Tra il ‘42 ed il ’43 il nostro esercito internò nel campo di Gonars migliaia di persone: quasi 500 morirono in pochi mesi. Il progetto: ripopolare il territorio sloveno con italiani. Un articolo di Alberto Bobbio pubblicato su Famiglia Cristiana.
Partigiani Sloveni uccisi da soldati italiani
E’ una storia rimossa che emerge oggi, 65 anni dopo, con grande difficoltà dalle pieghe della memoria. E’ la storia della pulizia etnica all’italiana, che ha lo stesso linguaggio, nasce dalle stesse intenzioni e procede con le stesse azioni dei signori della guerra nei Balcani dell’ultimo decennio del secolo appena passato. Cambiano i nomi, ma quello dell’alto commissario fascista di Lubiana, annessa al Regno d’Italia nel 1941, Emilio Grazioli, potrebbe essere equivalente a quelli di Milosevic o Karadzic, e a quelli dei generali Mario Robotti e Mario Roatta al generale serbo Ratko Mladic o al croato Ante Gotovina, criminali di guerra.
Ma nessun militare né civile italiano è mai stato processato da un tribunale. L’Italia si è assolta e l’amnistia del dopoguerra non ha permesso neppure di conservare la memoria giudiziaria dei fatti. Ora qualcosa lentamente riemerge e il difetto di conoscenza e di coscienza collettiva è tragico. Alessandra Kersevan, ex insegnante di scuola media in Friuli, ricercatrice a contratto in didattica delle lingue all’Universitа di Trieste, ha pubblicato, con il contributo del Comune di Gonars, uno straordinario studio sul campo di concentramento fascista di quel paese, ricostruendo tutta la storia della "pulizia etnica all’italiana" in Slovenia e in Croazia.
Spiega la Kersevan: “Ho lavorato per 15 anni negli archivi sloveni a Lubiana, all’archivio di Stato di Udine e in quelli dell’Esercito italiano a Roma. Gonars è una faccenda tutta italiana. Tra il 1942 e il ’43 vennero internate migliaia di persone, rastrellate dall’Esercito italiano, donne, vecchi, bambini. Quasi 500 morirono in pochi mesi”.
Ma Gonars, come le altre decine di campi di concentramento fascisti, rimase invisibile nell’Italia del dopoguerra. Spiega il professor Spartaco Capogreco, docente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università della Calabria, il maggior esperto dei campi di concentramento fascisti, di cui a febbraio uscirа per Einaudi il volume
I campi del Duce: “E’ una storia di minimizzazioni e amnesie, che hanno offuscato gravi e precise responsabilità e che hanno contribuito all’affermazione di un pregiudizio, quello della naturale bontà del soldato italiano. Va anche rilevato il potente effetto assolutorio di Auschwitz nei confronti degli altri campi di concentramento. Ma ciò non giustifica l’oblio, né della politica di internamento fascista né della pulizia etnica all’italiana”.
Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Roatta, Robotti e Grazioli fanno circondare Lubiana con reticolati di filo spinato: la cittа diventa così un immenso campo di concentramento. Robotti spiega al Duce il suo "metodo deciso": “Gli uomini sono nulla”, e comunica la sua intenzione di “arrestare in blocco gli studenti di Lubiana”. I rastrellamenti sono operati dai Granatieri di Sardegna. Il generale Orlando, comandante della divisione, prevede lo sgombero delle persone “prescindendo dalla loro colpevolezza”.
Alla fine di giugno Orlando comunica che con l’arresto di “5.858 persone si è tolto dalla circolazione un quarto della popolazione civile di Lubiana”. Scrive il tenente dei Carabinieri Giovanni De Filippis in un promemoria che Alessandra Kersevan ha rintracciato a Roma: “Continua caotico e disorientato il procedimento dei fermi… La popolazione vive in uno stato di vero incubo”.
La filosofia della pulizia etnica era stata indicata nella circolare "3C" del generale Roatta: “Internamento di intere famiglie, uso di ostaggi, distruzione di abitati e confisca di beni”.
“Internamento di massa”
Il 24 agosto 1942 Grazioli prospettava al ministero dell’Interno “l’internamento di massa della popolazione slovena” e la sua “sostituzione con la popolazione italiana”. Robotti spiega ai comandanti: “Non importa se all’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Quindi sgombero totalitario. Dove passate, levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei, quindi paghi”.
In un altro rapporto, Robotti lamentava: “Si ammazza troppo poco”. Roatta raccomandava l’uso dell’aviazione e dei lanciafiamme per distruggere i paesi.
Il campo di Gonars, allestito per gli arrestati sloveni, in poche settimane è pieno. In estate viene approntato in fretta e furia il campo di tende sull’isola di Rab: donne, vecchi e bambini sono ospitati in condizioni disumane.
Il vescovo di Krk, monsignor Srebnic, il 5 agosto 1943 in una lettera al Papa parlerà di più di “1.200 internati morti”. Alla fine del 1942 il sottosegretario all’Interno Buffarini dа notizia al Duce che “50.000 elementi sloveni” sono stati internati in Italia.
Nell’autunno 1942 la diocesi di Lubiana fa arrivare alla Santa Sede un documento dal tono molto preoccupato, che chiedeva interventi per evitare che i campi “diventino accampamenti di morte e di sterminio”. Il Vaticano la inoltra al ministero dell’Interno fascista. Risponde proprio il generale Roatta, minimizzando la situazione, contestando i dati e rimproverando il Vaticano: “Molte delle lagnanze affacciate dal Vaticano sono destituite di fondamento. I comandi militari non hanno bisogno di suggerimenti per quanto riguarda i doveri di umanità”.
Più volte la Chiesa cattolica interviene a favore degli internati sloveni nel campo di Gonars, che alla fine del 1942 sono oltre 6.000. I vescovi di Lubiana, Rozman, di Gorizia, Margotti, e di Krk, Srebnic, sollecitano un’iniziativa della Santa Sede. Il segretario di Stato vaticano, cardinale Luigi Maglione, invia a Gonars il nunzio apostolico in Italia Borgoncini-Duca, il quale però non riesce a capire le reali condizioni di vita e scrive che “il vitto non manca e l’acqua è abbondante”.
Altre testimonianze raccolte da Alessandra Kersevan sono assai diverse. Il segretario dell’arcivescovo di Zagabria Stepinac, don Lackovic, nel ’43 denuncia alla Croce Rossa italiana che a “Gonars si trovano oltre 4.000 croati, in maggioranza donne e bambine che soffrono molto e muoiono in gran numero”. Il salesiano padre Tomec descrive al Comitato di assistenza di Gorizia la terribile situazione di Gonars in una lunga relazione: “La gente muore di fame. La minestra è acqua nella quale nuotano due chicchi di riso e due maccheroni”. E chiede la possibilitа di inviare pacchi di viveri ai prigionieri.
Il 27 marzo 1943 il prefetto di Udine impone all’Autorità ecclesiastica di bloccare i pacchi per evitare che “aiuti siano prodigati a una razza siffatta che non ha mai nutrito, né nutre, sentimenti favorevoli all’Italia”. E a Lubiana Grazioli ordina di “far cessare ogni assistenza in favore degli internati”.
Punizioni, torture, orrore
Slavko Malnar, ex internato a Gonars, ha raccontato alla Kersevan: “Avevo 6 anni e pesavo 13 chili. Con altri bambini cercavamo il cibo nei bidoni della spazzatura. Se trovavamo qualche grosso osso lo spaccavamo per succhiare il midollo. Mia madre era incinta. Mio fratellino è nato il 3 febbraio 1943. E’ morto qualche mese dopo”. Poi c’erano le punizioni, le torture, insomma, l’orrore di ogni campo di concentramento.
Oggi non c’è più traccia del campo di Gonars. Nel cimitero del paese sono sepolti 400 internati, ricordati da un grande sacrario costruito nel 1973.
Spiega il sindaco Ivan Cignola: “Ricordare la tragedia e riconoscerne le responsabilitа italiane non è solo un problema storico, ma anche di sensibilità civile”. Tutti i protagonisti di questa vicenda non sono mai stati incriminati: Emilio Grazioli venne arrestato dopo la guerra per due eccidi commessi in provincia di Ravenna. Le accuse circa il suo operato a Lubiana non vennero menzionate. Tornato subito in libertà, sparì.
Dei vari comandanti del campo di Gonars solo l’ultimo, il capitano Macchi, noto per la sua ferocia, venne ucciso dai partigiani nel 1944. Il generale Robotti è morto ed è stato dimenticato.
Il generale Roatta riparò in Spagna. Poi usufruì di un’amnistia. Una sua foto è tuttora appesa alle pareti dell’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
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