Pubblichiamo la traduzione italiana del commento uscito questa mattina sulle pagine del quotidiano serbo “Danas”
La moschea di Belgrado data alle fiamme
Pubblicato sul quotidiano belgradese “
Danas” il 19 marzo 2003
Traduzione di Luka Zanoni
Alla tragedia in Kosovo è stato aggiunto un altro fatto terribile e sanguinoso. Decine di morti e centinaia di feriti, danneggiate numerose chiese ortodosse, ospedali, scuole, case, nuovi tributi all’insensatezza, all’odio, all’incomprensione della comunità internazionale per le reali dimensioni dei problemi dei Balcani, ma soprattutto alla incapacità della elite politica, questa volta degli albanesi kosovari, di marginalizzare gli estremisti nella loro nazione.
Per il Kosovo, almeno in un immediato futuro, non ci sono buone soluzioni. Ce ne sono di più o meno cattive. Tutta l’energia e l’intelligenza perciò deve essere usata per cercare quelle giuste, le quali faranno male a tutti, le quali toglieranno qualcosa a tutte le parti, ma gli offriranno anche qualcosa. Se l’estremismo, l’esclusività, l’estrema intolleranza – che sempre più compaiono sulla scena pubblica – prevarranno, allora addio Kosovo, ma addio anche alla Serbia, addio alla civilizzazione, addio al futuro. Nessuno può affermare che l’esperienza storica e le differenze etniche di origine, di fede, di lingua, di cultura tra i Serbi e gli Albanesi siano maggiori di quelle, diciamo, tra i neri e i bianchi del Sud Africa. Se loro, dopo decenni di forte apartheid, sono riusciti ad allacciare il dialogo, la tolleranza e convivenza, perché non si potrebbe provare anche in questi luoghi.
Bene, uno dei problemi è che i Balcani non hanno Mandela. Si è visto anche la scorsa notte a Belgrado. Solo Velimir Ilić e il vescovo Amfilohije hanno tentato, a costo della proprio incolumità, di impedire l’escalation della violenza. Gli altri erano solo in televisione. Ma questo, però, non è sufficiente perché si possano placare le passioni roventi.
I serbi del Kosovo si sentono meglio dopo le urlate richieste di armi per uno “scontro finale” e l’incitazione all’odio sciovinistico nei confronti degli Albanesi nelle strade delle città serbe? Il patriarcato di Pec e di Gračanica sono più sicuri dopo gli attacchi alla moschea di Belgrado e di Niš? I discorsi negativi – imposti da un’intelligenza elementare – aumentano ulteriormente la responsabilità del potere il quale non è riuscito a superare uno dei primi e maggiori esami.
È come se la capitale, la notte scorsa, fosse stata difesa da due polizie: una non sicura, non organizzata, non attrezzata, poco numerosa, che si è fatta scudo con l’alibi che avrebbe tentato di difendere la moschea di Bajrakli, ma ecco, non è stato possibile; l’altra senza compromessi e risoluta nell’impedire qualsiasi serio danno all’ambasciata americana. Con ciò, che razza di messaggio è stato inviato al mondo? A chi, comunque, può giovare il supporto degli hooligans, quando per loro è uguale che si tratti di una partita di calcio, della cattura di Šljivančanin o del dramma in Kosovo, quando non distinguono tra Albanesi, Croati, Bosgnacchi, omosessuali o fotoreporter, tanto l’importante è bere, picchiare, rubare, rompere, bruciare.
La Serbia del dopo Milošević in questi giorni si trova ad uno dei più importanti e assai dolorosi bivi. Per la scelta nella giusta direzione, ora più che mai, è necessario tutto ciò che almeno fino ad oggi non ha brillato: tranquillità, tolleranza e prima di tutto, la maturità, sia come nazione che come elite che la guida. Non accadrà, si spera, che per chissà quale motivo si inciampi nello stesso sasso.
A Madrid ci sono stati 200 morti. Milioni di cittadini sono usciti per strada per esprimere cordoglio e solidarietà. Ma non è bruciata alcuna moschea.
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