai, ovviamente, che una ragazza albanese a cui venga proposto di venire in Italia a fare la prostituta accolga con entusiasmo o con gioia una simile proposta. Il discorso della volontarietà va posto in termini di chance, di opportunità, di possibilità che la realtà offre a queste persone. Grazie alla mia esperienza di lavoro in Albania non mi è poi così difficile immaginare cosa possa pensare, sognare, desiderare per il proprio futuro una ragazzina cresciuta in uno sperduto villaggio di montagna come tanti di quelli che ho visitato. Una ragazzina che vive in una povera casa, si alza presto la mattina per accudire le sue mucche e vive in una famiglia fortemente maschilista nella quale non ha alcuna voce in capitolo, neppure nella scelta del proprio marito. La situazione in città è già diversa, lì è più facile per due giovani conoscersi, innamorarsi e decidere di creare una famiglia ma nelle aree rurali la realtà è molto più dura. La domanda allora è questa: quali possibilità ha questa ragazzina di vivere una vita diversa da quella alla quale è costretta? Cosa riesce a spingerla a fare la prostituta, a vivere un’esperienza così difficile e traumatica pur di lasciarsi alle spalle la vita precedente? Non può essere considerata veramente una scelta volontaria quella di sfuggire ad una vita ritenuta insopportabile per andare incontro ad una speranza, nonostante l’emarginazione e la sofferenza che questa comporta. E questa speranza non è solo quella di una migliore condizione economica ma spesso principalmente quella di una fuga dalla discriminazione di genere subita nel paese d’origine. Si consideri poi che tra le donne che arrivano in Italia sapendo di doversi prostituire ce ne sono molte che sono spinte dall’illusione di poterne uscire, di guadagnare abbastanza soldi e cambiare lavoro, magari di sposarsi e crearsi una famiglia e una vita normale. Molte di esse in realtà non ci riescono, non riescono a realizzare quel progetto che le ha spinte a partire e ad accettare la strada, vengono uccise o subiscono la violenza dei trafficanti ma anche dei clienti, di gente “normale” che le considera peggio dei criminali nonostante la prostituzione in Italia, al contrario di molti altri paesi del mondo, non sia considerata reato. Sono donne non di rado anche istruite, che affrontano una situazione per loro fortemente scioccante e che sanno fare di necessità virtù pur di tenere vivo un progetto di cambiamento per le proprie vite.

D. Il grosso problema della tratta è l’enorme quantità di violenza che viene riservata alle donne che ne sono vittime anche solo per quanto veniamo a sapere dai rapporti ufficiali sul fenomeno. Si prova un forte senso di frustrazione di fronte a questa realtà: esiste, secondo te, uno spazio d’azione sociale, collettiva, individuale nel quale si possono costruire reti di solidarietà o di attività politica che uniscano donne di paesi diversi contro la riduzione in schiavitù?

R. A mio avviso il problema più grosso legato alla tratta di esseri umani non è tanto quello della violenza, che certamente non è da sottovalutare, quanto quello dell’enorme giro d’affari che ruota intorno ad essa. Si deve tener presente che quando si parla di tratta di esseri umani si parla di uomini, donne, bambini e non solo di quelli avviati alla prostituzione o all’accattonaggio ma anche dei lavoratori sfruttati nelle piccole imprese informali presenti sul territorio, nei lavori agricoli, nei lavori domestici; esiste anche un traffico di bambini adottati illegalmente e addirittura un commercio sotterraneo di organi umani. Tutto questo complesso sistema che chiamiamo tratta di esseri umani è in mano alle mafie più potenti del mondo, le stesse che controllano il traffico di armi e di stupefacenti, che ne ricavano guadagni enormi e che lucrano sempre di più sulla pelle di chi migra illegalmente: si calcola che la tratta di persone sia oggi il secondo traffico più vantaggioso dal punto di vista del guadagno e sempre più organizzazioni spostano la loro attenzione e i loro sforzi verso questa attività criminale, ritenuta per di più molto meno rischiosa delle altre. L’unico a rischiare veramente infatti non è il trafficante ma la sua vittima, costretta ad acquistare documenti falsi o a viaggiare privo di essi e quindi soggetta spesso all’arresto, alla detenzione o all’espulsione. Questo intreccio molto stretto fra la tratta di esseri umani e le grandi mafie che vi lucrano mi pare l’aspetto più grave e preoccupante considerando anche che negli ultimi anni sono diventate così numerose le persone che desiderano migrare ad ogni costo che da un certo punto di vista il ricorso alla violenza e alla coercizione è diventato superfluo e meno redditizio.

D. Intendi dire che il fenomeno della violenza nell’ambito della tratta è ormai superato?

R. Voglio dire che il fenomeno seppur ancora presente è andato diminuendo di gravità negli ultimi anni. Oggi conviene di meno minacciare o uccidere una donna, il rischio di conseguenze legali è troppo alto rispetto al guadagno in termini di azione criminosa. E’ una realtà il fatto che il gran numero di persone che fungono da “serbatoio” per la tratta nelle sue varie forme rende in qualche modo meno necessaria la violenza, almeno nei gradi a cui eravamo abituati in passato. Non dispongo di cifre precise ma credo che anche i dati ufficiali sugli omicidi di prostitute in Italia, dopo il picco degli anni ’99 – 2000, vadano in questa direzione. Credo che al contrario si ponga poca attenzione verso altri aspetti legati al traffico di persone ed al loro sfruttamento: si pensi ai gestori di night club, ai tassisti, agli affittuari, a tutti coloro i quali vivono e speculano sulla pelle di chi finisce nella rete della tratta. Clamoroso è il caso di una prostituta che a San Berillio vicino a Catania si è vista costretta a pagare 600-800.000 lire per la stanza in cui esercitava la sua attività, sotto la minaccia di una denuncia per ingresso clandestino nel nostro paese. Queste sono realtà molto diffuse e che andrebbero considerate con più attenzione.
D.
Questi atteggiamenti hanno a che fare, secondo te, con il generale fenomeno della xenofobia che porta a de-umanizzare le persone, a negargli dignità e a calpestarne i diritti?

R.
Ha certamente a che fare con questo così come la xenofobia spinge spesso molte donne verso la prostituzione piuttosto che verso un lavoro da badante in qualche famiglia italiana. In molte case italiane ci sono badanti straniere, quasi sempre sottopagate, prive di contributi per la pensione e di permesso di soggiorno, persone che vivono in vera e propria clandestinità sociale, prive degli elementari diritti e della possibilità di inserirsi nella nostra realtà socio-economica. A questo si aggiunga il fatto che spesso queste persone hanno bisogno di inviare soldi a casa per sostenere la propria famiglia e che non riescono a farlo con i 500 euro mensili che ricevono e che se ne vanno quasi tutti per la sopravvivenza personale. Queste donne sono spinte dalla disperazione e dalla necessità verso la strada vittime anche del nostro perbenismo indifferente.
Il fatto che possa nascere solidarietà tra noi e i migranti, anche se io preferisco parlare tra donne di sorellanza che da il senso di orizzontalità del rapporto, dipende molto dallo sguardo che abbiamo e dall’idea di loro che noi ci facciamo, passa attraverso la capacità di vedere nella donna che si prostituisce non una pericolosa criminale ma una persona che porta con se un’esperienza di vita travagliata, il desiderio di un futuro, la forza per tenere vivo un progetto esistenziale. E’ estremamente importante non dimenticare che molte donne non desiderano uscire dalla prostituzione, o in senso lato dalla tratta, perché quella condizione, per quanto difficile, offre loro qualche possibilità in più di pagare i propri debiti, di sostenere la famiglia lontana, di non incappare nella vendetta dei trafficanti e protettori, e forse anche di costruirsi il futuro sognato. L’idea che sta alla base dell’articolo 18 (articolo di legge che da vita a progetti finanziati dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri che consentono a donne vittime di tratta di ottenere un permesso di soggiorno speciale e di entrare nei percorsi di “protezione sociale”) non tiene conto del fatto che non tutte le donne desiderano essere reinserite nel paese di origine e che per alcune di esse ciò comporta notevoli rischi per la propria incolumità fisica e psichica. La cultura albanese ad esempio non considera la prostituzione un’opzione possibile per una donna, questo fa si che pensare a progetti di reinserimento risulti una scelta che mette a rischio la vita stessa della donna e va contro la sua stessa volontà. Offrire loro corsi di formazione professionale, che spesso sono il solito corso per parrucchiera o di sartoria, insegnare la lingua italiana e offrire altri lavori, come ad esempio quello di badanti, non sembra rappresentare per molte donne, per i motivi già detti, un’opportunità migliore rispetto all’esercizio della prostituzione.
D.
Intervistare queste persone, dare loro voce significa considerarle attori di un processo e non solo elementi passivi: a tuo avviso, quali possibilità hanno questi uomini e queste donne di dare vita attivamente ad un cambiamento delle loro condizioni esistenziali?


R. Siamo noi che possiamo dar loro la possibilità di farsi attori di un cambiamento. Deve però cambiare prima il nostro atteggiamento culturale, quello che alimenta la xenofobia e le scelte legislative che ne conseguono. Il discorso pubblico allarmistico, basato sulla paura e sull’ignoranza, ha creato il terreno per l’approvazione di leggi quali la Bossi-Fini: ciò che va detto a gran voce è che queste leggi non bloccano la tratta, come si vuole far credere, ma al contrario la incentivano. Siamo un popolo che ha nella sua storia un passato di emigrazione in ogni parte del mondo, dovremmo ricordare quanto questo fenomeno è stato significativo per i nostri antenati, dovremmo ricordare che la Carta dei Diritti Umani delle Nazioni Unite garantisce ad ogni cittadino del mondo la possibilità di scegliere dove vivere. Impedire ai popoli di migrare liberamente significa negare loro un diritto, costringere le persone a cadere nell’illegalità, a finire vittime della tratta. Quando non si permette ad un uomo o a una donna di entrare legalmente in un paese per cercare un lavoro e una vita migliori li si costringe a farlo illegalmente e questo può avvenire solo con grandi rischi e a prezzi molto alti. Le grandi mafie del traffico di umani sono le uniche che se ne avvantaggiano senza che il numero di migranti diminuisca come si vorrebbe.
D.Qual è l’immagine di noi che emerge dai racconti e dalle testimonianze delle donne intervistate?

R. E’ un’immagine contraddittoria ma anche molto bella. Quando ti raccontano la loro vita tu percepisci molte aree di grande sofferenza ma quella che ti accorgi essere più intensa è legata al senso di emarginazione che esse subiscono. Tutte, senza esclusione, raccontano esperienze di profonda emarginazione, il dolore di non essere considerate degne di rispetto, il senso del rifiuto, del disprezzo. C’è la donna di colore che non ha più il coraggio di andare agli appuntamenti per cercarsi un lavoro perché non può sopportare lo sguardo di chi la vede inferiore, c’è la ragazza albanese che racconta la vergogna per come essere definito albanese rappresenti l’insulto più pesante tra la gente. Eppure nessuna di loro desidera andarsene, tutte continuano a considerare l’Italia un luogo dove esistono democrazia, civiltà, solidarietà, alcune raccontano che nel nostro paese hanno imparato cosa sia la solidarietà. Se si fa eccezione per le donne sudamericane, che per motivi culturali faticano ad apprezzare il tipo di vita che fanno in Italia, molte di esse hanno una forte determinazione a restare qui, a trovare il proprio posto nella nostra società: questo è ciò che desiderano e pensare di rimpatriarle, pensare a progetti di reinserimento nel paese d’origine risulta crudele e incomprensibile. Come facciamo a scendere in piazza contro la lapidazione di Safya o Amina in Nigeria quando molte delle donne che forzatamente vengono rimpatriate vanno incontro allo stesso rischio? Come possiamo rimandare in Albania delle donne sapendo che andranno incontro a violenza brutale e profonda emarginazione sociale? Queste donne sentono che in Italia vale la pena di vivere: noi dovremmo garantire loro, per le sofferenze e le violenze subite nel nostro paese, percorsi di riparazione che vadano incontro ai loro desideri, alla loro volontà. Partire dalla conoscenza di ciò che queste donne vogliono per sé è fondamentale e imprescindibile. E invece l’unico discorso che si leva è quello sulla necessità del rimpatrio e della difesa della “fortezza Europa” dal pericolo delle migrazioni: la realtà smentisce questa paura, ci dice che abbiamo bisogno di forza lavoro, che non siamo invasi da nessuno ma tutto ciò che siamo capaci di fare è pensare a leggi che ci consentano di tenere sotto controllo questi flussi per quanto può coincidere con i nostri interessi.
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