Nicole Janigro, saggista e giornalista, attraversa le ferite ancora aperte di Prijedor. Un breve scritto che descrive un suo recente soggiorno nella cittadina del nord della Bosnia.
Edvard Munch - Notte stellata
Da anni il Progetto Prijedor, costituito da molte associazioni ed enti locali trentini, sperimenta percorsi di diplomazia popolare a Prijedor, Bosnia settentrionale. Nel 2002 si è iniziato a lavorare per la costituzione di un Forum Civico, forma per valorizzare le istanze della società civile, in grado di dialogare criticamente con le istituzioni locali e regionali e con gli organismi internazionali. “E prima ancora” chiarisce Michele Nardelli, tra i promotori del progetto, “luogo utile per sostenere i processi di riavvicinamento, attraverso un percorso di ricerca-azione attorno ai temi che vanno sotto il capitolo ‘elaborazione del conflitto’”. All’interno di questo percorso è stata invitata a Prijedor Nicole Janigro, scrittrice, giornalista, laurea in psicologia, che, in questi anni, ha sviluppato il tema della disintegrazione della Jugoslavia, dell’elaborazione del conflitto e della colpa. Il seminario da lei tenuto è stato molto intenso. Particolarmente interessante il lavoro sul “diario” delle persone nel tempo della pulizia etnica, così come il lavoro finale su alcune domande chiave poste ai partecipanti: cos’è stato per te l’inizio della guerra? Cosa la fine della guerra? Cosa l’elaborazione del conflitto? Nicole Janigro ha scritto per l’Osservatorio un breve testo su questi suoi giorni trascorsi in Bosnia.
Camminando per le strade di Prijedor, arrivando alle pendici del monte Kozara, in una regione attraversata dai fiumi Sava, Una e Vrbas, dove i boschi ancora suonano, è la bellezza del paesaggio che inquieta: ogni fiume qui è stato frontiera, ogni ponte ha i suoi morti, ogni casa nuova rimpiazza le rovine di quella precedente. La storia del Novecento la si ritrova ad ogni passo: nei musei, nei cimiteri, nelle lapidi, nelle fabbriche-cattedrali del socialismo autogestito trasformate in camerate di tortura, nelle miniere abbandonate divenute discariche di cadaveri. E lo scenario industriale conferma il legame fra distruzione di massa e sviluppo tecnologico.
A Prijedor il “gusto di uccidere” ha segnato le generazioni e il panorama, i morti e vivi stanno lì in equilibrio precario – sulle montagne della Kozara ci fu una delle battaglie più cruente della seconda guerra mondiale, i monumenti portano incisi i nomi dei 9901 partigiani uccisi, i musei indugiano sugli orrori. Le ultime guerre balcaniche hanno violentato l’ambiente – ora cresce l’erba dove prima c’era una moschea antica, mentre la nuova moschea e la chiesa ortodossa paiono Stanlio ed Olio, appoggiate l’una accanto all’altra nel tentativo di pareggiarsi.
Tornare per seppellire i morti, per ricostruire esistenze segnate dai lutti, per ricominciare nonostante il sommarsi dei traumi: significa già elaborare il conflitto? Ognuno deve scegliere in quale tempo vivere, decidere dove mettere l’accento: sulla guerra, sul passato remoto, su quello prossimo, comune, sul futuro. Ogni spostamento nella cronologia è anche una tacca della propria biografia.
Ma, per citare chi al progetto dell’Agenzia della democrazia Locale di Prijedor ha partecipato, se “la guerra è stata in ogni casa”, “la pace comincia con me”.
N.J.